Mese: <span>Luglio 2006</span>

Penso ai ragazzi campagnoli della Cina da quando ho letto sui giornali che nelle scuole di Wuhan sta prendendo piede l’idea di formare classi separate di “figli di contadini” e “figli di cittadini”, per facilitare l’inserimento dei secondi che “quando arrivano in città presentano molte lacune nella loro preparazione”. Mi sento in causa, essendo stato, a 11 anni, in una classe “preparatoria” alla “prima media”, composta di campagnoli come me che non avevano dato l’esame di ammissione – non conoscendone neanche l’esistenza – e di cittadini che non l’avevano superato. In Italia non abbiamo più contadini, ma ora abbiamo gli stranieri. Per essi e per ogni svantaggiato, a partire dai “diversamente dotati”, credo si faccia bene a non cedere alla tentazione della separazione e vedo nel loro inserimento – pur faticoso – uno dei pregi maggiori delle nostre scuole. Dico così la mia veduta: le classi separate intrecciano più nodi – umiliazione degli uni e pregiudizio di superiorità negli altri – di quanti non ne sciolgano, e cioè il più efficace adeguamento degli uni al livello degli altri. Ma anche questo nodo ha la sua rilevanza e spesso nelle nostre indiscutibili classi uniche non solo non viene sciolto, ma neanche allentato.

– Perché stai così zitto?
– Sono triste.
– Ma sei vivo, come fai a essere triste?
– Sono triste triste triste…
– Fai tu! Io sarò triste da morto, ma non da vivo.
(Dialogo tra due barboni ascoltato sul bus 75, a Roma)

Credo che il dramma di Israele lo dovremmo sentire molto di più come un dramma nostro e lo dovremmo pensare al futuro: che ne sarà tra cinquant’anni? Certo che c’è il problema immediato della sua sicurezza, insidiata da tutti quelli, intorno, che ne vogliono cancellare l’esistenza, come appare sempre più chiaro dalla sequenza coordinata degli ultimi attacchi venuti da Hamas e dall’Hezbollah. C’è quello stato di necessità che porta a una reazione sproporzionata, quale appunto era voluta dagli attaccanti. Forse davvero lo Stato di Israele non può agire diversamente. Ma noi europei – oltre a dirci solidali – dovremmo interrogarci, in mezzo allo sconcerto di oggi, sul dramma di domani e dovremmo chiederci, anche per conto dei fratelli ebrei, quale potrà essere il futuro di quella nazione a noi spiritualmente gemella, incastonata in mezzo al mondo arabo. Preso nell’ansia della sopravvivenza quotidiana, l’Israele politico raramente pensa in termini di futuro. L’Europa forse può aiutarlo a questo, ovviamente facendosi carico del suo presente. Dovremmo anche noi porci – ogni volta – la domanda su quale potrebbe essere l’armamento dei nemici di Israele tra mezzo secolo, sulla sproporzione tra arabi ed ebrei che si potrebbe verificare all’interno delle sue frontiere e su quale potrebbe essere il sentimento dei vicini che non gli sono nemici. La sopravvivenza a lungo termine vuol dire pace con il mondo arabo. Ma non vi sarà pace se non cresce un sentimento di convivenza con e nelle popolazioni arabe che l’attorniano: sentimento che ogni atto di guerra allontana nel futuro. E che mai si affermerà se non si rimedia alla sofferenza in cui è posto il popolo palestinese. Non possiamo lasciare soli i due popoli. Dobbiamo trovare il modo di costruire le condizioni per l’avvicinamento. Dovremmo occuparci molto di più di ciò che accade laggiù.

“Mi trovo pienamente nel comunicato del G8, mi sembra che quello indichi la strada. Non ho altro da aggiungere, se non richiamare l’importanza della preghiera perché Dio ci aiuti e ci doni la pace”: così il papa ieri ai giornalisti che gli chiedevano una battuta sull’eruzione mediorientale. Impressiona l’umiltà delle parole di papa Benedetto. In effetti il suo appello di domenica e la deliberazione di San Pietroburgo – venuta poche ore dopo – si toccavano a ogni riga, ma egli poteva riformularli nel proprio linguaggio, aggiungere un grido del cuore. Si è limitato a parlare come avrebbe potuto fare un cristiano comune, spogliandosi dei toni alti dei moniti papali. Al punto di equilibrio formulato dagli uomini di buona volontà, assistiti dai migliori esperti, ha aggiunto il richiamo alla preghiera. Ammiro questa semplicità. Essa comporta più novità di quante al momento siamo in grado di comprendere. Ma qualcuna ne possiamo intuire. La via più feconda credo sia quella di ascoltarlo come uno che parla a nome di tutti (vedi post del 13 luglio). 

Mi ferisce il passo veloce di una mamma che va avanti e indietro con il passeggino cercando di addormentare il bambino. E’ vero che al mare siamo tutti un po’ nervosi, ma avevo già notato a Roma, in chiesa, lo stesso spettacolo: una donna giovanissima muoveva il passeggino con la destra, quasi a scatto, accanto al banco dov’era seduta. Immagino che le mamme d’oggi, costrette a imparare la velocità quando sono alla guida di un’automobile, o quando lavorano al computer, debbano fare un esercizio mentale, più che fisico, per riscoprire la lentezza sorella della tenerezza. Una volta si diceva che era lei che la insegnava a lui, quando arrivava il bambino: lei che già sapeva da nove mesi i ritmi della nuova vita. Arrivo infine alla spiaggia e trovo – sotto l’ombrellone accanto – una mamma più giovane delle altre che ride lentissima al pupo di pochi mesi, mentre lo imbocca. Mi conforto a quella vista e dico a me stesso: lodata sia la maternità, che insegna a due e a tre creature alla volta l’arte di vivere e quella di amare (vedi post del 13 luglio).

Uno dei figli – Beniamino – mi parla del disagio che prova a camminare per le vie del centro, a Roma, piene di mendicanti, che paiono essere aumentati con l’estate. Lo scrittore Giorgio Montefoschi raccontava poco fa sul Corriere della Sera d’essere tornato dopo anni in India e d’aver chiesto a suor Nirmala, che ha preso il posto di Madre Teresa, se finirà la povertà a Calcutta e nel mondo: “No – fu la risposta – non finirà mai, perché non finirà mai l’egoismo dell’uomo”. Prendo queste parole come una spiegazione – aggiornata ai tempi – del detto di Gesù: “I poveri li avrete sempre con voi”. E dico a Benimino che a mia memoria i mendicanti sono venuti aumentando per le vie di Roma, a misura che aumentava il benessere generale: quando ci arrivai, quarant’anni addietro, ne vedevo uno qua e là, oggi cammino tra mani tese.

Libano: “Mamma che vuol dire bombardare?” Gli israeliani bombardano Beirut e una mamma libanese, Joumana Haddad, racconta sul Corriere della Sera di non aver saputo rispondere alla domanda del figlio di sei anni Ounsi: “Mamma, che vuol dire bombardare?”. Lei vuole che il bambino cresca spensierato e dice: “E’ uno stupido gioco cui a  volte giocano i grandi”. – Ho cinque figli e ho rivissuto con ognuno la scoperta del mondo attraverso la magia delle parole. Sono arrivato alla convinzione che quello che non possiamo dire ai bambini fa male a noi.

Ho pensato molto a Sergio d’Elia (vedi post precedente) in queste settimane di aggressione nei suoi confronti e sono lieto che la canea inscenata da quanti lo volevano far dimettere sia fallita. Dovremmo interessarci molto di più a chi è in carcere e alle sue possibilità di recupero. Ed esultare ogni volta che uno si riscatta. Anche il gesto di clemenza per i carcerati dovremmo pensarlo come finalizzato soprattutto alla funzione correttiva della pena. Ma più in generale bisognerebbe che sentissimo il mondo carcerario, con i suoi enormi drammi, come parte della società e quegli uomini come fratelli. Si impone sempre più, invece, la tendenza ad allontanare le carceri, anche fisicamente, dalle città. Ho parlato ultimamente con uno che è stato in diversi carceri e che dice: “Il peggiore era quello nuovo poco fuori Ancona, in campagna. Lì non arriva nessun rumore. A San Vittore si sente il tram, all’Ucciardone puoi ascoltare i ragazzi che gridano fuori???. Occorre opporsi al trasferimento delle carceri in campagna. Viene meno il senso della reciproca appartenenza. 

“Non intendo rimanere ostaggio della memoria, del mio passato, per quello che ho fatto e per quello che non ho fatto. Non intendo subire la maledizione del mito di Sodoma, che condanna a volgere lo sguardo all’indietro, marchiato a fuoco sulla pelle con una frase indelebile: tu non cambierai mai”. Così Sergio d’Elia (vedi post del 3 giugno: “Solidale con Sergio ex terrorista e deputato”). Credo che il “mito di Sodoma” (o forse della “moglie di Lot”, che guardando indietro diviene di sale) sia il frutto di un equivoco tra intervistato e intervistatore, ma in queste parole, riportate ieri dal “Corriere della Sera”, trovo un sentimento della vita che i cristiani dovrebbero avvertire come simile al loro: che cioè nessuno – sia pure un terrorista, come fu d’Elia – è condannato a non cambiare, come se non possa vincere l’istinto a volgersi indietro e quella vista lo tramuti ogni volta in una statua di sale. Gesù considera sempre aperto in avanti il destino d’ognuno, mai bloccato all’indietro.

“Il lieto amore con il quale i nostri genitori ci accolsero e accompagnarono nei primi passi in questo mondo è come un segno e prolungamento sacramentale dell’amore benevolo di Dio dal quale veniamo”: era questa la seconda citazione che volevo fare dai discorsi spagnoli di Benedetto XVI, a segnalazione (vedi post dell’11 luglio) di ciò che intendo quando penso al papa che parla a nome di tutti i cristiani. L’impegno inventivo che Benedetto mette nel proporre gli elementi forti della vocazione evangelica è forse il suo dono migliore. Egli ha la voce per farlo, egli lo fa a nome di tutti. Ecco un’altra citazione dall’omelia di Valencia, indicativa di quella capacità di comunicazione dell’attrattiva d’amore del messaggio evangelico: “Maria è l’immagine esemplare di tutte le madri, della loro grande missione come custodi della vita, della loro missione di insegnare l’arte di vivere, l’arte di amare.”