Premessa

Dodici come le dodici tribù

Qui racconto un fatto primario e sconosciuto della reazione italiana all’occupazione tedesca, forse il più corposo dal punto di vista cristiano: sono dodici monaci della Certosa di Farneta, Lucca, che vengono fucilati dai tedeschi nel settembre del 1944 perché nascondono nel monastero un centinaio di ricercati dai nazifascisti, compresi perseguitati politici, partigiani ed ebrei. Si tratta di sei monaci sacerdoti e sei fratelli laici, fatti prigionieri dalle SS con un’irruzione in Certosa nella notte tra il 1° e il 2 settembre 1944, condotti prigionieri a Nocchi di Camaiore e poi a Massa, uccisi a piccoli gruppi e in diversi luoghi, due il 7 settembre e gli altri il 10 settembre. Vengono fucilati negli stessi giorni e luoghi altri 32 catturati in Certosa, in parte perché ritenuti colpevoli di resistenza all’occupante alla pari dei monaci, in parte selezionati per fare numero in azioni di rappresaglia, sommati a decine di altri rastrellati in quelle giornate di ritirata delle truppe tedesche dalla Lucchesia: la Quinta Armata americana entra in Lucca verso il mezzogiorno del 5 settembre e Farneta è a soli otto chilometri da Lucca, in direzione Nord-Ovest, poco oltre il fiume Serchio.

Straordinari aspetti simbolici arricchiscono la vicenda. I dodici vengono da sei nazioni, hanno varia età, portano con sé singolari esperienze. Tre sono di lingua tedesca ma ciò non vale a salvarli dall’ordine del “fuoco” dato in tedesco. Uno era stato vescovo in Venezuela, ne era stato cacciato da un dittatore e i nazisti lo prendono per una “spia americana”. Un altro è spagnolo e in patria otto anni prima si era avventurosamente salvato da un analogo assalto alla Certosa di Montalegre portato dai rivoluzionari rossi: come se fosse destino, suo e dei Certosini che fuggono il mondo, di provocare la furia d’ogni milizia violatrice della dignità dell’uomo. Qui in verità è il titolo del loro martirio: hanno sfamato e nascosto chi era minacciato, hanno avuto pietà quando la pietà era bandita da chi mirava a soggiogare. Portano nei nomi e nei volti il segno di una molteplice vocazione a rappresentare l’intera umanità sofferente della guerra mondiale: dodici come le dodici tribù.

L’hanno argomentata e pregata quella compassione per i perseguitati: qui è un altro elemento che fa ricca la storia. Dal 2 settembre 1944 quando la Certosa viene “rastrellata” – come annota un documento dell’occupante tedesco – al 10 settembre quando i più tra loro vengono mitragliati, in quell’Ottavario del martirio i dodici attestano in gesti e parole il significato dell’opera che hanno svolto e per la quale danno la vita. Sono prigionieri con loro ventidue confratelli che sopravviveranno, alcuni contadini e dipendenti della Certosa, i tanti da loro beneficati e centinaia di altri “rastrellati” che narreranno gli sguardi, le battute di spirito, il loro modo di dividere il cibo e la paglia, di invocare Dio, di alzare gli occhi con uguale sentimento su ognuno che a loro si avvicinasse. Una viva commedia del giusto nella tribolazione che può aiutare tanti perché la tribolazione non mancherà mai a chi si cura del prossimo.

Nonostante l’oro che porta con sé questa vicenda è restata sconosciuta alla memoria collettiva. Eppure su di essa si sono tenuti tre processi (Firenze 1947, La Spezia 1948, La Spezia 2004) e hanno lavorato gli storici locali e i monaci che presero il posto dei fucilati nella guida della comunità: il monastero tornò alla vita normale dopo la ritirata dei tedeschi, con il rientro dei deportati e con l’affluenza di monaci da altre Certose. Più circostanze hanno concorso all’oscuramento del fatto nella grande divulgazione: l’atteggiamento riservato dei Certosini, che non promuovono né la divulgazione della propria storia né cause di canonizzazione dei propri martiri; la scarsa attenzione della comunità cattolica a una realtà monastica percepita erroneamente come chiusa in sé stessa; il conflitto interpretativo dell’evento che è durato fino agli anni più recenti tra chi lo collocava nell’orizzonte della Resistenza e chi invece l’intendeva come opera di carità lontana dalla politica.

La possibilità di portare questo fatto al grande pubblico con una narrazione breve, immediatamente fruibile, che è lo scopo di questo volumetto, è dovuta al parziale superamento di quegli ostacoli. Il primo superamento riguarda il riserbo dei Certosini: a seguito di una mia esperienza di avvicinamento al mondo delle Certose (vedi il volumetto Solo dinanzi all’unico. Luigi Accattoli a colloquio con il priore della Certosa di Serra San Bruno, Rubbettino, Catanzaro 2011), ho ottenuto dal ministro generale dell’Ordine l’autorizzazione a pubblicare la “Relazione sui martiri di Farneta” che l’Ordine stesso inviò nel 1999 alla Commissione vaticana per la “Commemorazione dei Testimoni della fede del secolo XX” (7 maggio 2000). La pubblicazione della Relazione – fino a oggi inedita – in appendice a questo volume segna una tappa nella storia della riservatezza certosina: dei fatti di Farneta qui l’Ordine Certosino parla pubblicamente per la prima volta.

Il secondo superamento – quello del conflitto interpretativo – è più importante e più complesso a dire: ne tratterò nell’ultimo capitolo del libretto e nella “Nota sulle fonti”, quando al lettore sarà chiaro, dal racconto dei fatti, il ruolo che ebbero nella loro graduale comprensione le diverse angolature con cui furono interpretati nei decenni. Qui basterà dire che finalmente, nelle pubblicazioni degli ultimi anni, le conclusioni degli storici vengono a coincidere, nella sostanza, con quelle degli eredi diretti dei protagonisti come sono consegnate alla “Relazione” che dicevo.

Nei giri per conferenze mi trovo spesso a trattare di Giusti delle Nazioni e di Testimoni del nostro tempo, e tra quelli che hanno testimoniato con il sangue metto sempre i Certosini di Farneta, che chiamo “martiri della carità e dell’aiuto agli ebrei” (così intitolo l’ultimo capitolo di questo volumetto) e sempre vengo ascoltato con meraviglia dai tantissimi che non hanno mai inteso la loro storia. Persino in Toscana succede così e anche in ambienti che coltivano memorie di martirio simili a questa. Aggiungo che a rendere memorabili questi eventi non vi sono solo il segno del sangue e quelle giornate comunitarie di apparecchio alla morte che segnalavo, ma la viva umanità dei protagonisti – che sarà un bel dono al lettore – e il loro legame con un popolo al cui destino si uniscono nella maniera intensa e misteriosa che è propria delle comunità certosine.

Ricordavo sopra che i Certosini per una consuetudine quasi millenaria – il nono centenario della fondazione dell’Ordine è stato celebrato nel 2001 – non promuovono celebrazioni o cause di canonizzazione per i confratelli, ma nulla impedisce che il riconoscimento del chiaro martirio dei dodici di Farneta sia promosso dalla Chiesa Cattolica della Toscana o dell’Italia. Checché ne sia della difficoltà di elaborare una memoria così dolorosa, non tanto da parte dei superstiti e dei cultori di storia ma da parte della circostante comunità, colpisce che a oggi siano state quasi solo laiche e civili le iniziative che hanno tenuto vivo il ricordo di questa vicenda.

Ciò vale per i tre processi già ricordati, per l’attribuzione di onorificenze ai protagonisti dei fatti (una Medaglia d’Oro al Valore militare nel 1951 al padre Costa e una medaglia d’Oro al Merito civile all’intera Comunità certosina nel 2001), per la commemorazione del loro “martirio” sul piazzale della Certosa nel 40° della Liberazione alla quale intervenne il presidente del Consiglio Bettino Craxi (20 gennaio 1985), per le pubblicazioni curate dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età contemporanea in provincia di Lucca. Il gesto di Craxi sarà stato – poniamo – semplificante e forse invadente, a prolungamento di una lettura a dominante resistenziale degli eventi del 1944 mai condivisa dai responsabili della Certosa; ma resta il fatto che egli andò a onorare questi monaci, che chiamò “martiri” nel suo linguaggio laico e socialista. Forse è tempo che la Chiesa si metta in pari in quest’impresa della memoria.

L’occasione per una qualche iniziativa mirata al riconoscimento di tanto martirio si offre con la data di questa pubblicazione che arriva in libreria nel settantesimo dei fatti: a sua appendice – come già detto – si legge un documento dell’Ordine Certosino nel quale è contenuta la proposta del riconoscimento: vedi in particolare il primo e l’ultimo capoverso, insieme al paragrafo 13 intitolato “La carità può essere causa di autentico martirio?” A quindici anni dalla formulazione quella proposta non ha avuto nessuna accoglienza e magari non è stata neanche letta da coloro ai quali era indirizzata per via interna. Ora esce e merita risposta. 

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