Giovanni Paolo II. Per intero davanti a Dio e per intero davanti agli uomini

Associazione Veritas et Jus

Aula magna dell’USI – Lugano – 18 novembre 2010

 

Su Giovanni Paolo II non finirei di dire. Gli ho dedicato sei tra volumi e volumetti e forse tremila articoli. Ho scelto di raccontare un incontro privato e di far parlare – poi – un collega che mi ebbe a confidare, vicino a morire, di aver ricevuto da quel Papa un forte aiuto a credere.

 

L’incontro risale al dicembre del 1989, quando fui invitato da don Stanislaw alla messa del mattino nella cappella dell’appartamento privato. Avevo appena pubblicato da Mondadori un volumetto a quattro mani scritto con il collega Domenico Del Rio e intitolato Wojtyla il nuovo Mosè. Il Papa lo lesse durante un viaggio africano e chiese al portavoce Joaquin Navarro-Valls se c’erano, su quell’aereo, gli autori del libro. Il portavoce rispose che l’uno c’era ma l’altro – cioè io – no “perché ha la moglie molto malata”. La mia prima moglie infatti era colpita da tumore al seno e sarebbe morta un anno più tardi.

Veniamo invitati alla messa – io, mia moglie e i quattro nostri figli – e siamo colpiti come tutti dalla concentrazione del Papa nella preghiera e nelle lunghe pause di silenzio, che facevano durare per un’ora quella celebrazione senza omelia. La più piccola dei miei figli, che ha due anni, si addormenta in braccio a me e verso la fine della messa si risveglia e dice ad alta voce “Mamma!”. Il Papa nella conversazione che abbiamo subito dopo prende in braccio la bambina, si complimenta per la sua bravura in cappella e osserva: “Ma un momento si è sentita!”.

Ecco com’era Giovanni Paolo: concentrato in Dio e capace insieme di cogliere il più piccolo segno che gli poteva arrivare dall’umanità circostante. In quell’occasione mi parlò del libro che avevo scritto su di lui: “Lei ha potuto leggere, ha potuto studiare e così ha potuto togliere molti miti. La ringrazio per questo sforzo di comprensione”.

 

Dicevo che il libro era scritto insieme a Domenico del Rio, essendo egli vaticanista di Repubblica e io del Corriere della Sera. A Domenico che era vicino a morire, nel gennaio del 2003, chiesi durante una visita al Gemelli se voleva che io dicessi “qualcosa a qualcuno”. Rispose: “Al papa! Vorrei far sapere al papa che lo ringrazio per l’aiuto che mi ha dato a credere. Mi è stata di aiuto la forza della sua fede. Vedendo che credeva con tanta forza, allora anch’io un poco mi facevo forza. Questo aiuto l’avevo a vederlo pregare, quando si mette in Dio e si vede che questo mettersi in Dio lo salva da tutto” (Luigi Accattoli, L’ultimo saluto a Domenico Del Rio, Il Regno 4/2003).

Attore e poeta, operaio e patriota polacco, amante della montagna e del nuoto egli non ha avuto alcuna difficoltà a porsi a interprete dell’umanità della sua epoca, ma è riuscito anche a mostrare a quell’umanità che cosa sia credere in Dio ai nostri giorni.

Posso citare un altro collega vaticanista che afferma di essere “tornato alla fede” con un cammino di ricerca e approfondimento che partì proprio dalla compresenza in Giovanni Paolo II di questi due elementi, di pieno protagonista della modernità e di portatore di una fede che si direbbe da’latri tempi, o bambina: “L’incontro con Giovanni Paolo II ha avuto uno sviluppo molto forte per me. Mi sono trovato di fronte a una persona che ho scoperto nella sua eccezionalità umana, nel suo carisma e intelligenza. La sua persona, dunque, mi poneva un problema: come conciliare questa sua personalità eccezionale, fuori dell’ordinario, con il carattere intellettualmente problematico della sua preghiera? In altre parole mi poneva una domanda il modo in cui egli testimoniava una fede che aveva tratti quasi ‘infantili’ nella sua purezza” (Tosatti narra la sua conversione del volume di Lorenzo Fazzini, Nuovi cristiani d’Europa, Lindau editore 2009).

 

Se Papa Wojtyla fosse durato poco non l’avremmo capito, tanto grande è stata la sua novità. Che invece quella novità sia stata almeno in parte compresa ce lo dicono i tre milioni di persone che si precipitarono a Roma la prima settimana di aprile del 2005, per dargli l’ultimo saluto e l’attesta il grido “santo subito” che accompagnò quell’addio.

“Non è bene che un Papa viva per vent’anni. E’ anormale e non produce buoni frutti: egli diviene un dio, non ha nessuno che lo contraddica, non conosce i fatti, fa cose crudeli senza avvedersene”: così scrive il cardinale J. H. Newman in una lettera del novembre del 1870, nella quale prevede che la Chiesa cattolica – appena chiuso il Vaticano I – stia per avviarsi a un “crescendo di tirannia”.

Noi invece ci congratuliamo per la lunga durata del Pontificato wojtyliano, che ha permesso alla Chiesa e al mondo di intenderne la radicale novità, che è quella di un Papa eletto contro ogni aspettativa e che non sale al trono di Pietro con un programma pontificale in tasca, ma si affida alla Provvidenza che l’ha chiamato e risponde alle sfide delle circostanze da cristiano vivo, dando testimonianza della sua fede.

Quella lunga durata – per numero di anni il suo Pontificato è il secondo di tutta la storia, dopo Pio IX, che regnò 31 anni e mezzo – l’ha aiutato a raggiungere veramente tutto il mondo, svolgendo una predicazione evangelica audacemente e modificando l’immagine papale, per avvicinarla all’uomo della nostra epoca.

Un Pontificato straordinario, dunque, al quale l’uomo Wojtyla fu preparato da circostanze straordinarie:

–                      solo al mondo a ventuno anni, è provato da una precoce esperienza del dolore umano che lo predispone all’incontro con ogni sofferente;

–                      va prete da adulto, avendo avuto frequentazioni e amicizie anche femminili, nella scuola, nell’Università, nel lavoro, nel gruppo teatrale clandestino di cui fa parte durante l’occupazione tedesca della Polonia: da qui viene la sua spontaneità nel trattare con le donne e la sua sensibilità per il “genio femminile”;

–                      le esperienze della guerra, del lavoro manuale, del teatro clandestino che l’hanno preparato per la predicazione della pace, per l’incontro con il mondo del lavoro, per la pronta sintonia con ogni lotta contro le dittature;

–                      il lungo desiderio di libertà, maturato nel confronto con il regime comunista, che l’ha istruito su come parlare del comunismo a chi non l’aveva sperimentato sulla propria pelle.

 

Un Pontificato proiettato nella predicazione del Vangelo fino ai confini della terra. Se gli altri Papi impegnavano cinque dita delle mani nel governo della Chiesa, riservando le altre cinque alla missione, Giovanni Paolo II ne usa nove per la missione e una per il governo.

Concepisce la propria missione come quella del “primo araldo del Vangelo” e ritiene che sia compito primario del papa quello di predicarlo a tutto il mondo e a tutte le genti, oltre ogni confine, cortina, muro, separazione.

Una predicazione – la sua – che tende a farsi radicale e “sine glossa”:

–                      a difesa della vita: il “non uccidere” lo vuole totale: contro guerre, aborto, eutanasia, pena di morte

–                      a invocazione della giustizia e della solidarietà: Nord-Sud, immigrati, diritti umani

–                      per la riconciliazione tra i diversi gruppi umani: ebrei, musulmani, tra cristiani

–                      nella richiesta del perdono per le colpe storiche della Chiesa

 

Ha modificato l’immagine papale, staccandola dal latino e dal bronzo tipici della tradizione pontificale (portando a compimento il distacco già iniziato dai predecessori Giovanni XXIII e Paolo VI, dai quali ha preso il nome) e avvicinandola all’uomo d’oggi.

La gente ha subito amato quel Papa che scriveva nelle encicliche: “Secondo il mio parere”. Che gridava ai giovani: “Chiamatemi Karol!”. Che teneva conferenze stampa e ovviamente non voleva la sedia gestatoria. Che baciava le ragazze in fronte, andava in ospedale a fare la tac e a farsi operare.

 

Fa parte di tale modifica dell’immagine papale il modo davvero straordinario con cui Giovanni Paolo nell’ultima stagione ha vissuto la malattia e l’avvicinamento alla morte: l’umanità ha capito questa sua testimonianza e l’ha amato nella sofferenza, come in precedenza l’aveva amato nella salute.

Nella stagione estrema egli ha portato a pienezza l’attestazione di come un uomo del nostro tempo possa stare per intero davanti a Dio e per intero davanti agli uomini.

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