Per comunicare la fede all’uomo di oggi: metodo e linguaggio

La carezza del focolare. “Tu sei marchigiano e dunque dovresti sentire sempre la carezza del focolare, che è il dono di questa regione: la tenerezza che viene dalle sue campagne coltivate, dalla bontà della gente, dalle cose buone che la sua terra e i suoi figli producono”: così mi parlava il vescovo Tonino Bello, dieci giorni prima di morire, l’aprile scorso. Mi colpì un così preciso sentimento della nostra terra in un uomo che non era di qui. E lo ripropongo oggi a voi perché ritengo che la “carezza del focolare”, che caratterizza la civiltà di questa terra, sia un elemento da interpretare in senso forte, un’eredità che è vocazione e missione.
Carezza del focolare dice dimensione familiare del mondo marchigiano, distanza ravvicinata tra gli uomini e importanza della famiglia in esso. Un mondo che è stato – o ci era sembrato che fosse – una famiglia di credenti, fino a ieri. Ma noi non siamo qui per difendere un’eredità culturale. Ci accompagna la commozione per le Marche cristiane e contadine che furono, ma rifiutiamo di cercarle nella nostalgia. In questa antica terra cristiana è ancora possibile – forse per poco: una generazione ancora, chissà – un annuncio del Vangelo che raggiunga l’insieme della popolazione. A questo vogliamo applicare, memori della carezza del focolare di cui tutti abbiamo avuto esperienza, ma senza rimpianto, fiduciosi di ritrovarla – quella carezza – se non smarriremo la memoria cristiana, se affronteremo con il Vangelo in mano e nel cuore le novità del terzo Millennio.
Questa è l’ultima generazione. Credo che non abbiamo molto tempo per la nuova evangelizzazione, se l’intendiamo come un annuncio che possa raggiungere tutti i nostri contemporanei. Già altrove questa possibilità è un sogno. Altri piangono, ma noi – cari fratelli delle Marche – non abbiamo affatto da stare allegri. Ci deve allarmare non il destino della fede, che è dono e mistero, ma il destino storico della Chiesa intesa come comunità di uomini, con la sua lingua, i suoi riti, le sue teologie e i suoi due millenni.
Ebbene, questa comunità culturale che è la Chiesa ha ancora una sua forza sociale nella nostra regione, tale da permetterle – se davvero vuole – di arrivare a tutti con il suo messaggio. Perché qui la popolazione adulta ha ancora tutta una memoria viva del contesto cristiano da cui proviene. Già arrivano i post-cristiani e i pagani, anche qui, tra i più giovani, ma c’è ancora una memoria della lingua cristiana. C’è ancora il Signore nella comunicazione quotidiana della gente, in questa terra.
La rottura della lingua cristiana e lo stordimento spirituale sono i segni della mutazione che stiamo vivendo, che anche qui si avvertono, ogni anno più forti. Restano spezzoni di quella lingua e lo stordimento è mitigato dalla permanenza di una relativa vicinanza umana. Questo patrimonio residuale va investito – finché ha una sua consistenza culturale e sociale, una sua efficacia operativa – nell’opera della nuova evangelizzazione. Va audacemente investito, giocato tutto, direi. Perché se qui è ancora umanamente possibile arrivare a tutti, forse per l’ultima volta, questo obiettivo va tentato.
Una Chiesa che parla e si presenta. Per quanto attiene all’aspetto della comunicazione, in quest’avventura della nuova evangelizzazione, io individuo quattro priorità:
– realizzare delle comunità parrocchiali parlanti, oltre che operanti;
– capaci di una sistematica mobilitazione missionaria dei cristiani comuni;
– comunità e cristiani che dovranno proporre un annuncio evangelico essenziale, in una lingua media, liberata da ogni remora ecclesiastica;
– un annuncio che abbia dentro tutto intero il fuoco del Vangelo, ravvivato dall’attesa del ritorno di Cristo, ma sia insieme pienamente rispettoso della libertà dei destinatari.
Le nostre comunità devono farsi parlanti: tutta la nostra Chiesa deve tornare a parlare. Ma non lo fa già molto, forse troppo, in Italia e anche nelle Marche? No, a mio parere non lo fa. Parla molto, ma non di Cristo e quando parla di Cristo non è intesa. E parla dall’alto e in un linguaggio che è lontano dalla lingua dell’epoca.
Io credo che la Chiesa oggi in Italia abbia una forte comunicazione con il paese sul piano della carità e del servizio all’uomo, ma realizzi una debole comunicazione dell’annuncio di fede. Senza perdere nulla dell’esperienza di carità maturata nelle nostre comunità, è urgente accompagnare ad essa il fuoco della profezia.
Solo delle comunità capaci di parola, oltre che di carità, potranno affrontare efficacemente l’opera della nuova evangelizzazione. Le nostre comunità la parola cristiana l’hanno dentro: debbono tirarla fuori, pronunciarla, nella lingua di oggi.
Hanno parlato di fronte al dramma del terrorismo e della mafia.
Di fronte a queste sfide sanguinarie, che sembravano negare la storia cristiana del nostro popolo, sono riemerse parole evangeliche essenziali, supreme: il perdono e l’amore dei nemici, la speranza nella vita eterna.
Ecco cosa intendo dire: se le nostre comunità riuscissero a parlare con l’impegno sociale e politico, con quello scolastico e assistenziale, con quello catechetico e liturgico, come sono riuscite a farlo di fronte al sangue e al terrore, ebbene, allora la questione della nuova evangelizzazione e della lingua da usare in essa non esisterebbe.
Esiste invece ed è drammatico. Perché oggi la Chiesa non è più una realtà scontata: oggi si deve presentare. Nel giro di un paio di generazioni siamo passati dalla religione-cultura alla Chiesa come associazione volontaria e scelta di vita. Cristiano non più – neanche nelle Marche – sinonimo di uomo: è tempo dunque, anche in questa terra, di tornare a dirsi cristiani. A questo scopo occorrono comunità parlanti e cristiani che non si vergognino del Vangelo.
Comunità parlanti con tutta la ricchezza della loro vita e capaci di tradurre quella ricchezza in parole. In parole ispirate al linguaggio del cuore, oltre che quello della ragione. Ho detto “parrocchie parlanti“, oltre che comunità: perché ritengo che la comunità parrocchiale, con il suo cromosoma essenziale che è la destinazione a tutti e a ognuno dei membri del popolo vivente in quel territorio, rappresenti ancora una sfida essenziale per la nuova evangelizzazione. Quell’arrivare a tutti che ho detto possibile e quindi obbligatorio ha il suo modello nella parrocchia. Alla parrocchia dunque dovrà far capo ogni altro momento comunitario. Ma una parrocchia che non parli non è oggi all’altezza del compito che si impone.
Per evangelizzazione qui intendo la comunicazione dell’annuncio cristiano in parole e opere, da uomo a uomo. E l’uso dei media in funzione dell’evangelizzazione? Ritengo che i media abbiano una funzione secondaria ma delicata: hanno piuttosto il compito del primo contatto, che si direbbe di pre-evangelizzazione. Oggi molti nostri contemporanei vengono in contatto con la Chiesa più – o prima – attraverso i media che nell’incontro con i battezzati e le loro aggregazioni. Da qui la delicatezza del ruolo dei media ecclesiali: una corretta immagine può essere un buon avvio all’opera di comunicazione della fede, un’immagine deformata può essere un ostacolo. E l’immagine può risultare deformata anche solo per l’incompetenza dei comunicatori.
Il cristiano comune evangelizza per irradiazione e per contagio. Le comunità parlanti hanno il compito di realizzare una mobilitazione sistematica dei cristiani comuni: cioè una chiamata e una sollecitazione di ogni battezzato, memore del suo battesimo, a una comunicazione personale, creativa ed espansiva, della sua fede. La intendo, questa mobilitazione, come una priorità pastorale assoluta, ultima tappa del risveglio del laicato e obiettivo principale della catechesi degli adulti. Perché questa priorità e perché nelle Marche? Essa – io credo – vale in generale, perché solo il cristiano comune – capace di parola, oltre che di carità – può farsi annunciatore all’uomo della società secolare, che diffida delle Chiese e non ne intende più il linguaggio. Credo che questo valga per l’Europa e l’Italia in generale. Ma credo anche che la proprietà del cristiano comune si imponga in modo particolare per la nostra regione, come opportunità, se non come urgenza: la vicinanza umana che caratterizza la vita di questa terra ci indica già quell’opportunità, ma c’è anche una ragione ecclesiale a raccomandarcela: la gran quantità di persone battezzate in ricerca aperta, che affollano ancora le nostre chiese alla domenica.
Sono questi battezzati che debbono essere mobilitati per il Vangelo. Ditemi voi se è esatta questa mia descrizione del tipo forse più diffuso, certo più fedele, di credente che affolla le nostre chiese: un uomo e una donna mossi da un’interrogazione aperta, appartenenti prevalentemente alla generazione di mezzo, che hanno conosciuto la religiosità tradizionale piena e non la trovano più e cercano un suo equivalente. Sono persone con responsabilità familiari, con iniziativa economica, culturalmente sveglia, magari non abituate a leggere, capaci però di istruirsi ascoltando chi legge. Hanno sempre pensato che il Signore era la prima ricchezza e il primo dovere, ma non lo ritrovano nelle forme di un tempo e nessuno gli indica una forma nuova. Ebbene la nuova evangelizzazione dovrebbe dare una risposta innanzitutto a chi ha questa interrogazione aperta nell’anima e sul volto, chiamando queste persone a farsi propagatori della ricerca che hanno condotto, una volta che abbiano accolto la prima risposta.
Missionari della fede che hanno ritrovato, in vista di una risposta ecclesiale organica, comunicabile a tutti, da opporre a questo smarrimento del Verbo e delle radici. E l’urgenza di questa risposta: prima che l’indifferenza, o le sette facciano il deserto. Sulla scommessa di questa mobilitazione si gioca – io credo – il futuro della Chiesa nelle Marche.
Una volta riconosciuta questa priorità, occorrerà finalizzare ad essa gli impegni maggiori della pastorale ordinaria: la catechesi degli adulti, e l’omelia domenicale, per esempio, che dovrebbero formare nel cristiano comune l’attitudine e il bagaglio essenziale per farsi promotore dell’annuncio evangelico.
Altro elemento di attualità per l’attivazione missionaria del cristiano comune: la presenza ormai non trascurabile, anche tra voi, di battezzati non credenti, di cristiani passati alle sette, di figli di cristiani non più battezzati, di non cristiani appartenenti ad altre religioni. Occorre stimolare nel cristiano comune la passione e la ricerca del non cristiano: novità grande per questa terra, segno e sfida del terzo Millennio.
Una Chiesa e un cristiano comune che vivono la condizione e parlano la lingua media della loro gente:
– eliminando dalla loro vita ogni separatezza non evangelica e ogni scandalo non necessario,
– superando progressivamente il linguaggio della tradizione ecclesiastica e del devozionismo popolare,
– tendendo a creare una lingua che abbia dentro – per intero – il fuoco del Vangelo, ma rifiuti ogni connotazione autoritaria o intollerante,
– una lingua rivolta a suscitare libera accoglienza e che possa essere intesa anche da coloro che hanno per motto: “Cristo sì, la Chiesa no”.
Sarà nostro obiettivo far convinto ognuno della necessità della mediazione sacramentale e comunitaria della Chiesa, ma ancor prima dovremo essere capaci di intendere e di parlare la lingua franca della loro fede libertaria.
La concentrazione sull’essenziale del messaggio e l’abbandono del suo rivestimento clericale sono tappe essenziali nella ricerca di questa nuova lingua. Possibilità nuove, in questa direzione, io credo stiano per essere offerte alla nostra Chiesa dalle trasformazioni culturali e politiche in atto in questa ultimissima stagione: il distacco dal potere, anche dalla partecipazione indiretta ad esso, sta per vivere un suo raddoppio storico dopo quello che fu rappresentato in queste terre dalla caduta dello Stato Pontificio. Non è nostro argomento, ma sarà bene prepararsi a questa novità.
Una vita e un linguaggio essenziali, comandati cioè dal contenuto centrale del N.T. e non distratti ne appesantiti da alcuna aggiunta. Una vita e un linguaggio adatti ad attestare e a proclamare un messaggio radicale, ricondotto agli assoluti del Vangelo, compreso il giudizio sul mondo e l’attesa di cieli nuovi e terra nuova.
L’esistenza cristiana deve rifarsi vigile attesa. Una volta, nelle nostre terre, era attesa l’invocazione del pane. Quella stessa attesa-riscoperta come invocazione del Regno e non più del pane – deve tornare a fermentare la vita cristiana. Il cristiano collabora alla trasformazione del mondo, ma anche ne annuncia la fine: egli sa che soltanto l’ira dell’Agnello (Ap 6, 16) libererà davvero l’umanità dai suoi mali e l’uomo dalla sua morte. La nuova evangelizzazione dovrà compiersi nella compagnia degli uomini, ma dovrà comportare anche la contestazione radicale del mondo. Tale radicalità e tale proiezione verso il ritorno di Cristo sono essenziali per scuotere l’uomo d’oggi dallo stordimento spirituale in cui appare immerso. E sono essenziali anche perché quest’uomo possa accogliere l’annuncio cristiano come risposta adeguata alla sua angoscia, quando la sventura lo trae dallo stordimento.
Io non mi vergogno del Vangelo” (Rom 1, 16). Credo si debba evitare ogni angoscia nella ricerca di un nuovo linguaggio: nulla disturba la comunicazione – è esperienza comune – quanto l’ansia di comunicare e la moltiplicazione sperimentale dei messaggi. C’è una valenza comunicativa specifica nell’evangelico “non preoccupatevi di come e di che cosa dovrete dire, perché vi sarà suggerito in quel momento ciò che dovrete dire” (Mt 10, 19 – 20). E il bellissimo passo parallelo di Luca dice: “io vi darò lingua e sapienza” (Lc 21, 16).
Lo Spirito ci dirà come e che cosa, ci darà lingua e sapienza, a condizione che vi sia da parte nostra un reale abbandono alla sua guida, una reale vita di fede. Se c’è vita questa parlerà. Trovare un linguaggio per il nostro tempo vuol dire trovare una vita adeguata a questa epoca. No all’angoscia del linguaggio e no anche a quella collegata dell’efficacia apostolica, che è un difetto del clero cattolico (questo clero ha tanti meriti ma anche qualche limite: legato magari, come in questo caso, agli stessi meriti).
Nuova evangelizzazione non deve voler dire convertire il mondo, creare una nuova civiltà cristiana, riportare in chiesa tutti coloro che – in questa regione – non la frequentano più: molto più realisticamente ed evangelicamente, intraprendere una nuova evangelizzazione vuol dire fare il possibile perché a tutti sia annunciato il Vangelo. Vuol dire attuare l’annuncio evangelico con la vita ed esprimerlo con le parole in modo che esso sia offerto al libero ascolto di tutti i nostri contemporanei, così che:
– chi vuole ascolti;
– chi ascolta possa – se lo desidera – approfondire;
– chi approfondisce incontri una famiglia, che l’accompagni fin dove accetterà di arrivare.
Nessuna angoscia dunque ci deve muovere nell’opera della nuova evangelizzazione. E nessuna offensiva nei confronti dei destinatari dell’annuncio. L’unica forte decisione riguarderà noi stessi e sarà simile a quella che Paolo enuncia all’inizio della lettera ai Romani: “Io non mi vergogno del Vangelo” (1, 16). Vi affido queste parole come motto dell’avventura missionaria del cristiano comune.

Lascia un commento