Se sei ricco di martiri e non lo sai. Che ci dice la vicenda dei certosini di Farneta

Se veniamo uccisi voi dite che è stato a causa della carità” era il titolo che avevo proposto per un libretto su un fatto di significato cristiano della seconda guerra mondiale, che nel sottotitolo segnalavo come “storia mirabile e sconosciuta dei certosini di Farneta fucilati dai tedeschi nel 1944”. Il titolo non è stato accettato, come capita, ma il libro sì l’hanno preso ed esce ora per la Rubbettino: La strage di Farneta. Storia sconosciuta dei dodici certosini fucilati dai tedeschi nel 1944 (pp. 138, euro 12).

Mi era già capitato di farmi certosino per tre giorni allo scopo di intervistare il priore di Serra San Bruno in vista della visita di papa Benedetto, avvenuta poi il 9 ottobre 2011. Ne era venuto – sempre per la Rubbettino – il volumetto Solo dinanzi all’Unico. Colloquio con il Priore della Certosa di Serra San Bruno (€ 12,00, pagine 140).

Ho indossato la cappa del postulante

Ho ripetuto l’esperienza dei tre giorni in Certosa, stavolta a Farneta (Lucca), per indagare sul martirio di quei monaci incredibilmente trascurato – nella Chiesa – fino a oggi. Ho cenato alle 18, sono andato a dormire – in una stanza della Foresteria interna – alle 19,30 mettendo la sveglia alle 23. Alle 23,25 ho indossato la cappa nera dei postulanti e ho percorso vialetti, salito gradini, costeggiato celle per arrivare alla chiesa conventuale, guidato dal padre bibliotecario che era il mio tutor in quei giorni. Al centro del coro dei monaci era inginocchiato il sacrista, immobile nel buio, con le due mani sulla corda della campana. Dalla postura orante del monaco sacrista imparavo come possa divenire liturgia il tiro delle campane.

Alle 23,30 i rintocchi del mattutino avviavano i canti del “primo notturno”. Straordinario equilibrio della riforma liturgica certosina: ha introdotto la comunione sotto le due specie, la concelebrazione, le letture in italiano; ma ha conservato il latino della salmodia, quel loro recto tono simile al gregoriano, la messa solitaria di ogni monaco sacerdote. Chi ha detto che non vi può essere osmosi tra vecchio e nuovo ordo? Il Rito certosino ora unisce la vitalità del nuovo alla solennità dell’antico. Un modello per la riconciliazione tra le due forme del Rito romano auspicata da papa Benedetto, che le invitava ad “arricchirsi a vicenda”.

Oltre alla cappa del postulante, che a Serra non avevo indossato, dal priore di Farneta ho avuto un’altra sorpresa: mi ha invitato a parlare ai 21 confratelli con i quali due volte ho cantato il mattutino e due volte sono stato alla messa conventuale. Mi hanno chiesto una conversazione su papa Francesco e mi hanno fatto le domande che già avevo raccolto nelle varie conferenze ma senza i toni polemici che sempre spuntano in esse. Ho visitato – prima di prendere congedo – i vecchi ambienti di lavoro dei “conversi”: stalle e fienili, lavatoio per le pecore, pollaio, frantoio, mulino, cantina, distilleria, forgia, forno. Le pecore che scendono e risalgono dalla vasca, prima e dopo la tosatura: guardando com’era fatta mi pareva non solo di vedere il passaggio del gregge ma di sentire i graffi della forbice sul groppone. Ho trovato questi ambienti più interessanti della biblioteca e dell’archivio, della sartoria e della cucina, che pure ho visto, sempre domandando. La pazienza dei Certosini provoca all’inchiesta.

Alla ricerca di un fatto primario e sconosciuto

A Serra San Bruno ero stato felice ascoltando il padre priore che mi confidava come tutto il Vangelo per lui si riassuma nelle parole «misericordia, compassione, tenerezza» e che questo egli l’affermava non per dottrina ma per esperienza, sollecitando una maggiore apertura di tutti «all’inedito e al non sperimentato». Avevo avuto consolazione ad ascoltare quelle parole che oggi Francesco pone ad antifona della sua predicazione. A Farneta ho avuto un’analoga consolazione dalla scoperta che le calde insistenze del nuovo Papa a “uscire” possono essere intese nel giusto senso anche da chi fisicamente non esce mai ma da eremita vive immerso nella Catholica e si prostra nella notte sulla terra rotonda a nome di tutti.

Nel libretto che ho intessuto con i materiali raccolti a Farneta racconto un fatto primario e sconosciuto della reazione italiana all’occupazione tedesca, forse il più corposo dal punto di vista cristiano: dodici monaci fucilati perché nascondono nel monastero un centinaio di ricercati dai nazifascisti, compresi perseguitati politici, partigiani ed ebrei. Si tratta di sei monaci sacerdoti e sei fratelli laici, fatti prigionieri dalle SS con un’irruzione in Certosa nella notte tra il 1° e il 2 settembre 1944, condotti prigionieri a Nocchi di Camaiore e poi a Massa, uccisi a piccoli gruppi e in diversi luoghi, due il 7 settembre e gli altri il 10 settembre. Vengono fucilati negli stessi giorni e luoghi altri 32 catturati in Certosa, in parte perché ritenuti colpevoli di resistenza all’occupante alla pari dei monaci, in parte selezionati per fare numero in azioni di rappresaglia, sommati a decine di altri rastrellati in quelle giornate di ritirata delle truppe tedesche dalla Lucchesia: la Quinta Armata americana entra in Lucca il 5 settembre e Farneta è a soli otto chilometri da Lucca, in direzione nord-ovest, poco oltre il fiume Serchio.

Quel memorabile ottavario del martirio

Straordinari aspetti simbolici arricchiscono la vicenda. I dodici vengono da sei nazioni, hanno varia età, portano con sé singolari esperienze. Tre sono di lingua tedesca ma ciò non vale a salvarli dall’ordine del “fuoco” dato in tedesco. Uno era stato vescovo in Venezuela, ne era stato cacciato da un dittatore e i nazisti lo prendono per una “spia americana”. Un altro è spagnolo e in patria otto anni prima si era avventurosamente salvato da un analogo assalto alla Certosa di Montalegre portato dai rivoluzionari rossi: come se fosse destino, suo e dei Certosini che fuggono il mondo, di provocare la furia d’ogni milizia violatrice della dignità dell’uomo. Qui in verità è il titolo del loro martirio: hanno sfamato e nascosto chi era minacciato, hanno avuto pietà quando la pietà era bandita.
L’hanno argomentata e pregata quella compassione per i perseguitati: qui è un altro elemento che fa ricca la storia. Dal 2 settembre 1944 quando la Certosa viene “rastrellata” – come annota un documento dell’occupante tedesco – al 10 settembre quando i più tra loro vengono mitragliati, in quell’ottavario del martirio i dodici attestano in gesti e parole il significato dell’opera che hanno svolto e per la quale danno la vita. Sono prigionieri con loro ventidue confratelli che sopravviveranno, alcuni contadini e dipendenti della Certosa, i tanti da loro beneficati e centinaia di altri “rastrellati” che narreranno gli sguardi, le battute di spirito, il loro modo di dividere il cibo e la paglia, di invocare Dio, di alzare gli occhi con uguale sentimento su ognuno che a loro si avvicinasse.
Nonostante l’oro che porta con sé questa vicenda è sconosciuta alla memoria collettiva. Eppure su di essa si sono tenuti tre processi (Firenze 1947, La Spezia 1948, La Spezia 2004) e hanno lavorato gli storici locali e i monaci che presero il posto dei fucilati nella guida della comunità: il monastero tornò alla vita normale dopo la ritirata dei tedeschi, con il rientro dei deportati e con l’affluenza di monaci da altre Certose. Più circostanze hanno concorso all’oscuramento del fatto nella grande divulgazione: l’atteggiamento riservato dei Certosini, la scarsa attenzione della comunità cattolica a una realtà monastica percepita erroneamente come chiusa in sé stessa, il conflitto interpretativo dell’evento tra chi lo collocava nell’orizzonte della Resistenza e chi invece l’intendeva come opera di carità lontana dalla politica.

Autorizzato dal ministro dell’ordine

La possibilità di portare oggi questo fatto al grande pubblico con una narrazione breve, che è lo scopo del mio volumetto, è dovuta al parziale superamento di quegli ostacoli. Il primo superamento riguarda il riserbo dei Certosini: a seguito della mia esperienza di Serra San Bruno – ricordata all’inizio – ho avuto dal ministro generale dell’ordine l’autorizzazione a pubblicare la “Relazione sui martiri di Farneta” che l’ordine stesso inviò nel 1999 alla Commissione vaticana per la “Commemorazione dei Testimoni della fede del secolo XX” (7 maggio 2000).
Il secondo superamento – quello del conflitto interpretativo – è più importante e più complesso a dire: qui basterà segnalare che finalmente, nelle pubblicazioni degli ultimi anni, le conclusioni degli storici vengono a coincidere, nella sostanza, con quelle degli eredi diretti dei protagonisti come sono consegnate alla “Relazione” che dicevo.
Nei giri per conferenze mi trovo spesso a trattare di giusti delle nazioni e di testimoni del nostro tempo, e tra quelli che hanno testimoniato con il sangue metto sempre i certosini di Farneta, che chiamo “martiri della carità e dell’aiuto agli ebrei” e sempre vengo ascoltato con meraviglia dai tantissimi che non hanno mai inteso la loro storia. Persino in Toscana succede così e anche in ambienti che coltivano memorie di martirio simili a questa.

Mio suggerimento ai vescovi della Toscana

I certosini per una consuetudine quasi millenaria – il nono centenario dell’ordine è stato celebrato nel 2001 – non promuovono cause di canonizzazione, ma nulla osta che il riconoscimento del chiaro martirio dei dodici di Farneta sia promosso – poniamo – dai vescovi della Toscana. Colpisce che a oggi siano state quasi solo laiche e civili le iniziative che hanno tenuto vivo il ricordo di una vicenda che è di Chiesa. Quest’anno – in settembre – cade il 70° di questi martiri: è un’occasione da cogliere.

Luigi Accattoli

www.luigiaccattoli.it

Il Regno 4/2014

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