Mese: <span>Settembre 2009</span>

Finalmente ho potuto vedere VIA DELLA CROCE – che è stato presentato alla Mostra del Cinema di Venezia tra il 2 e il 10 settembre – e ne sono entusiasta. Si tratta di una Via Crucis girata con attori di strada, per le calli e i campielli di Venezia, da Serena Nono con gli ospiti della Casa dell’Ospitalità di Sant’Alvise con i quali aveva già realizzato OSPITI nel 2008: http://www.viadellacroce.org/. I “poveri cristi” della Casa – barboni e sbandati di varia provenienza – danno il meglio di sé come interpreti della Passione di Cristo che solo per i poveri è davvero una “lieta novella”. Per intendere lo spirito di questa sacra rappresentazione  svolta da persone che recitano il Cristo recitando se stesse – i quadri delle diverse stazioni sono inframmezzati dalle loro storie di vita, quasi sempre un po’ lunghe – può valere una battuta di uno dei protagonisti: “Qui sono tutti matti e io sto bene con loro. Siamo dimenticati e abbandonati ma prediletti da Dio”. La scena della flagellazione echeggia “La flagellazione” di Piero della Francesca, il compianto sul Cristo morto cita il Mantegna e altri tableau vivants si rifanno a Caravaggio, Tiziano, Tintoretto, Bellini, Giotto. C’è tra i protagonisti un Pilato estroso e colorato interpretato da Alberto Bucco e c’è – tra le comparse – un pensoso Massimo Cacciari che viene in quadrato mentre la musica di Bach commenta le parole “reclinato il capo emise lo spirito”. Cinquantasei minuti che ti dicono come siano bravi i poveri a recitare il Vangelo e come sia adatta Venezia a fare da scenario alla loro recitazione.

Vedo alcuni visitatori dubbiosi o contrari all’appellativo di “fratelli maggiori” rivolto agli ebrei da papa Wojtyla il 13 aprile del 1986 nella Sinagoga di Roma [vedi commenti al post precedente]. Ero quel giorno nella Sinagoga, con la kipà in testa, e ascoltai con esultanza tutto il saluto di Giovanni Paolo e avvertii che quel “nome” gli era uscito dal cuore e da allora l’ho accolto nel mio e mai ne uscirà. Conosco le  obiezioni a quell’appellativo, ma nessuna mi convince. Mi pare evidente che il papa non l’avesse calcolato teologicamente, nè biblicamente, nè in rapporto a particolari linguaggi interni alla tradizione ebraica: semplicemente l’aveva scelto per esprimere calore verso dei fratelli venuti prima, che quel giorno era andato a visitare nella loro casa. Io l’intendo benissimo quell’intenzione e amo quel nome. Lo rivolgo a ogni ebreo che incontro e sempre li trovo contenti della scelta: ricordo la felicità con cui Elio Toaff al mio saluto “buon giorno fatello maggiore” mi rispondeva “caro”, come appunto si fa in famiglia. Sarà perchè sono cresciuto con cinque fratelli a me maggiori in età e perchè sono spettatore di quanto i miei figli minori amino i maggiori – sarà per questo e per la mia contrarietà a moltiplicare le questioni disputate, ma a me piace chiamare gli ebrei fratelli maggiori.

Di nuovo un Papa nella Sinagoga di Roma: l’evento può essere stato accelerato dalle polemiche dello scorso inverno seguite alle uscite “negazioniste” del vescovo lefebvriano Williamson, o da quelle – di poco precedenti – sulla preghiera per gli ebrei nella liturgia del Venerdì Santo, ma esso è di prima grandezza e va guardato in sé stesso, prima di raccordarlo a vicende contingenti. La Sinagoga di Roma è la più vicina al Vaticano ed è la sede spirituale della comunità ebraica più antica d’Europa, che custodisce la dolente memoria di persecuzioni secolari da parte del potere temporale dei Papi: sono queste le ragioni che danno spessore a una visita papale, sia pure essa la seconda, a 23 anni dalla prima. – E’ l’attacco del mio articolo sull’annuncio della visita di papa Benedetto alla Sinagoga di Roma, pubblicato oggi da LIBERAL:

http://www.liberal.it/primapagina/accattoli_2009-09-18.aspx

“Sono in prigione perchè volevo fare una rapina a mano armata. E ora voglio fare questo viaggio perchè ho una fidanzata che ha appena partorito”, dice uno dei ragazzi che fanno il Cammino di Santiago per rieducazione: vedi post precedente. “Io sono in prigione per una rapina per scippo. Mio padre è morto, è stato accoltellato. Mia madre e il mio padrigno sono in prigione”, racconta l’altro. Quattro le regole dettate dal giudice al tutor che li accompagna, facendo per quattro mesi la loro stessa vita: niente cellulari, rispetto della legge, sempre a piedi e niente droga. Chi sgarra torna dentro. 2484 chilometri: “Bisogna mantenere una media di quattro chilometri all’ora”. – “Non sono abituato a camminare, ma sempre meglio che in prigione”. – “Io prego per strada, credo molto in Dio. Tu non credi in Dio?” – “Io no”. – “Ho telefonato a mia madre in prigione. Mi ha detto di non mollare. Io non credo negli uomini, non credo negli amici. Credo solo in Dio e in mia madre”. – “Ogni giorno cammino controvoglia”. – “Ho i piedi a pezzi. In questo momento vorrei essere in prigione. Almeno dormirei in un letto soffice” – “Ancora 8 o 9 giorni di merda all’arrivo” – “Questo cammino mi ha insegnato a essere forte” – “Ormai sono a Santiago e il resto vaffanculo! Dopo quattro mesi porca puttana!” – La migliore inquadratura: di una lumaca che attraversa la strada percorsa dai tre, forse a Pontferrada, o nelle vicinanze di Leòn.

Ruben e Joachim hanno 17 e 16 anni e sono in carcere in Belgio: torneranno liberi se rispetteranno tutte le regole di un “cammino” di rieducazione – fissate da un giudice sapiente – che li porterà dal carcere a Santiago de Compostela, con un cammino a piedi di oltre 2.500 chilometri da percorrere in quattro mesi attraverso il Belgio, la Francia e la Spagna, seguendo l’antico Camino e con l’accompagnamento di un tutor. Roberta Cortella e Marco Leopardi li hanno seguiti e ne hanno cavato un documentario TV – LA RETTA VIA – che viene trasmesso stasera da RAI TRE alle 23.30. E’ una bella storia: invito i visitatori a vederla e a ragionarne nel cineforum del pianerottolo.

Trent’anni addietro ho conosciuto Augusto, un uomo avanti negli anni che dalla sofferenza aveva imparato la bontà. Quando nacque fu abbandonato sugli scalini di una chiesa dell’urbinate. Lo raccolse una famiglia che lo tenne con sé nove anni ma poi gli disse che non poteva restare ancora perché avrebbe acquisito gli stessi diritti dei figli. Fu preso a “garzone” da un’altra famiglia. Cresciuto domandò in giro da chi fosse nato. C’è sempre chi lo sa e Augusto si presentò a quella che gli fu indicata e chiese: “Sei tu mia madre?”. La mamma, forse per vergogna, rispose di no.
Augusto trovò un lavoro a Milano. La mamma vicina a morire lo cercò, ma nessuno sapeva dove egli fosse e non poté liberarsi di quella verità. Il figlio guadagnò bene, si sposò e tornò a vivere dalle sue parti.
Una sera – è lui che racconta – tornavo a casa in bicicletta. Pioveva e stando curvo sotto l’acqua vidi per terra una busta che raccolsi: era una busta paga con dentro il denaro e il nome sul davanti. ‘Ora sono tutto bagnato – mi dissi – ma domani gliela porto’. Arrivato a casa pensai: ‘Chissà quello quanto soffre’. Girai la bicicletta, mi diressi verso la via segnata sulla busta e suonai il campanello. Mi aprì la moglie. ‘Mio marito non c’è’ mi disse. ‘Non è vero che non c’è, suo marito si è buttato sul letto perché ha perduto la busta paga’, risposi. ‘E lei come lo sa?’. ‘Eccola qui’. Mi fecero entrare in casa e prepararono una frittata con le salsicce per fare festa con me“.

“Un primo aspetto della vicenda riguarda l’attacco al Direttore di Avvenire. Al di là dei dettagli che non conosciamo, è stata colpita una persona per il ruolo che svolgeva. Una risposta dignitosa esige il giudizio che voi date della vicenda. Un parlare esplicito, per rispetto e solidarietà a chi è stato vittima; ma anche un chiarimento di fronte alla contraddizioni che pure si registrano sul fronte ecclesiale: non solo per il rapporto con il governo. La linea in questa vicenda adottata dall’Osservatore Romano è chiaramente in contrasto con la linea editoriale di Avvenire. Non è un’invenzione degli anticlericali, ma è sotto gli occhi di tutti”: è un passaggio della lettera aperta inviata ai vescovi da Vinicio Albanesi, della Comunità di Capodarco. Nel primo commento il testo della lettera.

“Il prossimo secondo Gesù non è quello che intende l’opinione comune, ovvero colui che mi è vicino in quanto legato a me da vincoli e relazioni constatabili, come la consanguineità, la comunanza etnica, l’appartenenza religiosa. Nella parabola il prossimo è colui che ci è massimamente distante: per la mentalità giudaica il samaritano era infatti l’eretico per antonomasia e rappresentava il più lontano dalle tradizioni e dai costumi ebraici. Ecco, il samaritano di cui parla Gesù è colui che riconosce nel più lontano il suo prossimo (…) Con il cristianesimo il concetto di prossimo perde ogni carattere di consanguineità. La prossimità non è più uno stato determinato da un’affinità già costituita, ma un movimento: il prossimo è colui al quale tu ti approssimi, viene sottolineata l’azione che devi compiere per riconoscere il prossimo. Il Cristo rovescia la domanda: non devi più chiederti chi sia il tuo prossimo, ma che cosa fai tu per il prossimo”: così Massimo Cacciari in un’intervista al Corsera di ieri, a presentazione del FESTIVALFILOSOFIA di Modena, Carpi e Sassuolo nel quale Cacciari tratterà ad apertura, il 18 a Modena, il tema “Prossimo tuo”.

L’11 settembre insieme al suo lutto ha portato quest’anno una notizia di vita, venuta dall’Unicef: che ogni giorno nel mondo muoiono diecimila bambini in meno rispetto a venti anni addietro. I piccoli che se ne sono andati sotto i cinque anni nell’anno 2008 sono stati 8,8 milioni – terribile a dire. Quelli che se ne erano andati alla stessa età nel 1990 erano stati 12,5 milioni – utile a ricordare.

La tua allegria, quella vera, è appena cominciata. E non avrà fine!“: così Celentano ha dato il suo addio a Mike Buongiorno, il migliore che mi sia capitato di leggere. Somigliante all’addio di Lucio Dalla a Luciano Pavarotti: «La sua sarà una momentanea assenza perchè considero la morte come la fine del primo tempo della vita di un individuo» (vedi post del 6 settembre 2007). Non male anche Lina Sotis sul Corsera: “Buongiorno Mike”.