I papi che ho conosciuto e che hanno segnato l’ultimo mezzo secolo

Conversazione per il Cinquantesimo
della Fondazione del Serra Club Genova 184
Sabato 21 marzo 2009 – Sala Quadrivium – ore 15.00

Cinquant’anni e cinque splendide figure di Papi: è questo l’argomento della mia conversazione che affronterò con taglio personale e narrativo. Rievocando i miei contatti con i cinque “vescovi di Roma” e cercando di dire in breve la mia comprensione della loro opera, nonché la mia gratitudine nei loro confronti. Spero per questa via di interpretare e forse in parte ravvivare il sentimento che ciascuno di voi nutre per loro.

Giovanni XXIII
Avevo 14 anni quando il cardinale Angelo Roncalli fu eletto Papa, il 28 ottobre 1958. Il televisore non era ancora nelle case della campagna marchigiana da cui vengo, ma c’era nella scuola media che frequentavo e ricordo il professore di religione che diceva, dopo la fumata bianca: “Sarà Roncalli!” Sentivo quel nome per la prima volta. La sicurezza con cui il professore aveva indovinato il nome dell’eletto mi tornò alla memoria quando mi applicai allo studio dei conclavi e scoprii che l’attesa per l’elezione del patriarca di Venezia era diffusa tra i bene informati
Il secondo ricordo legato all’elezione riguarda un compagno di classe che andava giurando la sua incapacità di vedere la familiare figura di Giovanni XXIII al posto dello ieratico Pio XII: “Non sarà mai come lui!” Esclamazione che ho poi sentito alla morte di ogni Papa.
Nel 1959 in gita scolastica vidi Papa Giovanni sulla sedia gestatoria, in San Pietro. Aveva annunciato il Concilio qualche mese prima, ma io nulla ne sapevo e mi incantavo a vederlo passare tra i flabelli. Alla vigilia dell’apertura del Concilio, lo vidi pellegrino a Loreto il 4 ottobre del 1962: io sono di Recanati, che è a sette chilometri dal santuario. Fu la mia prima partecipazione, dalla parte della folla, a un viaggio papale. Ricordo il pericolo di restare schiacciato dalla ressa e il professore di storia che il giorno dopo ci diceva: “Erano 104 anni che un Papa non usciva da Roma e da Castel Gandolfo”.
Lo rividi meglio – Papa Roncalli – sette giorni dopo per televisione, all’apertura del Concilio, che al mattino entrava in San Pietro in sedia gestatoria e la sera salutava la luna e mandava una carezza ai bambini. Ma ancora più viva negli occhi ho l’immagine sua che batte il piede, calzato con scarpette di raso, quando pronuncia le parole: “Sancta libertas filiorum Dei”, durante la lettura dell’allocuzione di chiusura della prima sessione del Concilio, l’8 dicembre 1962. Con quelle parole difendeva il libero dibattito dei padri conciliari dalle recriminazioni dei tradizionalisti, che temevano ne venisse un pericolo per l’unità cattolica. Allora non colsi l’idea, che era grande, ma registrai quello scatto d’uomo vivo che ne raddoppiava la rivendicazione: la “santa” libertà di discutere e deliberare che spetta a un Concilio, libertà che viene da Dio, che la Chiesa aveva sempre custodito nella sua grande tradizione e di cui nei primi due mesi del Vaticano II era tornata a dare mostra al mondo.
“In un contesto così vasto – disse – si comprende anche come ci sia voluto qualche giorno per giungere a un’intesa su ciò che, salva caritate, era motivo di comprensibili e trepide divergenze. Anche questo ha la sua spiegazione provvidenziale per il risalto della verità, e ha dimostrato in faccia al mondo la santa libertà dei figli di Dio, quale si trova nella Chiesa”.Più tardi mi resi conto dell’importanza di quel passaggio, riassuntivo della consapevolezza che il Papa bergamasco ebbe riguardo all’audacia dell’impresa conciliare e al suo significato – in primis – di restituzione al corpo episcopale della sua piena funzione di guida nella Chiesa. Il gesto del piede che accompagnava quell’affermazione papale vi aggiungeva la partecipazione emotiva dell’uomo Roncalli. Egli si era preso la responsabilità di lasciare liberi i padri conciliari di rifare le commissioni, l’agenda e gli schemi approntati dalla Curia e di dividersi, quando fosse necessario, in votazioni non pilotate. Quelle decisioni erano state criticate e ora il Papa le rivendicava. Vedendo vent’anni e quarant’anni più tardi la passione con cui l’uomo Wojtyla gridava il suo monito alla mafia e la sua invocazione di pace, ho ricondotto quelle nuove e più libere insorgenze dell’uomo sotto le vesti papali a quel piede battuto da Papa Roncalli per accompagnare un’affermazione che era insieme primaziale e personalissima. In quel gesto c’era in germe la rivoluzione dell’immagine papale che è stata poi operata da Papa Wojtyla.
La mia prima intuizione di Papa Giovanni – un avvio di comprensione, germinale ma duraturo – arriva nei giorni della morte. Avevo 19 anni. Ero alla fine del liceo, distrattissimo rispetto a quell’evento. Ma fu messaggio per me la pietas popolare e intellettuale, credente e secolare, che quella morte suscitò. Lessi poi le parole di Pasolini ispirate da essa: “Non serve fare santo chi è santo”. Giovanni davvero fu sentito come santo da tutti. Dai miei familiari contadini e dall’ateo professore di filosofia con cui ne parlai – pochi giorni più tardi – durante l’esame di maturità e che mi interrogò a partire dalle parole “Pacem in terris”: l’incipit dell’enciclica che il Papa aveva firmato – quasi come un testamento – due mesi prima della morte.
Ampliando lo sguardo dal Papa alla Chiesa, dirò che di Giovanni XXIII oltre a quell’immagine di bontà resta il frutto duraturo del Vaticano II, che non è da vedere solo nei documenti che ne vennero quando il Papa convocatore non c’era più, ma nello “stato di Concilio”, ovvero di ricerca,che è durato fino a oggi e che io credo durerà ancora. E’ come se la convocazione conciliare non sia mai cessata e si sia prolungata nelle assemblee sinodali, nei convegni ecclesiali, nelle riunioni che si tengono in continuità e a tutti i livelli. Questo è sicuramente un buon segno: c’è speranza finchè si cerca.

Paolo VI
Paolo VI l’ho incontrato una volta, nel 1969, in occasione di un’udienza alla presidenza nazionale della FUCI, di cui facevo parte. Eravamo una decina di ragazzi con i tre assistenti nazionali e fummo ricevuti nella Biblioteca privata. Mi impressionò la fragilità dell’uomo e il suo visibile tormento. Parlò con ognuno, facendo domande sugli studi e le provenienze. Parlò a tutti accompagnando la riflessione con il movimento delle mani, come per aiutarsi a cercare le parole. Per la FUCI era un momento difficile, combattuti come eravamo tra le tendenze contestatrici della base e i richiami all’ordine che venivano dall’alto. Ma il papa con nostra meraviglia non fece cenno a nessuna delle questioni pendenti, limitandosi a invitarci ad “amare la Chiesa”. In quella ricerca delle parole mentre ci parlava mi pare di poter racchiudere in immagine il segreto del Pontificato montiniano, ovvero la vocazione e l’ansia di un Papa proteso a farsi parola per il mondo.
Più tardi, da vaticanista, ho seguito gli ultimi tre anni del Pontificato e mi sono restati nell’anima i gesti compiuti durante il rapimento Moro – in particolare la lettera agli “uomini delle Brigate Rosse” – e dopo la sua uccisione, cioè il funerale nella Basilica di San Giovanni il 12 giugno 1978, con quella preghiera finale che suonò come un rimprovero a Dio e aiutò a un recupero di veracità nel modo di pregare di tanti. Ricordo l’impressione che ne riportò la dirigenza laicissima del quotidiano La Repubblica, per il quale lavoravo. Ero in San Giovanni con Giampaolo Pansa ed egli e il direttore Eugenio Scalfari – al quale riferimmo – erano sorpresi della capacità mostrata dal vecchio papa, in quell’occasione, di comunicare con il paese.
Alla domanda su quali momenti del Pontificato montiniano io abbia colto meglio – nella distratta giovinezza e nello studio venuto dopo – indicherò, tra i documenti, l’enciclica Populorum progressio e l’esortazione apostolica sulla gioia cristiana Gaudete in Domino (1975). Tra gli atti, l’uscita di Pietro nel mondo: in particolare il pellegrinaggio in Terra Santa (1964) e la missione all’Onu (1965).
Tra i gesti: la richiesta di perdono ai fratelli separati e il dono della tiara ai poveri. E infine il “pensiero alla morte”, o testamento, con lo straziante saluto a “questo mondo immenso, misterioso, magnifico”. Trovo qualcosa di affascinante nella contesa permanente che doveva svolgersi nella sua anima tra l’impulso a cogliere gli aspetti grandi e belli della vita e la percezione istintiva del dramma che li accompagna.
Il suo capolavoro fu la conduzione e la conclusione del Vaticano II: eletto per quell’impresa, la compì con sicurezza. Sedendo il Concilio egli fu una guida risoluta e tale continuò a essere per la prima fase applicativa, fino all’esplosione della contestazione interna ed esterna. Le divisioni che si profilarono nella Chiesa a partire da quella stessa fase lo costrinsero sulla difensiva. Il suo genio era la mediazione riformatrice, a guida del movimento conciliare. Quando non ci fu più un movimento riconducibile a unità, fu costretto a bloccare le riforme.
Per qualificare la sua opera di governo della Chiesa Papa Benedetto all’angelus del 3 agosto scorso ha usato l’aggettivo “sovrumano”: “Man mano che il nostro sguardo sul passato si fa più largo e consapevole, appare sempre più grande, direi quasi sovrumano, il merito di Paolo VI nel presiedere l’assise conciliare, nel condurla felicemente a termine e nel governare la movimentata fase del post-Concilio”. Quando parleremo di Papa Benedetto torneremo a dire qualcosa sul lascito di governo che gli arriva da Papa Montini.
Ho scelto – per far risuonare qui la sua parola – un passo dell’esortazione Gaudete in Domino e l’ho scelto a correzione dell’immagine sofferente che di lui tendiamo a farci e che non gli rende giustizia: “La gioia di essere cristiano, strettamente unito alla Chiesa, nel Cristo, in stato di grazia con Dio, è davvero capace di riempire il cuore dell’uomo. Non è forse questa esultanza profonda che dà un accento sconvolgente al memoriale di Pascal: ‘Gioia, gioia, gioia, pianti di gioia’?”

Giovanni Paolo I
A Giovanni Paolo I potei mostrare – durante il ricevimento dei giornalisti nell’Aula delle Benedizioni, poco dopo l’elezione – una vignetta di Giorgio Forattini, apparsa quel giorno sul quotidiano “La Repubblica”: in essa egli era ritratto, tiara in testa, che rideva di sé davanti allo specchio. Si fermò a guardare e rise per un momento: aveva appena fatto annunciare che non avrebbe preso la tiara e la vignetta interpretava simpaticamente quella decisione.
Credo che pur nella brevità dei 33 giorni che gli furono concessi Papa Luciani abbia dato un suo apporto al rinnovamento del Papato: quello dell’aver mostrato – più che attuato – un modo nuovo di fare il Papa, più semplice, più personale, più evangelico, teso a realizzare un avvicinamento comunicativo nei confronti dell’umanità di oggi. E vedo un segno di quell’intenzione di vicinanza anche nel sorriso di Papa Luciani, che manifestava la sua anima di buon pastore che si sentiva inviato a tutti e voleva mostrarsi sollecito e fraterno nei confronti d’ognuno.
Una fraternità che echeggia nel testo che ho scelto per riascoltare qui la sua voce e che appartiene alla catechesi sulla speranza, che tenne il 20 settembre 1978: la definì “una virtù obbligatoria per noi credenti” che ci fa “viaggiare in un clima di fiducia e di abbandono” e osservò che “non tutti condividono questa mia simpatia per la speranza”. Ma soprattutto ammise che contraddice alla speranza chi svilisce l’uomo: “Sono anche affiorate ogni tanto, nel corso dei secoli, tendenze di cristiani troppo pessimisti nei confronti dell’uomo”.

L’anno dei tre papi
Giunto al passaggio da Giovanni Paolo I a Giovanni Paolo II mi impongo una sosta meditativa sull’anno dei tre papi e dei due conclavi e sul fatto che lo stesso collegio elegge due uomini così diversi a distanza di 50 giorni: con 100 voti il cardinale Luciani, il 26 agosto; con 99 voti il cardinale Wojtyla, il 16 ottobre.
Da un Papa parroco e un Papa eroico, da uno che ama il nascondimento a un leader del mondo. Da un uomo timido, dalla voce “flebile”, che confida nella sua capacità di comunicazione solo quando essa si esercita da persona a persona a uno portato a porsi e a imporsi, con gesto naturale e con voce sicura, in ogni circostanza – anche la più nuova e contrastata – del grande teatro del mondo.
Luciani non dorme la notte dopo l’elezione, tormentato dagli “scrupoli per aver accettato” e dice ai cardinali, scherzando senza scherzo: “Possa Dio perdonarvi per quello che avete fatto”. Wojtyla sembra accogliere con sicura prontezza l’impensabile chiamata al Papato e brinda con i cardinali che l’hanno eletto.
Ero tra i cronisti di ambedue i Conclavi e riflettendo negli anni sul loro segreto mi sono fatto l’idea che – al di là delle evidenti diversità – vi sia un legame profondo tra i due eletti e che questo legame sia importante – di segno evangelico, per dire tutto in breve – e caratterizzi anche la loro eredità, ciò che di più valido hanno infine consegnato, si direbbe insieme, alla storia. I Papi Luciani e Wojtyla – questa è la mia intuizione – vanno presi insieme, quando si voglia interpretare il loro segno nella catena pontificale. Come se la fuggevole alba del primo fosse necessaria per l’avvento del pieno giorno dell’altro e come se il secondo abbia preso sulle sue spalle l’opera incompiuta del primo e l’abbia portata avanti a esiti inizialmente impensabili, ma sempre nel segno dell’avvicinamento all’umanità del nostro tempo.

Giovanni Paolo II
Su Giovanni Paolo II non finirei di dire. Gli ho dedicato sei tra volumi e volumetti e forse tremila articoli. Ho scelto di raccontare un incontro privato e di far parlare – poi – un collega che mi ebbe a confidare, vicino a morire, di aver ricevuto da quel Papa un forte aiuto a credere.
L’incontro risale al dicembre del 1989, quando fui invitato da don Stanislaw alla messa del mattino nella cappella dell’appartamento privato.Avevo appena pubblicato da Mondadori un volumetto a quattro mani scritto con il collega Domenico Del Rio e intitolato Wojtyla il nuovo Mosè. Il Papa lo lesse durante un viaggio africano e chiese a Navarro-Valls se c’erano, su quell’aereo, gli autori del libro. Il portavoce rispose che l’uno c’era ma l’altro – cioè io – no “perché ha la moglie molto malata”. La mia prima moglie infatti era colpita da tumore al seno e sarebbe morta un anno più tardi.
Veniamo invitati alla messa e siamo colpiti come tutti dalla concentrazione del Papa nella preghiera e delle lunghe pause di silenzio, che facevano durare per un’ora quella celebrazione senza omelia. La più piccola dei miei figli, che ha due anni, si addormenta in braccio a me e verso la fine della messa si risveglia e dice “Ciuccio”. Il Papa nella conversazione che abbiamo subito dopo prende in braccio la bambina, si complimenta per la sua bravura in cappella e osserva: “Ma un momento si è sentita!”. Ecco com’era Giovanni Paolo: concentrato in Dio e capace insieme di cogliere il più piccolo segno che gli poteva arrivare dall’umanità circostante. Mi parla del libro che avevo scritto su di lui: “Lei ha potuto leggere, ha potuto studiare e così ha potuto togliere molti miti. La ringrazio per questo sforzo di comprensione”.
Dicevo che il libro era scritto insieme a Domenico del Rio, essendo egli vaticanista di Repubblica e io del Corriere della Sera. A Domenico che era vicino a morire, nel gennaio del 2003, chiesi durante una visita al Gemelli se voleva che io dicessi “qualcosa a qualcuno”. Rispose: “Al papa! Vorrei far sapere al papa che lo ringrazio per l’aiuto che mi ha dato a credere. Mi è stata di aiuto la forza della sua fede. Vedendo che credeva con tanta forza, allora anch’io un poco mi facevo forza. Questo aiuto l’avevo a vederlo pregare, quando si mette in Dio e si vede che questo mettersi in Dio lo salva da tutto”.
In armonia con questa testimonianza toccante – Del Rio in un primo tempo era stato un “cronista” molto critico di Papa Wojtyla – ho scelto di richiamare qui – tra tutti i testi – un brano di una improvvisazione di questo Papa riguardante il suo modo di intercedere presso Dio: “Io prendo nota delle intenzioni che mi vengono indicate da persone di tutto il mondo e le conservo nella mia cappella sull’inginocchiatoio, perché siano in ogni momento presenti nella mia coscienza, anche quando non possono essere letteralmente ripetute ogni giorno. Rimangono lì e si può dire che il Signore Gesù le conosce, perché si trovano tra gli appunti sull’inginocchiatoio e anche nel mio cuore” (Aula Nervi, 27 ottobre 1995).
Lo straordinario di questo Papa è stato di riuscire a essere totalmente un uomo del suo tempo e insieme e pienamente un uomo di Dio. Attore e poeta, operaio e patriota polacco, amante della montagna e del nuoto egli non ha avuto alcuna difficoltà a porsi a interprete dell’umanità della sua epoca, ma è riuscito anche a mostrare a quell’umanità che cosa sia credere in Dio ai nostri giorni.

Benedetto XVI
Non prevedevo l’elezione del card. Ratzinger, ma sono contento che sia papa. Mi aspettavo un apostolo che continuasse l’uscita nel mondo di Giovanni Paolo II. I cardinali, invece, hanno voluto una pausa in quell’andata al largo.
Il mio primo contatto con Joseph Ratzinger è avvenuto – per via libraria – il 6 luglio 1971: questa data è scritta sul frontespizio del libro che quel giorno acquistai su consiglio di Franco Rodano, che aveva detto a me e ad altri giovani fucini che eravamo andati a fargli visita: «Per un confronto vero della tradizione cristiana con la cultura di oggi, dovete leggere Introduzione al cristianesimo di Ratzinger». Corsi a comprarlo. Lo lessi. Ancora medito le frasi che sottolineai allora.
Da allora l’ho sempre letto con frutto. Al momento dell’elezione a papa avevo in casa una decina di suoi volumi. Come vaticanista del Corriere della Sera l’avevo intervistato nel maggio del 1986, in pieno caso Boff. Più volte l’avevo ascoltato nella Sala stampa vaticana presentare documenti. Alcune volte l’avevo incontrato, schivo e gentile, per le vie di Borgo Pio, a passeggio nel primo pomeriggio. E ne erano venute brevi e simpatiche conversazioni.
Anche la successione di Benedetto a Giovanni Paolo ha la sua singolarità: al posto del missionario del mondo viene chiamato il cardinale teologo che per 23 anni l’aveva aiutato a cercare le parole per la missione. Forse in quella ricerca l’aveva anche trattenuto da qualche eccesso di zelo e ora quel dialogo su ogni questione si prolunga a parti rovesciate: dove una volta il cardinale teologo invitava alla prudenza, oggi il papa teologo avverte la spinta del papa apostolo.
A chi ha difficoltà con questo Papa suggerisco di partire – per imparare ad amarlo – dalla lettura del libro “Gesù di Nazaret” e dall’enciclica Deus caritas est: che vogliamo di più da un Papa se non che ci parli di Gesù e di Dio-amore? Come testo da far risuonare qui ne scelgo uno brevissimo, che bene riassume la sua costante predicazione sul primato dell’amore: “In questo santuario di Lourdes, verso il quale i cristiani del mondo intero rivolgono lo sguardo da quando la Vergine Maria vi ha fatto brillare la speranza e l’amore, dando ai malati, ai poveri e ai piccoli il primo posto, siamo invitati a scoprire la semplicità della nostra vocazione: in realtà, basta amare”.
A chi mi chiede – e capita spesso – se il Pontificato di Papa Benedetto non costituisca “una svolta reazionaria nel cammino della Chiesa post-conciliare” io rispondo di “no”. Ritengo che si tratti dello stesso cammino di applicazione frenata e difensiva del Vaticano II che era stato impostato nella seconda metà del pontificato montiniano, che fu poi sostanzialmente confermato e prolungato dal pontificato wojtyliano e i cui portatori hanno scelto nel Conclave del 2005 di affidarne il terzo tempo a chi era stato chiamato a responsabilità gerarchiche da papa Montini e che papa Wojtyla aveva voluto a lungo come suo principale collaboratore. Che la linea sia la stessa si può vedere dalla conduzione dei Sinodi, dalle nomine episcopali, dai contenuti delle encicliche, dalle iniziative ecumeniche e interreligiose. Nei casi in cui si nota un cambiamento si tratta di novità tra loro bilanciate: abbiamo una stretta in campo liturgico che si accompagna a un alleggerimento dei richiami in materia di morale sessuale; c’è una riduzione in quantità ed enfasi della predicazione della pace che va insieme a una maggiore concentrazione nell’annuncio della fede e nella presentazione della figura di Gesù. Ma sono dettagli: la linea è la stessa. Il secondo tempo di papa Montini ha fatto scuola a tre papi.

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