Francesco a Lampedusa. Gesti segni parole

Pubblicato dal “Corriere della Sera” del 9 luglio 2013

 

CITTA’ DEL VATICANO – Una croce e un calice ricavati dalle carrette del mare, l’altare poggiato su una barca, le parole tragiche di Caino, di Erode e del “Miserere”: è vasto il repertorio di segni, gesti e immagini ai quali ha fatto ricorso Francesco per prendere di petto la coscienza del mondo e intimargli di piangere i morti di nessuno come morti di tutti.

La chiamata al pentimento è stata insistente: sei volte Francesco ha pronunciato la parola “pianto” e quattro volte il verbo “piangere”. Quattro volte ha detto “sangue”, cinque volte “responsabile”, “responsabili” e “responsabilità”. Come un “padre del deserto”, come un mistico medievale, come un convertito dalle mondanità di ogni tempo ha invocato la “capacità” e il dono delle lacrime: “Domandiamo al Signore la grazia di piangere sulla nostra indifferenza”.

L’interrogazione centrale dell’omelia – “Chi ha pianto oggi nel mondo?” – è probabile che resti nella storia dei Papi con quel carattere di unicità con cui vi sono restati il saluto alla luna di Giovanni XXIII – “Si direbbe che persino la luna, osservatela in alto, si è affrettata stasera a guardare questo spettacolo” (11 ottobre 1962) – e il “Non abbiate paura” di Papa Wojtyla: “Aprite, anzi spalancate la porta a Cristo” (22 ottobre 1978).

Il rito di ieri ha avuto una specie di “ingresso processionale” dal mare, sul quale il Papa era uscito su un’imbarcazione per gettare in acqua, dopo averla benedetta, una corona di fiori bianchi e gialli – i colori della Sede Romana – in memoria degli annegati che mai ebbero una tomba e fiori su di essa: si dice siano ventimila quelli inghiottiti dalle onde quand’erano in vista dell’isola. Al rientro, sceso dalla barca, Francesco si è voltato a guardare il mare: un’occhiata che richiamava – a chi ne era stato spettatore – lo sguardo che Papa Wojtyla rivolse all’Oceano dall’imbarco degli schiavi nell’isola di Gorèe (22 febbraio 1992). Da laggiù partivano nei secoli innumerevoli sventurati, qua ne arrivano oggi altrettanti.

Il Papa ha poi indossato i paramenti violacei della liturgia penitenziale elencata dal Messale romano sotto il titolo di “Messa per la remissione dei peccati”. Il viola è il colore della Quaresima ed era la prima domenica di Quaresima quando Papa Wojtyla il 12 marzo dell’anno 2000 pronunciò in San Pietro la sua epocale richiesta di perdono: la quinta delle sette invocazioni aveva riguardato anche i “comportamenti” lesivi dei diritti degli immigrati. “In questa Liturgia, che è una Liturgia di penitenza, chiediamo perdono”, ha detto ieri Francesco con il tono dolente che fu in quell’occasione sulla bocca di Giovanni Paolo II.

L’omelia di ieri era mirata a scuotere gli uditori, cioè l’intera umanità: “Vorrei proporre alcune parole che provochino la coscienza di tutti”. Quattro volte il Papa a nome proprio e di tutti ha invocato “perdono”. Queste invocazioni erano state preparate dal canto del Miserere”, cioè del Salmo 50 che dice: “Pietà di me, o Dio, nel tuo amore”. Il canto era stato intercalato dall’invocazione “Perdonaci, Signore, abbiamo peccato”.

La sobrietà del rito era stata definita “estrema”, alla viglia, in una sua nota dal Maestro delle cerimonie Guido Marini. E se era possibile il Papa l’ha resa ancora più drastica, con il tono della voce più basso e monocorde che mai ed evitando le abituali chiamate della folla a interagire con lui. All’inizio dell’omelia neanche ha detto, come d’abitudine, “fratelli e sorelle” ma è partito in medias res – cioè senza preamboli – con un riferimento alle cronache venute ultimamente da Lampedusa: “Immigrati morti in mare” sono state le sue prime parole, che ha detto di aver preso dai “titoli dei giornali”. Quasi che dire “fratelli e sorelle” fosse inopportuno, in un giorno di lutto.

A metà dell’omelia Francesco ha citato il Manzoni – “Ritorna la figura dell’Innominato” – per dire che oggi siamo un po’ tutti “innominati, responsabili senza nome e senza volto”. Da antico docente di letteratura spagnola ha richiamato poi una commedia di Lope de Vega per dire al mondo che di fronte alla morte dei disperati del mare tutti ci poniamo nell’atteggiamento degli abitanti della città di Fuente Ovejuna che alla domanda “chi abbia ucciso il governatore” rispondono al magistrato: «Fuente Ovejuna, Signore». Cioè “tutti e nessuno”, ha commentato.

Le uscite dell’immaginifico Bergoglio, lettore di Borges, ieri sono state due e ambedue legate alla parola “benessere”: il benessere che porta “all’anestesia del cuore” e che “ci fa vivere in bolle di sapone”. Fino alla metafora naif e surreale del Re Erode che “semina morte per difendere il proprio benessere, la propria bolla di sapone”.

Infine gli arredi usati nel rito. Si sa che Bergoglio li vuole spogli, ma forse la spoliazione di ieri è destinata a restare ineguagliata. Non aveva portato con sé nessuna delle due “ferule” (croci pastorali) che usa in Vaticano: quella con il crocifisso avuta da Paolo VI e l’altra istoriata di Benedetto, ma ne impugnava una di legno con i colori bianco e azzurro della barca da cui è stata tratta. «Nel braccio orizzontale – aveva spiegato Marini – sono incisi due pesci, mentre in quello verticale vi sono cinque pani, per richiamare il brano evangelico della moltiplicazione dei pani e dei pesci ».

Anche il calice, l’altare e l’ambone – cioè il leggio: ornato con il timone di un’imbarcazione – erano di legno, il calice provvisto all’interno, come prescrivono i canoni, di una coppa d’argento. Oggetti tutti realizzati da un falegname di Lampedusa, Franco Tuccio.

Luigi Accattoli

www.luigiaccattoli.it

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