Il vescovo Chiarinelli e l’elogio della libertà

Il vescovo Lorenzo Chiarinelli – già ordinario di Sora-Aquino-Pontecorvo, di Aversa, di Viterbo – ha scritto per la rivista il Regno una sua lode alla condizione di libertà acquisita con la condizione di emerito. Su richiesta sua e della rivista ho accompagnato il suo scritto con questo commento amicale.

Questo di Lorenzo Chiarinelli, vescovo emerito, è un canto di libertà: di una libertà sperimentata in proprio e proposta a tutti come elemento centrale di una modalità più sobria di fare Chiesa nella quale trionfi lo Spirito. Egli nel dicembre del 2010 è sceso serenamente dalla cattedra episcopale, è tornato tra il popolo dal quale veniva e quello che ha perso in veduta dall’alto l’ha guadagnato in libertà. Quel guadagno gli detta parole come “finalmente libero” che prende da Martin Luther King e “gioia della libertà” che cava dal proprio sacco. Ascoltandolo noi intuiamo che non tornerebbe indietro e ci avvediamo che per antica abitudine egli continua a interrogarsi sui destini generali e oggi sogna quella libertà come un dono per tutti. Con agile speranza già la vede come una condizione ideale offerta a ognuno nella Chiesa, “sempre e dovunque”. Offerta dallo Spirito, che soffia dove vuole e che è “dovunque e sempre”.

Chiarinelli qui propone attraverso tre icone – in questo linguaggio si avverte la lezione del cardinale Martini del quale è buon amico – la percezione della propria condizione di emerito e tutte e tre hanno tonalità liberanti e grate: il volo silenzioso dell’aliante che si abbandona al vento, la scioltezza del giovane David che abbandona la corazza e torna alla fionda, l’ubiquo soffio dello Spirito che permette di profetare in mezzo all’accampamento come già dentro il tempio.

Evidenzio per primo il sentimento della libertà riconquistata che è il bello di questo testo. La parola “libertà” ricorre in esso sette volte e due volte l’aggettivo “libero” e cinque volte la parola “gioia”. E c’è legame – qui – tra le due risorse della vita che sono la libertà e la gioia, perché in queste pagine incontriamo anche l’espressione “gioia della libertà”, nonché l’altra equivalente e più colma che è “gioia dello Spirito”. Abbiamo dunque un inno alla libertà e alla gioia della libertà: che vogliamo di più da un emerito?

Libertà è parola poco amata nella nostra Chiesa. Sovrabbonda nelle Lettere di Paolo e Gesù aveva già detto tutto con il motto “la verità vi farà liberi”. Ambrogio non aveva timore di andare avanti su quella linea: “Ubi fides ibi libertas”. Ma poi Lutero scrisse il libello “Della libertà del cristiano” (1520) e quella parola fu posta a domicilio coatto nella Chiesa di Roma: non doveva lasciare le pagine della Scrittura senza una specifica autorizzazione. La revisione del processo che aveva portato a quel provvedimento – avviata dal Vaticano II – non è ancora terminata. Il Concilio ha fatto sua l’espressione “libertà religiosa” che già era stata condannata ma a mezzo secolo di distanza non si finisce di discutere su quel provvidenziale recupero.

Mi piace collegare l’inno alla libertà del vescovo Lorenzo con un’immagine forte di Papa Roncalli che chiude la prima sessione del Vaticano II e rivendica vibratamente a nome di tutti la “santa libertà dei figli di Dio”. Era l’8 dicembre 1962, avevo 19 anni (Chiarinelli 27 ed era prete da cinque): mi capitò di vedere la diretta televisiva in bianco e nero di quella celebrazione e da allora ho viva negli occhi la figura del caro Papa che batte quattro volte il piede, calzato con scarpette di raso, quando pronuncia le parole: “Sancta libertas filiorum Dei”. Con quella sentenza proclamata quasi in scansione metrica Giovanni difendeva il libero dibattito dei padri conciliari dalle recriminazioni dei tradizionalisti, che temevano ne venisse un pericolo per l’unità cattolica. Allora non colsi quell’idea evangelica e cattolica di libertà, che era grande, ma registrai lo scatto d’uomo vivo con cui Angelo Giuseppe ne raddoppiava la rivendicazione: la “santa libertà” di discutere e deliberare che spetta a un Concilio, libertà che viene da Dio, che la Chiesa nostra aveva sempre custodito nel cuore e della quale nei primi due mesi del Vaticano II era tornata a dare mostra al mondo. Un’analoga vocazione d’uomo vivo trovo nell’ammirazione del vescovo Lorenzo per il l’aliante che si affida all’ebbrezza del vento che è segno dello Spirito.

Chiarinelli non ha atteso il pensionamento per dire il suo attaccamento alla libertà dello Spirito. “In claritate liber in caritate servus” (libero nella chiarezza servo nell’amore) è il suo motto episcopale che gioca sul suono del cognome Chiarinelli (interpretato come claritas, cioè schiettezza) per indicare un elemento chiave della propria impostazione di vita, che fu ed è quello di voler essere “amorevolmente schietto” con i fratelli, pagando se necessario il giusto prezzo della schiettezza. A quell’impegno egli è potuto restare fedele nei decenni grazie anche a una preparazione culturale e a una simpatia umana non comuni che l’hanno aiutato a navigare tra i tanti scogli senza patire troppi danni.

Essendogli amico da prima che fosse vescovo – grazie alla comune esperienza nella Fuci – e avendolo poi seguito in tutte le stagioni, ero preparato alla sua serena uscita dalle responsabilità diocesane e gli sono grato per le tre icone con le quali ora invita tutti – con la discrezione di chi riflette su di sè – a una vita ecclesiale meno aggrovigliata e più sciolta, meno impacciata da corazze difensive e più feriale: “come relazione aperta, fiduciosa, fraterna; come incontro con il cuore delle persone, senza diffidenze, sospetti, doppiezze”. Egli conosce le tante “grinze” che le persone hanno in faccia anche quando fanno famiglia nella Chiesa, vorrebbe incoraggiare a “spianare” quelle grinze ma è realista nella valutazione della difficoltà dell’impresa: “L’onda fresca della vita, che è grazia, è gioia, è Spirito Santo, trova spesso resistenze, ostacoli, ostruzioni, dove l’organismo si irrigidisce e l’autoreferenzialità (o anche il calcolo) trionfa”.

Svolgendo la metafora della corazza che il giovane David abbandona per muoversi meglio nell’impresa che va ad affrontare con tutto se stesso, Chiarinelli si appella – per dire tutto e meglio – a un comune amico e confessore della fede, Luigi Serenthà (1938-1986), che fu confessore nella sofferenza, citandone l’invocazione di “più scioltezza” nella vita della Chiesa che ebbe a formulare alla fine della vita. Incoraggiato da questo riferimento, mi permetto di proporne un altro a sviluppo di quell’idea: citerò Luigi Padovese (1947-2010), il vescovo martire, anch’egli comune amico, che una volta ebbe ad affermare, in un contesto esigente, che “c’è troppa serietà nella Chiesa: un po’ va bene, ma anche qui l’esagerazione è peccato” (Piccoli dialoghi fra santi di marmo, Piemme 1999, p. 41). Che bello, dico io, che siano oggi riconoscibili come confessori e martiri due che poco fa ci esortavano a liberarci dell’eccesso delle attrezzature e della serietà. Torno subito a Chiarinelli segnalando che egli ha sempre coltivato lo humor a difesa dalla tentazione di prendersi troppo sul serio nel trattare delle cose della Chiesa.

Il senso dell’umorismo ha aiutato il vescovo Lorenzo a sviluppare una vasta pedagogia discorsiva e relazionale che gli ho visto svolgere tante volte in presa diretta con i gruppi e le assemblee e i singoli appartenenti ai “popoli” che gli furono affidati nei laboriosi anni dell’episcopato, prima a Sora-Aquino-Pontecorvo, poi ad Aversa, infine a Viterbo. L’incontro “con il cuore delle persone” che ora auspica prenda piede come modalità ecclesiale gli è sempre stato abituale e più ancora gli è spontaneo oggi che ha lasciato in buona parte le insegne e gli apparati del ministero episcopale.

Facendogli visita nelle tre diocesi capitava di vederlo un momento mescolarsi agli uomini e alle donne delle rispettive assemblee e un altro momento andare all’ambone. Sempre mi aveva attirato questa sua attitudine di essere cristiano con gli altri cristiani e non solamente vescovo per loro: quando, chiuso il Libro, sceso dalla cattedra, deposti i paramenti egli colloquiava con gli uomini e le donne che aveva intorno, prendendo spunto dalla varietà della vita, dall’attualità, dalle parole altrui. Per questa via gli era e gli è spontaneo trovare l’approccio giusto al cuore delle persone e donare una parola a chi l’attende: Padre, dimmi una parola è il titolo di un suo libretto (EDB 2007) che raccoglie gli spunti domenicali pubblicati per anni ogni domenica sul supplemento del quotidiano cattolico Avvenire Lazio 7.

Ecco dunque che non teme di andare in pensione il vescovo che si è esercitato nella comunicazione da cristiano a cristiano e da uomo a uomo. Non teme chi più volte in quel ministero, e magari ogni giorno, ha deposto l’armatura e se ne è andato per le navate o nella piazza a scambiare due parole con chi poco prima l’aveva ascoltato parlare dall’altare. Non teme la pensione il vescovo che ama la libertà interiore e che per questa via – della rinuncia al ministero – la riconquista intera se mai avesse avuto la sensazione d’averla perduta di vista, almeno un minimo, abitando per un trentennio – poniamo – in episcopi di grande storia e di molte stanze.

Io pensavo che la resistenza di tanti vescovi al pensionamento – almeno di una metà tra loro – avesse a cessare con l’esempio di tre importanti che quasi in contemporanea, in anni recenti, ebbero ad affermare che non vedevano l’ora di potersi ritirare dal ministero: Carlo Maria Martini, Joseph Ratzinger, Giacomo Biffi. Nessuno stia a fantasticare sulla sequenza in cui li ho nominati, perché li ho disposti per età come si addice a questo contesto. Avrebbero compiuto 75 anni tra il febbraio del 2002 (Martini) e il giugno del 2003 (Biffi) e tutti e tre, in vista di quella scadenza, parlarono dell’ottima loro aspettativa della condizione di emeriti. Sappiamo che i due italiani quell’attesa la videro accolta, mentre per Joseph Ratzinger intervenne l’elezione a Papa.

Conviene dunque che diamo un’occhiata – in coda a questa riflessione sui vescovi emeriti e sui cristiani sparsi per l’accampamento – alla riflessione che sulla propria vicenda ha poi svolto Papa Benedetto: colui cioè che pure ebbe a sognare il ritiro alla vita privata ma non l’ottenne. Ci è tornato diverse volte, ma con più parole l’ha fatto il 9 settembre 2006 salutando la folla a Marienplatz, Monaco: “Della leggenda di San Corbiniano (di cui divenni successore nel 1977 in quanto arcivescovo di Monaco e Frisinga, ndr) mi ha affascinato fin dalla mia infanzia la storia secondo la quale un orso avrebbe sbranato l’animale da sella del santo, durante il suo viaggio sulle Alpi. Corbiniano lo rimproverò duramente e, come punizione, gli mise sul dorso tutto il suo bagaglio affinché lo portasse fino a Roma. Così l’orso, caricato col fardello del santo, dovette camminare fino alla Città Eterna, e solo lì fu libero di andarsene (…). L’orso di san Corbiniano, a Roma, fu lasciato libero. Nel mio caso, il Padrone ha deciso diversamente”.

Ero a Marienplatz quel pomeriggio e un collega tedesco che mi traduceva dal vivo le parole del Papa, disse: “A Roma l’orso di Corbiniano fu lasciato libero, me invece mi hanno messo in gabbia”. Immagino che il testo improvvisato sia stato poi rivisto per l’edizione ufficiale. Ma ho altre referenze, personalissime, del desiderio del cardinale Ratzinger di poter lasciare il tempio e di camminare a suo arbitrio per l’accampamento.

L’ultima risale al 23 novembre 2010. Ero tra i presentatori – in Sala Stampa Vaticana – del volume intervista del Papa con Peter Seewald, Luce del mondo (Libreria Editrice Vaticana) e don Georg dopo l’appuntamento pubblico ci portò tutti da Benedetto. Quando sono arrivato a stringergli la mano è avvenuto questo scambio di battute: – Buon giorno signor Accattoli, la ringrazio dell’impegno con cui ha letto il libro…; – ringrazio io dell’opportunità che ho avuto di leggerlo in anticipo…; – ora lei è in pensione…; – e così ho la possibilità di leggere lentamente…; – era questo il mio sogno, di andare in pensione e di poter leggere lentamente ma non è stato possibile.

Dunque uno può essere un buon vescovo – tant’è che lo fanno Papa – e può legittimamente desiderare di scendere dall’ambone per scegliersi un ruolo meno esposto ben sapendo che si resta comunque attivi e partecipi della grande famiglia, sempre chiamati a profetare in essa. Ma debbo riconoscere che è andata delusa quella mia ingenua aspettativa che l’esempio liberante dei cardinali Biffi, Ratzinger e Martini – anche in virtù della loro ampia dislocazione nella compagine della cattolicità – avesse ad alleggerire la gravosa retorica con cui tanti reputano non remissibile il ministero episcopale. Nonostante l’alto magistero venuto dai tre continuo infatti a vedere in buon numero vescovi che lasciano controvoglia.

Sarà necessaria una pedagogia dei tempi lunghi che aiuti a maturare una più sciolta e più evangelica attitudine a lasciare il servizio episcopale: “Dico a uno: Va’, ed egli va; e a un altro: Vieni, ed egli viene”. Ma sarà anche necessaria una più ampia crescita – nell’insieme della comunità ecclesiale – dello spirito di libertà, di scioltezza e di serena appartenenza all’insieme dell’accampamento, che qui ci è efficacemente proposto dal vescovo Chiarinelli il quale non ha trovato minimamente scomodo né diminuente il passaggio dalla cerchia dei settanta al campo aperto.

Luigi Accattoli

 

Da Il Regno 16/2012

Lascia un commento