Credo in Gesù Cristo e non mi vergogno del suo Vangelo

Settimana di cultura e spiritualità

Aula magna del Seminario Regionale Pugliese

Lunedì 18 marzo 2013 – ore 20.00

 

Credo in Gesù Cristo figlio del Padre che è nei Cieli e ne attendo il ritorno che vorrei anzi affrettare a riscatto di ogni sofferenza e a compimento della vittoria sulla morte. Lo cerco e lo incontro – il Signore Gesù – nelle sue parole contenute nella Scrittura, negli uomini miei fratelli e nei sacramenti della Chiesa. Mi adopero ad affrettarne il ritorno facendo conoscere il suo nome all’umanità di oggi e cercando di aiutare me e gli altri a non avere vergogna del Vangelo.

Il dono della fede comporta il dovere della sua attestazione. Un cristiano, nella vita, dovrebbe arrivare a dire con riconoscenza e con gioia: io credo in Dio, credo nel Dio di Gesù Cristo, credo nel Signore Gesù che ci ha insegnato a invocarlo come Padre e che ci ha promesso lo Spirito.

La fede cristiana non ci libera dal mistero, ci colloca in esso. Obbedire al dono della fede – ed è un’obbedienza assorbente: come l’amore obbedisce all’amore – significa anzi accettare di vivere in faccia al mistero. Intendo dire che la fede non semplifica la vita al cristiano, ma ne alza la posta e il prezzo. La dilata al cielo e all’inferno. La ricollega al principio della creazione e la proietta verso l’ultimo giorno. Ne fa il luogo della manifestazione dei sentimenti di Gesù e dell’attesa del suo ritorno. Quando l’ira dell’Agnello annienterà la Bestia e libererà gli uomini dalla morte, e Dio sarà tutto in tutti.

Grande è il dono della fede! Eppure i cristiani quasi non ne parlano, neanche tra loro. Si direbbe che oggi sia più facile fare confidenze sulla propria vita affettiva che sulla fede. Trovo uno spunto a dire questo in Etty Hillesum, la radiosa ragazza ebrea “che non sapeva inginocchiarsi” e che infine impara a farlo e confessa stupita (Diario 1941-1943, Adelphi, Milano 1985): “E’ il mio gesto più intimo, ancor più intimo dei gesti che ho per un uomo”. Nel campo di smistamento da dove partirà per Auschwitz ritrova un vecchio amico e così gli comunica il suo approdo alla fede: “Ci ho messo due sere per potergli confidare questa cosa così intima, la cosa più intima che ci sia. E volevo tanto dirgliela, quasi per fargli un regalo. E allora, allora mi sono inginocchiata in quella gran brughiera e gli ho detto di Dio” (Diario, p. 206).

Quante volte nella vita quotidiana affermo la fede nel Dio di Gesù Cristo? Non voglio dire quante volte recito il Credo, ma quante volte mi capita di dirmi cristiano con le persone che incontro? Tanti cristiani proteggono gelosamente i loro segreti con Dio. Immagino che non dicano neanche a se stessi se credono o no. Io credo invece che non dobbiamo avere timore di chiedere e di rispondere. Purchè sia chiaro che domanda e risposta non ci vengono alla lingua per vanità. Ma con gli anni tutti apprendiamo che ci sono contesti in cui la bontà della domanda e la possibilità di una serena risposta sono evidenti.

Se uno non ha mai avuto occasione di dire la sua fede, da dove inizierà? Ne parlerà a se stesso innanzitutto, poi ai familiari e ai più intimi tra gli amici. Di questi primi passi farà una scuola per avventurarsi al largo.

Dire la fede a se stesso: questo movimento coincide con quello della preghiera più intima. Credo Signore, ma tu aiuta la mia fede. Anzi: “Aiutami nella mia incredulità”, come dice in Marco 9, 24 il padre del ragazzo posseduto da uno spirito muto. “Tutto è possibile per chi crede”, aveva detto Gesù a quel povero padre.

“Ma tu ci credi davvero” è la domanda che ci fanno quanti sono spettatori di gesti o scelte insolite. Altre volte ci viene detto: “Beato te, che hai una fede”. E magari ci affrettiamo a cambiare discorso. Potremmo invece cogliere il varco, dicendo la verità: “La fede non basta mai, come la vita. Ma si può chiedere che venga aumentata”. Esercitiamoci ad apprezzare l’aiuto che ci viene dalla manifestazione della fede altrui e a non far mancare agli altri la nostra parola.

Ma mi vergogno! “Non vergognarti della testimonianza da rendere al Signore nostro”, scrive Paolo nella seconda lettera a Timoteo. E qui è forse necessaria un’impuntatura. La vita tante volte costringe a vincere la vergogna: quando crediamo d’aver trovato un amore, quando la necessità del lavoro ci spinge a uscire da ogni nostro guscio. Chiediamo alla vita di insegnarci anche a vincere la vergogna di dire la nostra fede. Sta scritto: “Chi si vergognerà di me e delle mie parole, di lui si vergognerà il figlio dell’uomo, quando verrà nella gloria” (Luca 9, 26).

Anche qui è una questione di priorità: se io considero il Vangelo la grande notizia, il primo dono, la felicità della mia vita allora non potrò non comunicare quella notizia e non ci sarà nessun pericolo che me ne vergogni. Ma se è solo un elemento della mia eredità culturale, allora sì che me ne vergognerò, perché affermare una scelta cristiana nella città mondiale è operazione controcorrente.

Il dialogo sulla fede può incrociare l’interlocutore più inaspettato, come quella volta che una palpitazione di cuore mi ha tenuto per sette ore al pronto soccorso dell’ospedale San Giovanni di Roma. Ho fatto le conoscenze più varie: una ragazza caduta da cavallo, un vecchietto parkinsoniano. Quando sei ridotto così, non è meglio morire? Diceva il vecchietto tremante. Ma lo trattenevano i sette nipoti e un figlio separato dalla moglie che aveva bisogno di aiuto. Chiedeva a me ed è venuto fuori il punto della fede. “Io credo in Dio”. “Anch’io”. La conclusione è stata che conviene affidarsi alla sua volontà, cercando di conoscerla e di assecondarla.

Tra le affermazioni del Credo, amo soprattutto quelle della resurrezione della carne e della vita eterna e su di esse richiamo l’attenzione dei figli e degli amici, quando le “diciamo” insieme.

Tocca ai cristiani comuni attestare nel tessuto della vita ordinaria l’ “attesa della risurrezione della carne” come l’articolo del Credo più attuale oggi, rispondente all’ansia di vita intera dell’epoca. Perché l’uomo d’oggi, divenuto così audace e libero nelle sue aspettative, più non s’acquieta – anzi neanche si interessa – a un aldilà che non contempli il riscatto pieno della carne.

Si deve tornare a dire in parole comprensibili all’uomo d’oggi – come ci riuscirono i credenti di altre generazioni – che senza il corpo siamo incompleti, anzi non siamo noi: “Anima mea non est ego” (Tommaso d’Aquino, Commento della Prima lettera di Paolo ai Corinti, capitolo 15). Tant’è che neanche potremo godere la piena beatitudine finchè il nostro corpo non sarà resuscitato e finchè non avremo ritrovato, rivestite della loro carne, le persone che abbiamo conosciuto nella carne. “In paradiso non ci saranno sguardi indifferenti” ha scritto Teresa di Lisieux.

Come attestare questo elemento decisivo della nostra fede? Ho detto che tocca ai cristiani comuni quell’attestazione e intendo che va fatta nella comunicazione quotidiana, ai letti delle operazioni, davanti ai figli che nascono e ai morenti che ci salutano. Davanti a chi ha perso un figlio e non vuole essere consolato. Aggiungo che va fatta – l’attestazione della fede nella resurrezione della carne – sia quando parliamo con chi si dice credente, sia con chi non osa, o dice di non esserlo.

Ai credenti – e a noi tra essi – è di conforto sentire affermata la speranza in una salvezza intera. Ai non credenti, ai poco credenti e ai mal credenti quell’attestazione può risvegliare l’interesse per il Credo cristiano, forse accantonato – come capita – senza una seria verifica. Magari immaginando i cristiani come cultori di anime disincarnate.

Ma la fede nella resurrezione della carne va proposta con parola piena ai non credenti per una ragione più profonda e sostanziale: perché essa riguarda tutti, perché tutti hanno diritto a saperla, perché essa è un dono che non può essere negato a nessuno che vive e muore. Perché ogni vivente brama altra vita e la resurrezione della carne nel Cristo Signore è la risposta di Dio a questa domanda dell’uomo.

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