L’infermiera Marta volontaria in Kenia e in pandemia

Marta Ribul infermiera all’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo compie 27 anni nel pieno dell’emergenza Covid: in un testo per il settimanale online “Sant’Alessandro” narra il suo passaggio da volontaria internazionale a volontaria in pandemia. Nei commenti alcuni paragrafi del suo racconto.

5 Comments

  1. Luigi Accattoli

    Entusiasta di partire. Marta 1. Oggi, 7 aprile, compio 27 anni e mai, nella vita, avrei immaginato che mi sarebbe capitato di invecchiare di un anno nel bel mezzo di un’epidemia, o per lo meno non che questo potesse accadermi a Bergamo. Mi è già successo, infatti, di festeggiare altri compleanni in modo insolito: il mio venticinquesimo, ad esempio, lo festeggiai con la piccola comunità di cooperanti italiani che vivono a Freetown, capitale di un Paese tristemente noto per l’epidemia di Ebola. Insolito, senza dubbio, ma forse nemmeno così tanto per chi, come me, ha scelto di intraprendere la strada della cooperazione allo sviluppo che mi ha portata (e spero continuerà) lontano da casa, dal Mozambico al Perù, passando per la Sierra Leone.
    In questo momento, se non fosse stato per lo stravolgimento che quest’epidemia ha portato con sé, avrei dovuto essere da poco a Nairobi, per un nuovo anno di Servizio Civile in una baraccopoli. Ero entusiasta di partire, di conoscere un altro Paese e con lui la sua gente. E’ insolito, invece, che mi ritrovi a Bergamo a fare qualcosa che mai avrei pensato di fare. Quando otto anni fa mi sono ritrovata di fronte alla scelta del percorso universitario, ho optato per una professione – quella dell’infermiere – che mi avrebbe permesso di imboccare la strada della cooperazione, ma che, qualora fosse stato necessario, a causa di una qualche catastrofe mondiale, mi avrebbe permesso di mettere a disposizione le mie mani.

    29 Settembre, 2020 - 22:25
  2. Luigi Accattoli

    Dare una mano in ospedale. Marta 2. Ero pronta a partire ma quest’epidemia non solo mi ha costretta a rimanere a casa, ma anche e soprattutto mi ha fatto ripensare alla scelta alla base dei miei studi e, per questo, a tornare a dare una mano in ospedale.
    Sono un paio di settimane che lavoro in un reparto di degenza del Papa Giovanni XXIII. Essere infermiera, per me, vuol dire soprattutto sviluppare una relazione con le persone di cui mi prendo cura e quando ho inviato la mia candidatura a quest’ospedale, la mia paura più grande non è stata quella di avere tutti i giorni a che fare con una malattia reale, ma di rischiare di non avere a che fare con persone, che non avrei fatto nemmeno in tempo a conoscere, vista l’imprevedibile evoluzione della malattia; avevo paura di non poter conoscere nemmeno le persone con cui avrei lavorato, irriconoscibili come siamo dietro camici e mascherine.
    A distanza di un paio di settimane da quando ho varcato la soglia dell’ospedale, dopo la fatica di muovermi sotto al camice, di toccare le persone attraverso due paia di guanti, di parlarci attraverso la mascherina e la visiera facciale, la paura dell’anonimato si è dissolta: con le colleghe e i colleghi, come con le pazienti e i pazienti, abbiamo imparato a conoscerci attraverso gli occhi e la voce, lavoriamo in gruppo, senza competizione, ma con cooperazione, contribuendo ognuno al meglio che può.

    29 Settembre, 2020 - 22:25
  3. Luigi Accattoli

    Sguardo su Città alta. Marta 3. È inutile negare che le nostre giornate, e nottate, sono fatte di momenti difficili, di stanchezza per il ritmo incessante, della sofferenza nella solitudine, di preoccupazione per quello che da un momento all’altro potrebbe capitare in ospedale, di incertezza per tutto quello che accade fuori. È altrettanto vero, però, che spesso penso che tutto andrà bene, soprattutto quando, per pochi istanti, al lavoro, posso posare lo sguardo su Città alta, su quel suo profilo unico e meraviglioso da togliere il fiato (sono fortunata, credo di lavorare in uno dei pochi reparti con la vista migliore sulla città), cercando di carpirne ogni suo dettaglio in base alla luce che la colpisce così come, nel silenzio del parcheggio, prima di salire in macchina per tornare a casa, ascoltare con emozione i cento rintocchi che, ogni volta, spero annuncino un giorno migliore.

    http://www.santalessandro.org/2020/04/07/coronavirus-diario-di-una-pandemia-marta-infermiera-racconta-la-fatica-di-sguardi-e-sorrisi-dietro-la-mascherina/

    29 Settembre, 2020 - 22:26
  4. Luigi Accattoli

    Trentotto storie. Questa di Marta Ribul è la trentottesima vicenda da Covid – 19 che racconto nel blog. Per vedere le altre vai al capitolo 22 “Storie di pandemia” della pagina “Cerco fatti di Vangelo” elencata sotto la mia foto:

    http://www.luigiaccattoli.it/blog/cerco-fatti-di-vangelo/22-storie-di-pandemia/

    Già un’altra delle storie da me raccolte nel blog narrava il vissuto quotidiano di una giovane donna – in quel caso si trattava di una dottoressa – operante da volontaria in un reparto Covid:

    http://www.luigiaccattoli.it/blog/la-quaresima-piena-di-paure-del-giovane-medico-elisa/

    29 Settembre, 2020 - 22:34

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