L’Anno della Fede nella vita di un laico

Conversazione con i giovani sacerdoti della diocesi di Roma

Casa Bonus Pastor 14 gennaio 2013

 

Sarà una conversazione sull’esperienza, come mi è stato richiesto.

Dirò che non mi piace il termine “laico” e che io cerco di sostituirlo con “cristiano comune”. Spero di riuscire a chiarire questo punto linguistico.

Affermerò poi che non è facile proporre ai cristiani comuni l’Anno della Fede. Questa dell’Anno della Fede mi appare come una grande idea di difficile attuazione. Non voglio né banalizzare né contestare, ma mettere in chiaro che c’è una distanza grande tra i programmi pastorali e la vita ordinaria del Popolo di Dio.

Un primo uso positivo dell’Anno potrebbe essere di coglierne l’occasione per aiutare i cristiani comuni ad amare Benedetto XVI e la sua predicazione fortemente concentrata sull’essenziale, e cioè appunto sulla fede: i libri su Gesù, le encicliche sulla carità e sulla speranza, quella sulla fede che è in preparazione; e ora appunto l’Anno della Fede. Già invitare i laici a leggere i libri del Papa su Gesù potrebbe essere un modo per accostarli all’argomento centrale della fede cristiana, che è appunto la figura di Cristo.

Venendo al merito di un anno dedicato a riscoprire e risvegliare la fede, dirò qualcosa sull’opportunità di aiutare i cristiani comuni a concentrare l’attenzione sulla fede, che è impresa come sapete difficilissima; richiamerò poi l’attenzione su tre aspetti dell’atto di fede nella nostra epoca, suggerendo di prestarvi attenzione in quest’Anno: la conversione di chi chiede il battesimo da adulto, l’abbandono della fede da parte di chi fu credente, l’ultima attestazione della fede che si dà con la perseveranza di fronte alla morte.

Laico non è parola biblica e ha il duplice difetto di individuare il cristiano comune in opposizione al Clero e di avere assonanza – almeno in Europa – con il concetto di “non credente”. Preferisco “cristiano comune” come traduzione della voce “Christifidelis” (cioè cristiano) che è nel Concilio e nel Codice di Diritto Canonico.

Avevo 24 anni quando Paolo VI propose un primo Anno della Fede. Ero nella presidenza nazionale della Fuci, ricordo la difficoltà a parlarne nei nostri gruppi. Ora siamo al secondo Anno della Fede: non sono più ottimista di allora.

Anno santo, Anno santo straordinario della redenzione, Anno mariano, Anno del Rosario, Anno dell’Eucarestia, Anno del Sacerdozio… capisco queste indizioni come campagne di sensibilizzazione degli addetti ai lavori – intendo dire: dei responsabili delle attività pastorali – ma con difficoltà riesco a stabilire un ponte con la vita quotidiana dei cristiani comuni.

Concentrare l’attenzione sulla fede. La Nota con indicazioni pastorali per l’Anno della fede pubblicata un anno fa affermava che “l’Anno della fede vuol contribuire a una rinnovata conversione al Signore Gesù e alla riscoperta della fede, affinché tutti i membri della Chiesa siano testimoni credibili e gioiosi del Signore risorto, capaci di indicare alle tante persone in ricerca la porta della fede”.

Voi sapete meglio di me come i “fedeli” tendano a distrarsi dal cuore della fede e a porsi ogni sorta di problema devozionale, culturale, superstizioso, politico, immaginando con questo di impegnarsi in materia di fede. Mia esperienza nel gruppo biblico familiare. Suggerisco dunque un impegno catechetico e omiletico tendente a segnalare il proprio della fede: la figura di Cristo, i misteri centrali della fede, il Credo.

Vi suggerisco – come promesso – tre spunti operativi che possono esservi di aiuto per sensibilizzare i cristiani comuni al tema della fede: a coglierne la centralità, quanto meno. La conversione degli adulti, gli adulti che abbandonano la fede, la fede di fronte alla morte.

Tratterò più a lungo il primo punto e sarò breve sugli altri due.

La conversione degli adulti. Ogni adulto che torna alla pratica dopo averla abbandonata. Ma soprattutto l’adulto non battezzato che chiede il battesimo. In ambedue i casi dovremmo indagare le ragioni del ritorno alla fede, o della richiesta del battesimo. Essendo tra duemila e tremila ogni anno, in Italia, i battesimi degli adulti, io credo che disponiamo di un campo vastissimo di indagine su che cosa converta l’uomo d’oggi. Un campo inesplorato. Immagino che ognuno di voi possa averne avuto esperienza, o averla domani. Sicuramente tutti avrete esperienza del ritorno di chi abbandonò. Ebbene vi invito a concentrare su queste persone la vostra attenzione in quest’anno e a prendere spunto da loro per parlare a tutti della fede.

Che cosa attira alla fede, che cosa allontana dalla fede. Interrogare le persone. Provocare le persone a dirlo. Proporre le loro parole alla riflessione della comunità.

Sugli adulti che ricevono il battesimo ho poi un altro paio di idee che sempre offro alle comunità che vivono un tale evento ma che – con mia meraviglia – per lo più risultano difficili a realizzare. La prima è di accoglierli con una grande festa, i nuovi battezzati: alla “festa” liturgica, che è splendida, specie se i battesimi avvengono nella Veglia Pasquale, si dovrebbe accompagnare una festa conviviale: una parrocchia non ha motivo più valido per organizzare le migliori tavolate. Darebbero ai nuovi arrivati una viva manifestazione dell’accoglienza che meritano e segnalerebbero all’interno e all’esterno l’importanza dell’evento.

L’altra idea è di aiutare i neobattezzati a “fare famiglia” nella comunità. Come ci si preoccupa di istruire i “catecumeni” sulla fede che intendono abbracciare, così dopo il battesimo si dovrebbe porre altrettanto impegno nell’aiutarli a inserirsi nella vita parrocchiale e diocesana. Il parroco dovrebbe affidare i nuovi arrivati a uno o più tutor [va riscoperto il ruolo dei padrini e delle madrine] con il compito di fargli vedere i luoghi e le attività della famiglia ecclesiale, i servizi di carità che vi si svolgono, i gruppi biblici o d’altro tipo che vi sono attivi; di farli incontrare con le persone e le famiglie che nella comunità hanno figura e ruolo. Questo “inserimento” non è da pensare come un lavoro di mezza giornata ma di anni, come per anni è andata avanti la preparazione al battesimo.

Quando organizzai di mia iniziativa una festa in trattoria per due ragazzi che avevano chiesto il battesimo da maggiorenni, li sentii dire con stupore: “Prima che ci chiamasse lei, sembrava che il nostro battesimo qui non interessasse a nessuno”. Altri che ho intervistato occasionalmente mi hanno confessato la grande difficoltà a riconoscere nella pratica quotidiana la comunità che era stata loro presentata nella catechesi: “Solo dopo molto tempo ho scoperto – mi ha detto uno di loro – che c’erano in una parrocchia vicina un centro della Caritas e un gruppo biblico nei quali mi sono poi inserito”.

Ho già accennato all’opportunità di proporre a chi abbandona la fede la stessa interrogazione che poniamo a chi l’abbraccia, o la riscopre. Qui l’operazione è più delicata, e anche più dolorosa. Ma possiamo tentarla. Anch’io come padre di famiglia mi sento dire dai figli “papà io non ho la tua fede cieca”.

Infine la perseveranza di fronte alla morte. Riassumo il terribile argomento con questa battuta: credo che i miei figli – e in qualche modo i miei amici, credenti e no – riceveranno l’ultima, decisiva mia testimonianza dal modo della mia morte. Se avrò mostrato quel totale affidamento che è nella natura della fede. Solo nella morte quell’affidamento può essere posto. Ed è solo quell’affidamento che contagia alla fede chi vi assiste.

E dunque si tratta di onorare – in quest’anno – e interrogare e narrare il modo di morire dei nostri fratelli nella fede.

Dal modo in cui muore un cristiano nascono nuovi cristiani.

Lascia un commento