Mese: <span>Luglio 2007</span>

Una nipote che vive nelle Marche – dove sono nato – mi manda questa piccola storia vera, che considero un’aggiunta a quelle che ho raccontato nel volume Islam. Storie italiane di buona convivenza. Grazie Agnese, ti voglio bene! 

Sono in ospedale con il nostro bimbo di 4 anni, Riccardo, per un controllo. La caposala ci assegna una stanza, entriamo, è buio, l’odore che si respira non è gradevole. Nell’ombra scorgo una ragazza con il velo che le copre i capelli. Penso a dove siamo capitati. 

Ripongo le mie cose con un po’ di freddezza e noto su un letto la  piccola Elahe immobile con un tubo alla gola, attaccata ad un macchinario che le consente di vivere. Esmet, la mamma, apre le finestre per cambiare l’aria. Ci accoglie con un grande sorriso e ci presenta la figlia. 

Inizialmente é un po’ difficile capirsi con la lingua. Esmet e Elahe sono iraniane, ma lei era insegnante nel suo paese come lo sono io nel mio e iniziamo a parlare. Nasce una bella intesa e anche Riccardo si avvicina al letto per accarezzare Elahe. 

Esmet mi ha chiesto di scriverle le preghiere italiane: l’angelo di Dio, il Padre nostro, l’Ave Maria. Le abbiamo regalato il Vangelo, ci ha ringraziato in modo unico come pochi sanno fare. Erano in ospedale da due anni impedite a rientrare in Iran perché la bambina non reggerebbe il viaggio senza la macchina che la tiene in vita. 

Ora Esmet e la figlia sono uscite e abitano vicino all’ospedale così per le emergenze lo possono raggiungere in poco tempo. Elahe vive immobile nel suo lettino in una cameretta con tanti giochi che non userà mai. La mamma ha decorato la stanza con pupazzetti attaccati ai vetri, ha cucito delle tendine dolci e colorate.  

A Natale hanno chiesto a un infermiere di assistere la bambina e sono venuti a casa nostra, a Riccardo hanno regalato un microscopio. La loro visita è stato il più bel regalo di Natale che la nostra famiglia abbia ricevuto. 

Ci sentiamo spesso e quando posso le vado a salutare. Il marito di Esmet cerca un lavoro ad Ancona per stare vicino alla famiglia. Per ora riesce a venire solo il fine settimana. Grazie a Dio per questo incontro. Agnese Accattoli

“Francesca che brilla nel cielo come la luna. Super Nello”: letto sulla parete di sinistra della galleria romana Principe Amedeo Savoia-Aosta per chi la percorra andando verso il Tevere.

Dedico tre battute a Gaspare Barbiellini Amidei che ci ha lasciati l’altro ieri a 72 anni: quella che mi disse al momento della mia assunzione al Corsera nell’agosto del 1981, una dell’ultimo incontro e una terza con cui gli hanno reso “onore” i colleghi di “Avvenire”. L’assunzione l’aveva decisa il direttore Alberto Cavallari che dopo firmato il contratto mi portò da Barbiellini Amidei che aveva la carica di “vicedirettore vicario”. “Non ho nessun merito o demerito per la tua assunzione – disse quando restammo soli – perché neanche sono stato consultato, ma sono contento perché ti conosco come un cristiano e qui siamo davvero pochi. Questo crocifisso che ho messo alla parete credo sia l’unico in tutta la redazione”. L’ho visto l’ultima volta il settembre scorso, all’indomani dell’incidente di Regensburg e questo fu il suo commento: “Dobbiamo aiutare il papa a intendere le ragioni dei musulmani e dobbiamo aiutare i laici a capire che ha ragione il papa. Con i musulmani noi giornalisti non credo che possiamo fare nulla finchè non ci sarà libertà nei loro paesi”. Infine Avvenire che ha dedicato a Gaspare queste belle parole: “In tempi e in ambienti in cui non era facile dichiararsi cattolici egli non si è mimetizzato, diventando un chiaro punto di riferimento”.

Un ragazzo vicino alla laurea tornando a casa dalla palestra si affaccia sul giardino e dice: “Papà e mamma, vi devo parlare”. Il papà – che sta dando acqua alle piante – risponde da dietro una siepe: “Parla alla mamma che poi mi dice”. “No” fa il ragazzo, “ci dovete essere tutti e due”. “Accidenti” pensa il papà: “E’ andato a sbattere con la macchina”. “Invece doveva dirci che aveva deciso di farsi prete”, conclude il mio amico commosso.

A proposito della messa tridentina ci scrive un amico missionario in Congo che già aveva partecipato ai nostri dibattiti e che anche stavolta invita a guardare più ampiamente e andare al largo. Il suo è un aiuto a ridimensionare i problemi mettendoli – come è giusto – su un tappeto grande quanto il pianeta. Grazie Mario!
Kinshasa, 11 luglio 2007 – Caro Luigi, vedo nel tuo sito e altrove molti interventi circa il motu proprio sulla Messa tridentina, come se si trattasse di un evento che mette in questione il cammino conciliare. Tutto questo, visto di qui, mi sembra un po’ esagerato. Voglio solo portare la testimonianza di cosa capita qui a Kinshasa ove da molti anni convivono pacificamente i due riti: quello Romano e quello Zairese, senza che alcuno pensi che siano in contraddizione (entrambi però seguono il Messale e Lezionario di Paolo VI). Inoltre in quasi tutte le parrocchie di Kinshasa alla domenica vi è la Messa “latino-francese” ove si cantano molte parti in latino (Asperges, Kyrie, Gloria, Credo, Prefazio, Pater) mentre il resto è in francese. Ho sentito molto più latino qui a Kinshasa che in Europa o in nord America. Una tipica domenica di Kinshasa avrà la Messa in rito zairese (dura almeno 2 ore) in lingua lingala con molti canti e danze; una Messa latino-francese e una Messa francese alla sera. Tutte frequentatissime e ben curate sia nella rispetto delle norme liturgiche del sacerdote e ministri che nel canto molto curato (ogni parrocchia ha varie corali ben preparate). Per quanto posso capire, non credo che il Motu Proprio porterà scompiglio o scandalo nella Chiesa della Repubblica Democratica del Congo (che è pur la più vasta d’Africa con oltre 30 milioni di cattolici). Un cordiale saluto a te e alla tua famiglia. Complimenti per il tuo sito che consulto ogni giorno (quando c’è corrente e riesco ad aprire internet). Mario Barbero

Le righe della lettera del papa ai vescovi – pubblicata sabato ad accompagnamento del motu proprio sulla messa – che meglio mi hanno raggiunto sono queste: “Si tratta di giungere ad una riconciliazione interna nel seno della Chiesa. Guardando al passato, alle divisioni che nel corso dei secoli hanno lacerato il Corpo di Cristo, si ha continuamente l’impressione che, in momenti critici in cui la divisione stava nascendo, non è stato fatto il sufficiente da parte dei responsabili della Chiesa per conservare o conquistare la riconciliazione e l’unità; si ha l’impressione che le omissioni nella Chiesa abbiano avuto una loro parte di colpa nel fatto che queste divisioni si siano potute consolidare. Questo sguardo al passato oggi ci impone un obbligo: fare tutti gli sforzi, affinché a tutti quelli che hanno veramente il desiderio dell’unità, sia reso possibile di restare in quest’unità o di ritrovarla nuovamente”. Credo che indirettamente qui vi sia riassunto il sentimento di papa Benedetto nei confronti del mea culpa wojtyliano: esso principalmente ci ammaestra sul dovere di fare ogni sforzo perchè la “colpa” non si ripeta.  

Da Claudia Petrosillo (vedi post del 31 agosto 2006 e del 15 maggio 2007) ricevo questo messaggio e l’abbraccio – insieme alle figlie – a nome di tutti i visitatori:

Mercoledì 11 luglio saranno due mesi da quando Orazio ci ha lasciato ed è in questa occasione che vogliamo ringraziare tutti quelli che hanno dimostrato il loro dolore, la loro costernazione. La terribile notizia dell’11 maggio in pochissimo tempo ha fatto il giro del mondo, da bravo giornalista qual’era non poteva essere diversamente. La vostra vicinanza al nostro dolore ci ha aiutate in quei giorni terribili, le parole commosse che molti hanno detto o scritto continueranno sempre a farlo. Non è stato facile leggerle, per questo vi ringraziamo in ritardo. Mai le dimenticheremo e siamo certe che anche Orazio ne sarà stato felice e sicuramente ci avrà donato uno dei suoi sorrisi così tanto apprezzati. Grazie. Eleonora, Marta e Claudia Petrosillo

Due importanti documenti di papa Benedetto – forse i più importanti come “governo”, tra quanti ne ha firmati fino a oggi – sono usciti di sabato e non sono stati presentati con la rituale conferenza stampa: sabato scorso la lettera ai cattolici cinesi e oggi il “motu proprio” sulla messa tridentina. Pur non volendo cavare grandi significati da piccoli indizi, da vecchio accreditato della Sala Stampa vaticana ricordo che sempre i suoi responsabili hanno avuto cura di non pubblicare documenti importanti il sabato per non incappare nel deserto mediatico del fine settimana, che in Italia avvertiamo poco ma che è totale in Germania, Gran Bretagna, America del Nord e vastamente nel mondo. Altra precauzione è stata sempre quella di incoraggiare l’attenzione dei media con una presentazione affidata ai maggiori responsabili del documento, che si offrivano alle domande dei giornalisti. E’ evidente per i due casi di oggi e di sabato scorso l’intenzione di alleggerire l’impatto mediatico. Devono aver temuto che una buona eco mondiale della lettera ai cinesi costringesse Pechino a una precipitosa risposta negativa. Per la liturgia avranno pensato che era bene non assecondare l’eccesso di attesa che la querelle in materia aveva già acceso in Francia e in America. Una strategia di abbassamento della soglia di percezione era stata adottata – con altra soluzione – nel 2003 per la pubblicazione di un documento della Congregazione per la dottrina intitolato “Considerazioni circa i progetti di riconoscimento legale delle unioni tra persone omosessuali”: invece che di sabato, quel testo fu dato ai media il 31 luglio che è forse – in Europa – il giorno dell’anno con la minore vigilanza mediatica in assoluto. Naturalmente fu dato senza conferenza stampa.

Ancora gabbiani su Roma a grido alto, di notte e di giorno, vividi nel sole o specchianti ai fari puntati sui monumenti (vedi post del 19 giugno). Ma ci sono altre città con un fiume che gli porta i gabbiani? L’acqua va scura al mare e per lo stesso alveo a noi arrivano i bianchi richiami di quelle ali spiegate. Picchiano a beccare pesci che non ci sono. Gridano a stormi e da solisti. Il loro volo si impenna quando incrociano i proiettori del Campidoglio. Gabbiani chi siete?

Siamo stati a Roma e il mondo può anke finire. 6.10.05 Cri e Vero“. Letto su una parete della Galleria Principe Amedeo Savoia-Aosta, lungo il marciapiede di destra per chi cammina verso il Tevere. Quando si dice l’entusiasmo! Imagino che i due si chiamino Cristian e Veronica e che la loro venuta a Roma sia costata qualcosa. Mi piacerebbe risentirli dopo quasi due anni, per sapere che cosa ne è venuto. – Per un’altro grido di felicità con annesso ringraziamento a Roma, in occasione – probabilmente – dell’ultima notte bianca, vedi post del 27 marzo.