Mese: <span>Settembre 2008</span>

Finito di scrivere per il Corsera sono tornato alle dieci di sera al santuario per la provvista d’acqua. Ho comprato in un negozio tre piccole taniche di plastica con l’immagine della Vergine su un fianco, capaci di un mezzo litro ciascuna. Le ho pagate tre euro. Con esse sono andato alle “fontane” – cioè alle cannelle che si trovano sul fianco del santuario, nella zona tra la rampa che sale alla basilica superiore e la Grotta. Sono una trentina. Sul muro che le sovrasta c’è scritto: “Lava il tuo viso, bevi quest’acqua e prega Dio che purifichi il tuo cuore”. Le persone qui si lavano, bevono e riempiono taniche e bottiglie. Ho fatto la coda e ho riempito le mie tanichette: una per la suocera che si chiama Rita, una per Anita mia sorella, una per la cognata Anna. L’acqua nel mio parentado è affare di donne. Tornando all’Hotel Gallia cammino accanto a donnette che trasportano taniche da cinque e dieci litri, curve da un lato come il giorno che l’acquedotto è in panne e vanno a rifornirsi alla fontana. Trovo un gruppo di donne africane, vestite a grandi colori, che portano le taniche sulla testa in bell’equilibrio. Le saluto, mostro le mie tanichette e ridiamo della nostra semplicità.

In questo santuario di Lourdes, verso il quale i cristiani del mondo intero rivolgono lo sguardo da quando la Vergine Maria vi ha fatto brillare la speranza e l’amore, dando ai malati, ai poveri e ai piccoli il primo posto, siamo invitati a scoprire la semplicità della nostra vocazione: in realtà, basta amare”: così ha parlato Benedetto stasera a conclusione della processione “aux flambeaux”. Altre volte (vedi post del 21 novembre 2007) avevo segnalato la forza con cui papa Ratzinger addita la sostanza del cristianesimo, anzi il cuore dell’umano. Un’altra espressione breve e magistrale ha avuto stasera: “Vivere l’amore cristiano è far entrare la luce di Dio nel mondo e, insieme, indicarne la vera sorgente”. Dedico ai visitatori queste parole forti mentre li assicuro di averli tutti con me qui a Lourdes, dando ai malati il primo posto.

«Per sua stessa natura la Chiesa cattolica si sente impegnata a rispettare l’Alleanza conclusa dal Dio di Abramo, d’Isacco e di Giacobbe. Essa pure infatti si situa nell’Allenza eterna dell’Onnipotente, i cui disegni sono senza pentimento, e rispetta i figli della Promessa, i figli dell’Alleanza, come suoi amati fratelli nella fede. Essa ripete con forza attraverso la mia voce, le parole del grande Papa Pio XI, mio venerato predecessore: Spiritualmente, noi siamo semiti. Il teologo Henri de Lubac, in un’ora ‘di tenebre’, come diceva Pio XII, comprese che essere antisemiti significava anche essere anticristiani. Una volta ancora sento il dovere di rendere un commosso omaggio a coloro che sono morti ingiustamente e a coloro che si sono adoperati perchè i nomi delle vittime restassero presenti nel ricordo. Dio non dimentica». Così ha parlato questo pomeriggio Benedetto a una delegazione della comunità ebraica di Parigi, ricevuta in Nunziatura. Dedico queste parole del papa ai miei visitatori invitandoli a non litigare su di esse, ma a fare festa a esse.

Achille, mio fratello più grande, sei partito prima che io potessi rispondere alla tua ultima lettera. Non ho fatto in tempo non perché mi fosse appena arrivata ma perché era la più severa che mi avessi mandato e non avevo ancora trovato le parole. Come sempre apprezzavi il mio modo di fare informazione ma stavolta non ti limitavi a qualche consiglio: mi dicevi che era necessario “maggiore coraggio”, che non bastava più raccontare onestamente e aiutare a capire, ma c’era da esercitare una responsabilità laicale e dovevano farlo quelli che erano dotati di parola. Ripetevi per il contesto attuale quello che vent’anni addietro avevi obiettato al modo in cui era recepito in Italia il pontificato wojtyliano: dicevi cioè che si correva – e si corre – il rischio di avere “un grande papa in un grande vuoto”. Già in altra occasione ti avevo detto che il cristiano comune può rivendicare quella responsabilità alla quale richiamavi solo in ragione dell’autorità personale acquisita. Ricordo che tu mi avevi risposto: “Hai ragione, ma viene il momento in cui bisogna buttarsi”. Essendoti tu ora allontanato con tanta decisione, non mi è possibile obiettare oltre e ti dico che è vero, bisogna buttarsi e io mi sto esercitando a farlo. Anche con questo blog.

Alessia Favilla io farò come Florentino Ariza” (nome del protagonista de L’amore ai tempi del colera di Gabriel Garcia Marquez, dove la protagonista femminile si chiama Fermina Daza): letto sul muro dell’istituto tecnico Galileo Galilei in via Conte Verde (zona di piazza Vittorio) a Roma. Può valere come promessa di amore eterno, o potrebbe voler dire che Alessia al momento ha un fidanzato e che lo scrivente attenderà anche tutta la vita, come appunto capita a Florentino Ariza. Nel favoloso racconto di Garcia Marquez, Florentino ama Fermina che a 18 anni lo pianta “dopo alcuni amori lunghi e sofferti” e va sposa a un altro. Passati “cinquantun anni, nove mesi e quattro giorni”, salutati i partecipanti al funerale del marito, Fermina si trova davanti Florentino che le parla così: “Ho atteso questa occasione per più di mezzo secolo, per ripeterti ancora una volta il giuramento della mia fedeltà eterna e il mio amore per sempre”. – La scritta mi è stata segnalata dalla quarta dei miei figli, Matilde (vedi post del 31 luglio).

Avete presente come si fa serio un sardo quando uno del Continente azzarda una parola nella sua lingua? Ieri il papa ha pronunciate sette parole sarde, durante l’omelia a Santa Maria di Bonaria, citando un canto e provocando un momento di emozione collettiva: “Lei è la mamma, la figlia e la sposa per eccellenza: ‘Su mama, fiza, isposa de su Segnore’ come amate cantare”. Un applauso che non voleva finire. Ma il papa teologo non ha osato tradurre alla lettera “sposa del Signore” e ha interpretato quell’espressione ardita con le parole “sposa per eccellenza”. Una carità di lingua che mi ha ricordato altri casi in cui il teologo Ratzinger echeggiava una parola audace correggendola, pur mostrando di amarla. Ecco due esempi che prendo dal libretto Fede e futuro (Queriniana 2005, ma la prima edizione tedesca è del 1970). A p. 30 egli cita questa “sentenza” dell’amato Bonaventura: “Credere autem omnes articulos explicite et distincte… non est de generali fidei necessitate” (che cioè non sia necessario “credere in maniera specifica e distinta ogni articolo di fede”) e la parafrasa così: “neppure importa conoscere o penetrare tutte le particolarità e tutti i singoli contenuti della fede”. A p. 115 prevede per il futuro l’ordinazione al sacerdozio di “cristiani provati” che sta per il classico “viri probati” – che nel linguaggio ecclesiastico sta per “sposati in età matura”. Allude cioè alla stessa soluzione con un’espressione attenuata, come a rendere accettabile l’idea a chi ne sia contrario. Così è fatto il nostro papa: egli coltiva un profondo sentimento di ogni parola e la cova nel cuore prima di proporla e la propone – se può – già masticata come facevano le mamme quando non c’erano gli omogeneizzati. Perchè sia evitato ogni scandalo e ognuno intenda a partire dal più debole. 

– Mamma perché quel signore ha gli occhi rossi? – chiede un bambino camminando all’indietro e guardando in faccia un vecchietto che va nella sua stessa direzione, lungo il tunnel che dall’aereo porta all’aerostazione.

– Perché è stanco. Dopo un viaggio così, siamo tutti stanchi – fa la mamma

– E’ vero che sei stanco? – si sincera il bambino.

– Sono forse stanco ma è anche che ne ho viste tante nella vita – interloquisce il vecchio.

– Vuoi dire che hai pianto? – insiste il piccolo.

– Ho pianto, si capisce. Ho riso e ho pianto – spiega il vecchio.

– E se piangi ti vengono gli occhi rossi! – fa quello trionfante.

– E’ vero ma non ti preoccupare, tu piangi pure se capita perché i tuoi occhi sono così belli che non diventeranno mai rossi – conclude il vecchio.

Dialogo ascoltato all’arrivo a Cagliari con il volo Meridiana IG1788 proveniente da Roma Fiumicino.

Mando un saluto a Lucetta Scaraffia ora che è nella bufera e avendo dovuto occuparmi per due giorni delle reazioni al suo articolo per l’Osservatore romano su “I segni della morte”. Un saluto per dirle la mia simpatia per il suo volto e il suo nome – Lucetta è parola di luce – e il mio dispiacere per il fatto che il chiasso dei media non abbia permesso di cogliere il suo richiamo a fare attenzione – la massima attenzione – a ogni momento dello spegnersi di ogni vita, magari dubitando oggi degli encefalogrammi come ieri degli specchi che non si appannavano davanti alla bocca di chi forse più non respirava. In un punto il mio saluto vorrebbe porsi come un incoraggiamento ad andare oltre la propria sensibilità e mi riferisco alla ritrosia nei confronti dei trapianti che Lucetta ieri ha così confidato all’agenzia Apcom: “Ho un po’ di resistenza, non riesco ad accettarli. Vorrei che si mettessero più in discussione”. Io penso invece che la frontiera dei trapianti sia una delle più feconde per l’umanizzazione dell’uomo (vedi post del 3 giugno) e ritengo importante che quella comprensibile ritrosia – che riscontro in famiglia e tra i colleghi di lavoro – impariamo a superarla tutti insieme, come famiglia umana. Forse un giorno intenderemo l’intera avventura dell’uomo come donazione: dall’incontro del seme e dell’ovulo al latte della madre, a ogni dono di acqua e di cibo, al calore salvavita, alla respirazione bocca a bocca, alla trasfusione del sangue, ai trapianti e domani a chissà che altro. Un’avventura che è solo agli inizi. La donazione del sangue e degli organi – che ieri non era possibile – mostra che si può dare oltre l’immaginabile e oltre la morte. Che puoi dare la vita morendo. Una possibilità nuova dell’umano.

Mi sono iscritto a La Bibbia giorno e notte dove leggerò il capitolo 13 del Vangelo di Giovanni – il venerdì 10 ottobre alle ore 19,13 nella Basilica di Santa Croce in Gerusalemme a Roma. Sono contento d’aver avuto in sorte il compito di leggere la narrazione giovannea dell’ultima cena con la lavanda dei piedi, Giovanni sul petto di Gesù che chiede del “traditore”, il boccone dato a Giuda e Satana che entra in lui, il comandamento nuovo, Pietro che promette di dare la vita e il Signore che gli prevede il rinnegamento al canto del gallo. Ho un mese e una settimana per prepararmi a quella lettura secondo l’ultima revisione Cei della traduzione: penso sia importante leggere al meglio quanto sarà udito da molti. Lo dico – dell’iscrizione e della preparazione – come mio contributo al dibattito che qui c’è stato sull’evento di Santa Croce nei commenti al post del 28 agosto e come riallaccio a quanto già si era discusso sotto a un post del 17 marzo 2007: www.labibbiasenzasosta.it. A chi non condivide l’impresa dico che trovo utile ogni iniziativa che metta in contatto l’umanità di oggi con la Scrittura. Le obiezioni dei visitatori le terrò con me nella preparazione alla lettura.

L’ultima tappa della vacanza è nella Toscana di maggior sogno, tra San Quirico d’Orcia e Montepulciano. Sono ospite del Podere Spedalone, un agriturismo che è lungo la strada per Cosona nel comune di Pienza, in provincia di Siena. Il canto del gallo al primo chiaro e le oche al primo scuro sono le uniche voci. Giancarlo – il responsabile dell’agriturismo – mi mostra le antiche pietre su cui è costruito l’edificio, che appartenne ai Monaci Olivetani e fu un ospizio della Via Francigena. A San Quirico ho visto un ragazzo e una ragazza con il bastone e il grosso zaino dei pellegrini, neri dal sole e polverosi, che venivano dal Paese basco a andavano verso Roma. Abbiamo guardato insieme le sculture del portale della collegiata romanica che è attribuito a Giovanni Pisano. I segni del pellegrinaggio li ho trovati dovunque, in quest’ultima fase della vacanza: lungo ogni ramo della Francigena, che percorreva la Toscana intrecciando alla via Cassia le sue varianti; a Bobbio, dove i romei salivano a venerare San Colombano; e persino nella parrocchiale di Riomaggiore (Cinque terre), dove una conchiglia segnala che lì attraccavano le imbarcazioni che portavano ad Arles o da Arles riportavano chi faceva il camino di Compostela e l’accorciava con un passaggio in mare. La Toscana più di ogni altra regione è piena delle memorie dei pellegrini e io mi figuro il giorno in cui esse saranno meglio curate e segnalate, al pari di quelle etrusche, allo scopo di dire per completo la storia da cui veniamo.