Mese: <span>Agosto 2006</span>

“Visita guidata alla stanza del questore di Montalbano, martedì e giovedì ore 20-23???: letto su un pannello in vetro all’ingresso del palazzo comunale di Scicli. Tumultuosa Scicli, che aveva abitatori delle grotte fino agli anni sessanta, su per le balze del colle di San Matteo, quando non ce n’erano più a Matera e ha ora quel cartello da coatti televisivi ma anche – cento metri più in là, nei pressi di via Castellana – il “Circolo ricreativo tunisino???. Ci torno domani per saperne di più.

Salta dal mare un pesce,

una ragazza salta dentro l’onda ricurva

e un uomo di Agrigento, Empedocle di nome,

improvvisamente sa, anzi ricorda

d’essere stato mare, pesce e femmina leggera.

(Omaggio a Jorge Louis Borges e alla poesia che inizia con il verso “Salta del mare un pez”)

Passa una donna arguta tra colonne

nella gran luce. Chiudimi in un bacio.

(Omaggio a Sandro Penna e alla poesia che inizia con il verso “Passano i buoi pesanti con l’aratro”)

 

“L’acqua si perde ma a noi non la danno”: letto su un cartello di legno, posto a modo di segnale stradale sulla statale 115 Trapani-Siracusa, dopo la deviazione per “Scala dei turchi” e prima dell’uscita per “Porto Empedocle-Vigata”. A Porto Empedocle è nato Andrea Camilleri, che l’ha rinominata “Vigata” e i suoi concittadini hanno voluto adottare quel nome d’arte. Potenza del mestiere antico dell’affabulatore.

Dalla rupe di Erice ho visto tre volte l’alba che si apriva sulle Egadi, sulla Via del Sale e sulla città di Trapani dalla bella pianta. Arrivando, venerdì 18, avevo trovato l’incendio di un bosco a chiudere la via d’accesso che passa per la Valderice. Incredibile bellezza che qui trovi, incredibile oltraggio alla bellezza che qui incontri.

“Chissà se quando saremo andati / ci saranno ancora innamorati” (letto su un muro di Trapani, nei pressi di Palazzo Riccio di Morana). Amare vuol dire temere, per sè e per tutti. Anche Gesù una volta ebbe un presentimento tristissimo: “Ma il Figlio dell’uomo, quando tornerà, troverà ancora la fede sulla terra?”

Sorpresa delle sorprese, per chi – come me – aveva programmato il giro marittimo della Trinacria ponendo a obiettivo la raccolta di qualche segno della presenza antica e nuova dell’Islam; sorpresa massima a Segesta, dicevo, dove ho trovato un segno nuovo – non c’era nel 1992, l’ultima volta che ero stato qui – di una presenza antica: cioè la segnalazione nel punto più alto dell’area archeologica, sul monte Barbaro, dei resti di una moschea e di un cimitero islamico. Non credevo a quello che leggevo, sul pannello in vetro e alluminio! Insomma, qui a Segesta non abbiamo da esultare soltanto per il teatro che dà verso il mare e per l’incantevole tempio con colonne senza scanalature, ma anche per il ritrovamento, lungo l’ultimo decennio, di un insediamento musulmano databile al XII secolo e cioè in piena epoca normanna, qualche decennio dopo la cacciata militare degli arabi, quando quassù si rifugiano i contadini decisi a resistere alla forzosa riconversione al cristianesimo, come forzosa era stata – due secoli prima – la loro conversione all’Islam. Si rifugiano in un luogo da tempo abbandonato, dopo essere stato sicano, greco, romano e bizantino. Infine i vandali l’avevano devastano e dopo secoli di abbandono risorge come Qual’at Barbari, Calatabarbaro in siciliano. Questo nome non aveva una chiara interpretazione fino a che gli archeologi, l’altro ieri, non hanno rimesso in luce le mura perimetrali di una moschea, identificata come tale per la presenza della qiblà, cioè la nicchia che indica la direzione della Mecca. E accanto un cimitero dove i sepolti erano posti in “posizione laterale con il volto in direzione della Mecca”. Com’è pensabile che una comunità musulmana a dominante indigena abbia la forza di costruire una moschea forse mezzo secolo dopo la cacciata degli arabi (la caduta di Noto, ultima piazzaforte, è del 1091)? Sappiamo che la presenza musulmana cessa soltanto con Federico II (egli muore nel 1250), quando infine tutti i musulmani superstiti alla riconversione vengono trasferiti a Lucera di Puglia. Può essere che su un monte desolato, alcuni “giapponesi” dell’Islam, abbiano trovato – magari per cent’anni – un loro habitat relativamente indisturbato? I dotti ricostruttori delle stratificazioni di civiltà messe in luce dagli archeologi dicono di sì e a me piace crederlo. Chi volesse verificare vada ai capitoli La moschea e Il cimitero islamico del volume Segesta de La Medusa editore (Marsala 2005).

“Dio raddoppia a te quello che tu auguri a me”: letto in un bar di Petralia Soprana, nel parco delle Madonie. Un’idea della grazia – avrebbe detto Sciascia – come valore negoziabile e dunque “tipicamente siciliana”. Il mio giro è lungo i tre litorali, ma so da me che non si può dire d’essere stati in Sicilia senza qualche puntata all’interno, perchè la Trinacria è certo esaltata dai mari, isola quant’altra mai, ma è anche “tutta rivolta all’interno, aggrappata agli altipiani e alle motagne” (ancora Sciascia: La corda pazza, Einaudi 1970, p. 204). Dunque ieri sono stato a Novara di Sicilia, dopo la gita a Tindari: e sono andato lassù a cercare, oltre quella sorprendente Novara dalle chiassose piazzette (chi lo direbbe che la Sicilia interna ha gente così socievole ai tavoli dei bar?), il valico di Sella Mambrazzi, 1.125 metri slm, per vedere l’Etna al di là della valle dell’Alcantara. E infatti l’ho vista, la gran pignatta accesa, che avevo già osservato – negli anni – dall’aereo, da Catania, da Lentini, da Acireale, da Aci Trezza, da Troina e appena l’altro ieri dal castello di Milazzo. L’ho rivista fumante nella calicola del primo pomeriggio. Oggi volevo rivederla, quell’Etna, dalla 124, la statale delle Madonie. Ma c’era foschia e dal belvedere di Petralia Soprana si scorgeva appena Gangi, come una manciata di sassi bianchi in un mare di crete gialle. Premio della gita è stato l’incontro con Paolina Città, che gestisce – con il figlio Antonio – il “Bar centrale”, in piazza del Popolo 6. Scrive poesie, la signora Paolina e condivide la mia idea che la Sicilia non la capisci se resti sulle coste: “Si sbagliano, tutti questi bagnanti! Perchè c’è ancora tanta vita nei paesi dell’interno”. Mi recita dal bancone suoi testi editi e inediti. Uno intitolato Sicilia: “Se te talia a secco / sento lu core che s’assuttiglia” (Se ti guardo attentamente, sento il cuore che mi si stringe). E ancora: “Te chiamavano tutti Conca d’oro / per tutte quante le bellezze rare, / ora la Conca è chiena di dolore / e le lacreme spannone de fora”. Paolina dice che di arabi e musulmani qui ce ne sono pochi “e non di tutti ti puoi fidare, come degli altri cristiani” ma ce ne sono anche “per bene”, che vendono “le cose loro”. Do un passaggio a un pastore che si chiama “Vincenzo di nome e De Maria di cognome”, mi spiega che gli arabi “vengono a vendere, ma non vogliono fare la terra”. Lui ha terra, buoi e pecore ma “non più le capre”,  che ha cessato di tenere “qualche anno addietro” perchè “non c’era risultato”.

“Tindari mite ti so / tra larghi colli pensile sull’acque / dell’isole dolci del dio”: così dice la poesia Vento a Tindari di Quasimodo, riprodotta sulla parete dell’Azienda di soggiorno e turismo. Il “vento” del titolo è metafora della sventura “che m’ha cercato l’anima”. Oggi non c’era vento sulla rupe di Tindari ma appena un alito che saliva dal mare e ti salvava dal fiato caldo che scendeva dal sole. Ho visto due donne vestite alla musulmana portare fiori alla Madonna e le ho interrogate, da dove venissero e se fossero cristiane e non ho avuto una sola parola di risposta, sia che non avessero inteso le domande, sia che non osassero parlare a un uomo. Mi sono confermato nell’idea che fossero “muslim” e ho provato a immaginare che preghiere potevano portare alla “Madonna nera” insieme a quel mazzo di margheritone. Lei del resto dev’essere ben esperta di preghiere randagie, come questa che ho letto su un guard-rail a duecento metri dal santuario, all’altezza del teatro greco: “Prego il Signore e la Madonna del Tindari di cancellarti da me al più presto e di non farmi più soffrire”.

“Se fossi un giudice ti condannerei ad amarmi per sempre”: letto sul parapetto del belvedere, al faro del Capo di Milazzo. Mi ricorda una frase dell’immenso carteggio che Kafka scambia con Felice e che dice qualcosa come questa: “Dal momento che tu hai tanta autorità su di me, potresti approfittarne per indurmi ad amarti”. – Dal faro e poi dalla terrazza del Castello (arabo e normanno, aragonese, svevo e spagnolo) mi sono goduto la grande scena dei Peloritani e dell’Etna, mentre il sole scendeva su Alicudi e Filicudi. La guida faceva notare gli angoli del monastero benedettino “in pietra bianca simbolo cristiano di purità” e quelli del mastio in pietra lavica, “simbolo musulmano di Allah”. Forse un riferimento arbitrario alla “pietra nera” della Mecca. Lasciavo dire, distratto dalla moltitudine dei fichi d’India, giù dalle balze della rupe su cui sorge il castello, lontani eppure vividi all’occhio, da poterli distinguere ditonzolo per ditonzolo.