Il blog di Luigi Accattoli Posts

Un prete di Padova, Marco Pozza, invita Andreotti in parrocchia a parlare di “ricerca di Dio” e tanti si scandalizzano. Ma don Marco tiene fede all’impegno: “C’è chi fatica ad andare oltre lo stereotipo di Andreotti mafioso, ma a parlare di fede potrei portare anche Provenzano”. Approvo. A proposito di Provenzano vedi sopra alle date 14 e 15 aprile. Quando si tratta della ricerca di Dio ognuno che sia disposto a parlarne va ascoltato, perchè non sappiamo chi potrebbe aiutarci. Il Vangelo mostra che i più vicini a incontrarlo sono le prostitute e i pubblicani.

“Senza vergogna. Un terrorista segretario della Camera”: così Libero apre l’edizione di sabato 3 giugno, menando scandalo per il fatto che Sergio D’Elia, eletto deputato nella lista della Rosa nel pugno, è segretario d’Aula a Montecitorio. Condannato a 25 anni per concorso in omicidio, ne sconta 12 e gli altri gli vengono abbonati a seguito di una fattiva dissociazione dal terrorismo. E’ fondatore di Nessuno tocchi Caino, che da dodici anni si batte contro la pena di morte. Mando la mia solidarietà a Sergio: non c’è vergogna nel riscatto dal crimine. Tra le accuse che portano Gesù alla morte c’è quella di aver chiamato a suoi discepoli esattori delle imposte e peccatrici.

Guardo in televisione la parata per la festa della Repubblica e ascolto dai colleghi telecronisti che ci sono oggi nel mondo 28 missioni militari italiane, impegnate in 19 paesi e tre aree geografiche. Missioni di pace, ovviamente. Vado su internet e trovo il documento Presenza militare italiana all’estero del Ministero della Difesa, aggiornato al 5 maggio, che dà in 8.514 il totale dei militari impegnati in quelle missioni: ne sono orgoglioso, mi pare una bella notizia, vorrei che fosse molto più diffusa. Ottomila nostri ragazzi che dividono contendenti e cercano di mettere pace tra popolazioni nemiche, procurano prefabbricati, pane, acqua e medicine a profughi e rifugiati. Ci vedo una forma attuale dell’evangelico “avevo fame e mi avete dato da mangiare”. Leggo in quel documento che nell’opera di ingerenza umanitaria siamo al terzo posto nel mondo per numero di uomini e al sesto per contributo alle spese. Nel soccorso ai disperati otteniamo dunque un piazzamento migliore che alle Olimpiadi, o nella ricchezza pro-capite.

Nel discorso di domenica ad Auschwitz Benedetto XVI non aveva nominato Hitler, il nazismo, l’antisemitismo e i sei milioni di ebrei mandati allo sterminio ed ecco che all’udienza generale di ieri, in piazza San Pietro, ha detto tutto questo, rievocando le tappe del viaggio in Polonia: “Proprio in quel luogo tristemente noto in tutto il mondo ho voluto sostare prima di far ritorno a Roma. Nel campo di Auschwitz-Birkenau, come in altri simili campi, Hitler fece sterminare oltre sei milioni di ebrei. Ad Auschwitz-Birkenau morirono anche circa 150.000 polacchi e decine di migliaia di uomini e donne di altre nazionalità. Di fronte all’orrore di Auschwitz non c’è altra risposta che la Croce di Cristo: l’Amore sceso fino in fondo all’abisso del male, per salvare l’uomo alla radice, dove la sua libertà può ribellarsi a Dio. Non dimentichi l’odierna umanità Auschwitz e le altre ‘fabbriche di morte’ nelle quali il regime nazista ha tentato di eliminare Dio per prendere il suo posto! Non ceda alla tentazione dell’odio razziale, che è all’origine delle peggiori forme di antisemitismo!” – Io trovo un’alta ironia in queste “correzioni”, come se avesse voluto dire ai critici più competitivi: se vi fa tanto problema che io non abbia detto quelle parole, eccole!

Ieri si inaugurava – con una lectio magistralis del cardinale Walter Kasper – in via della Conciliazione 37 una libreria del Centro editoriale dehoniano. Siamo presenti quattro giornalisti che chiediamo a Kasper un commento sulle critiche a quanto detto dal papa ad Auschwitz e il buon cardinale si sfoga: “C’è chi pone domande e poi controlla le risposte e non ammette che qualcuno si ponga domande sue e non di altri. Il papa non ha fatto un discorso da politico, che deve rispondere all’attesa dei più. Ha posto le domande più profonde, quella sul silenzio di Dio innanzitutto, che è la domanda di molti ebrei e su questa si è fermato. Il suo discorso è stato di altissimo livello, straordinario”. E ancora: “Un papa tedesco che va ad Auschwitz compie un cammino molto molto difficile. Sono tedesco anch’io e questo penso di poterlo dire! Chi ha visto il suo volto in quel momento capisce che cosa io voglia dire. Fare un discorso in quel luogo per lui era difficile e certamente avrebbe preferito restare in silenzio, ma non poteva tacere. Perciò è essenziale ciò che ha detto, non ciò che non ha detto”. Voglio aggiungere che anche a me sembra curiosa questa attesa al varco del papa che parla: dice pensieri profondi, drammatici, mostra di interrogarsi in profondo, riconosce che non tutto si riesce a intendere di quel mistero del male; ma tra chi legge si scatena una gara a chi trova più obiezioni. A parte la questione delle responsabilità tedesche – un “gruppo di criminali” che “usa e abusa” del popolo, ai suoi fini “di distruzione e di dominio” – tutte le altre obiezioni mi sono sembrate piccine. “Non ha detto Shoah, non ha nominato Hitler e il nazismo, non ha ricordato i sei milioni di ebrei che furono sterminati, non ha nominato l’antisemitismo”. Nella bozza del testo non c’era “Shoah”, parola che poi il papa ha pronunciato due volte, come a dire che questo non era un problema. Ma c’era il concetto, tanto che uno degli inserimenti il papa l’ha fatto a modo di sinonimo: “Con la distruzione di Israele, con la Shoah”. Se c’è il concetto che importanza ha la parola? Lo stesso vale per gli altri casi e per i milioni di ebrei. E’ necessario dire sempre tutto? Si può ragionevolmente temere che Ratzinger voglia abbellire Hitler, o voglia proteggere l’antisemitismo? A che pensa quando implora Dio che “non permetta mai più una simile cosa”? Anche l’accusa d’aver taciuto sulle responsabilità della Chiesa in materia di antigiudaismo mi sembra fuori luogo: non ha senso pretendere dal papa che visita Auschwitz un riepilogo dell’elaborazione svolta dalla Chiesa cattolica sulla questione ebraica negli ultimi cinquant’anni. Dice ciò che gli preme in quanto papa tedesco e successore di un papa polacco, ed è tanto e dovrebbe bastare. Forse sarebbe stato meglio se non fosse entrato nella questione disputata delle responsabilità del popolo tedesco e dei suoi governanti. Ma io penso si debba rispettare la coscienza e il sentimento di uno che appartiene a quel popolo, almeno nel giorno in cui compie una così dolorosa confessione. – Suggerisco due letture a chi è interessato ad approfondire l’idea che l’uomo Ratzinger si è fatto del nazismo, in oltre sessant’anni di dolorosa riflessione: L’Europa in guerra e dopo la guerra (pp. 75-80 del volume J. Ratzinger, Europa. I suoi fondamenti oggi e domani, San Paolo 2004), i primi cinque capitoli – in particolare quello intitolato Servizio militare e prigionia – del volume La mia vita. Autobiografia, San Paolo 1997. Vi appare chiaro che non si può attribuire al professore e cardinale Ratzinger un’intenzione banalmente assolutoria del proprio popolo.

Dal papa polacco al papa tedesco: quanto è avvenuto domenica in Polonia ha chiarito che il senso di questa successione ruota intorno alla “valle oscura” di Auschwitz, come Benedetto XVI ha chiamato – con un’espressione biblica – quel “luogo di orrore”. E’ dal momento dell’elezione – come confidò il 19 maggio dell’anno scorso – che il papa teologo si interroga sul “provvidenziale disegno divino” che ha voluto che “sulla Cattedra di Pietro a un pontefice polacco sia succeduto un cittadino di quella terra, la Germania, dove il regime nazista potè affermarsi con grande virulenza, attaccando poi le nazioni vicine, tra le quali in particolare la Polonia”. Domenica Benedetto XVI ha confidato un elemento della sua riflessione su quel disegno: che era un “suo dovere” andare ad Auschwitz come era stato “un dovere” per il predecessore polacco, di andarvi dunque “come successore di Giovanni Paolo II e come figlio del popolo tedesco”. Vista in prospettiva epocale l’avventura di questi due papi lega la vicenda cristiana di oggi alla grande prova della storia contemporanea: quella dello smarrimento abissale del nazismo. A protagonisti di questo raccordo sono stati chiamati un figlio della nazione che più ha sofferto per quella prova e un altro di quella che più ha fatto soffrire. Vivendo gli stessi sentimenti, parlando le stesse parole, impugnando la stessa croce, questi due uomini si adoperano a riconciliare coloro che erano nemici e a tenere aperta l’interrogazione sul male che si scatenò nella stagione della loro giovinezza. Se l’elezione del papa tedesco a 60 anni dalla seconda guerra mondiale può essere interpretata anche come una “legittimazione della Germania” sulla scena mondiale, più efficace, si è detto, dell’eventuale conquista di un seggio al Consiglio di sicurezza dell’Onu – ebbene forse domenica abbiamo visto che la successione dell’un papa all’altro può costituire un passo culminante, magari decisivo, nella riconciliazione tra il popolo polacco e il popolo tedesco, che non si sono mai amati nella storia. Più ampiamente, per l’intera umanità, la “preghiera” del papa tedesco nel campo di Auschwitz sta a dire che l’anima profonda della Germania non ha ancora portato a termine la sua dolorosa interrogazione sul “cumulo di crimini che non ha confronti” rappresentato dall’avventura nazista e la tiene aperta – quell’interrogazione – e non l’archivia, così come la tiene aperta la Chiesa cattolica, impegnando in essa le sue migliori energie, rappresentate dai primi due papi non italiani dell’epoca moderna. I due papi – appunto – che si sono succeduti intorno ad Auschwitz e che ad Auschwitz sono voluti andare, per chiedere a nome di tutti dove fosse Dio e dove fossero gli uomini quando si scatenò l’abisso di quella tragedia.  

Sono alla messa del papa a Cracovia, nel parco di Blonie, sulla tribuna stampa, davanti allo spettacolo – si direbbe infinito – di ciò che mai può essere un milione di volti riuniti in unità di luogo e – chissà – di sentimento. Rivedo il tassista che mi ha detto, portandomi a Fiumicino, “preghi per me alla messa del papa”. Una donna che mi ha mandato, quand’ero qua, un sms che diceva “sono disperata”. I cinque figli che mi chiedono tutto meno che di pregare e dunque io ritengo che si aspettino anche questo. La mia sposa che ogni tanto mi fa: ti ho pensato e dicevo con te un’Ave Maria. Fratelli e sorelle nella carne, doloranti per età e altro. Tutti i ragazzi che conosco e voglio guardare come figli. Il papa tedesco che oggi pomeriggio entrerà nel campo di Auschwitz. La collega americana appena conosciuta, che corre al suo lavoro e ha tre figli e subito corre da loro. Lettori e persone che nomino negli articoli e che magari maltratto senza saperlo. Chi ho dimenticato, chi ho offeso. Chi non ho saputo ascoltare. Chi non so e non vedo e non vedrò. A nome di tutti dico “Padre nostro”.

Sul prato di Blonie il papa tedesco incontra mezzo milione di ragazzi polacchi, che gridano in italiano: “Bene-detto Bene-detto”. E poi: “We love you” in inglese. Le lingue nate dalla divisione di Babele possono aiutare al riavvicinamento. Dietro la facciata festosa di questa visita in Polonia del papa tedesco si avverte anche il dramma della lingua: papa Ratzinger non ha nulla del tedesco che grida ordini. ma la lingua tedesca farebbe comunque rivivere quell’incubo. La Polonia ha avuto sei milioni di morti nella seconda guerra mondiale, Varsavia fu rasa al suolo, centinaia di migliaia di persone furono deportate, fucilate o impiccate dietro ordini gridati in tedesco. Ero in Germania, nel novembre del 1980, quando vi ando’ papa Wojtyla e i tedeschi restarono colpiti dalla generosita’ dell’ospite, che parlo’ a favore della riunificazione della Germania. Ma era facile a un uomo fare forza ai suoi sentimenti per abbracciare un popolo, mentre in questi giorni e’ un popolo che impara ad amare un tedesco. E gli riesce meglio arrivarci per altre lingue. Ratzinger si sforza di parlare in polacco e dove non arriva usa l’italiano, mai il tedesco. I polacchi gli gridano il loro affetto in italiano e in inglese. Risorse dell’umanita’ poliglotta. 

Papa Ratzinger non improvvisa perchè è un uomo timido, ma anche perchè è un intellettuale e davanti a ogni battuta che gli viene in mente subito teme il ridicolo. Infine perchè è convinto che la figura papale debba diminuire negli aspetti più vistosi. Lo vediamo che cerca le parole – nelle pause degli applausi – e un poco le trova. Arriviamo quasi a leggerle – quelle parole – nello sguardo che si illumina. Ma vediamo anche che le cancella prima di completarle. Gli mettono davanti il microfono e  dice “grazie”. La sobrietà è la sua forza.

Bellezza delle folle polacche per il papa tedesco, risorse della cattolicità! Lo attendono per ore sotto la pioggia a Varsavia, lo festeggiano come un parente sugli spalti del santuario fortezza di Czestochowa, lo cercano con affetto la sera alla famosa finestra dell’arcivescovado di Cracovia. I ragazzi gli gridano che s’affacci, tenendosi per mano. Proprio come facevano con il “loro” papa. Ed egli ricambia tanta generosità evitando di parlare tedesco. Dicono pronunci bene il polacco, per qualche frase e poi continua in italiano. Inaspettato completamento storico della riconciliazione tra i due paesi, che tanto era stata voluta dai cardinali Wojtyla e Ratzinger. Anche solo con le biografie e le nazionalità, questi due papi hanno riportato il nome cristiano nello tsunami della storia.