Giovanni Paolo e l’alleanza con i media

Incontro con l’UCSI di Modena
21 aprile 2009

La creativa alleanza di Giovanni Paolo con i media nasce mezz’ora dopo l’elezione, quando il nuovo Papa si affaccia alla Loggia centrale della Basilica di San Pietro e parla: nessun Papa – che si ricordi – aveva mai parlato all’elezione. Quelle poche parole, che erano importanti per altro motivo (avevano cioè lo scopo primario di autopresentazione del Papa «straniero» al popolo di Roma), trasformano quella prima apparizione da evento rituale in fatto giornalistico. In quella decisione di parlare era implicita – ma forse inconsapevole – l’offerta di un’alleanza: il Papa coglieva l’opportunità d’avere addosso i media di tutto il mondo per dire una cosa importante, e cioè per invitare gli italiani ad accettarlo come vescovo di Roma; ma così facendo forniva ai media la chance inedita di porsi come primi destinatari e veicolatori diretti di una novità pontificale.

Quella creativa e innocente alleanza con i media ha uno sviluppo importante – che indichiamo come seconda tappa: dalla parlata spontanea al dialogo con la folla – in occasione della prima uscita dal Vaticano per andare al Gemelli, il giorno dopo l’elezione e – poco più tardi – in occasione del primo incontro con i giornalisti, che si arricchisce di battute dialogate (21 ottobre) e della seconda uscita da Roma per andare ad Assisi, sulla tomba di San Francesco patrono d’Italia (5 novembre). Al Gemelli il Papa parla alla folla improvvisando e solo per salutare e scherzare: cosa che con Paolo VI non succedeva. Lo stesso fa con i giornalisti. Ad Assisi risponde improvvisando a un grido che gli arriva dalla folla:

«? Viva la Chiesa del silenzio!
?Non c’è più Chiesa del silenzio, perché parla attraverso il Papa!» (5 novembre).

In seguito abituerà i media alle improvvisazioni dialogate: la rottura dell’evento rituale con la battuta spontanea i giornalisti l’apprezzano ancor più del fatto aggiunto all’evento.

Terza tappa – decisiva – di questa alleanza è il volo Roma-Santo Domingo, con cui Giovanni Paolo inizia, il 27 gennaio 1979, il suo primo viaggio fuori d’Italia: quel giorno nascono le interviste sull’aereo. Siamo ancora nella fase dell’innocenza – in questo rapporto del Papa con i media – ma stavolta lo sviluppo è impegnativo perché vi sono direttamente coinvolti gli operatori dell’informazione, che delle tappe precedenti erano stati semplicemente spettatori. Già Paolo VI viaggiava con giornalisti a bordo e passava a salutarli nei suoi 9 viaggi internazionali (con il primo aveva visitato la Terra Santa nel gennaio del 1964 e con l’ultimo era andato in Libano, Pakistan, Filippine, Samoa, Papua Nuova Guinea e Australia nel 1970), mai però aveva tenuto conversazioni giornalistiche o conferenze stampa. In quei passaggi di Papa Montini tra i giornalisti valeva la regola delle udienze in Vaticano: è proibito fare domande al Papa. Era lui, Paolo VI, attento lettore dei giornali (che Giovanni Paolo non è mai stato, perché i giornali polacchi della sua giovinezza non erano interessanti), a fare domande e osservazioni puntuali, a ogni giornalista che incontrava: si informava delle famiglie e della salute, benediceva.

Senza una decisione, senza un piano, d’istinto Giovanni Paolo invece fin dal primo viaggio si offre alle domande e risponde a tutte e crea un genere giornalistico che non esisteva. Ecco come racconta quella novità l’inviato che gli fece la prima domanda: «Forse il Papa si era fatto vivo solo per salutarci, com’era solito fare Paolo VI. A ogni modo, gli domandai a bruciapelo se pensava di visitare gli Stati Uniti e, con mia somma sorpresa, mi rispose immediatamente e con la massima franchezza. “Credo che sarà necessario”, disse in inglese, con forte accento straniero: “Resta da fissare soltanto la data”. La mia domanda servì a rompere il ghiaccio e in breve tempo tutti cominciarono a porre al Papa interrogativi delicati e complessi, ottenendo da lui risposte chiare e schiette» (W. Wynn, Custodi del Regno, Frassinelli, Milano 1989).

La quarta tappa dell’alleanza di Giovanni Paolo con i media è segnata dal primo viaggio in Polonia del giugno del 1979: lì il Papa afferma la consapevolezza che i media hanno dato dimensione mondiale al suo ritorno in patria. L’alleanza è dichiarata e programmatica. Tutto ciò che avverrà dall’ora in poi, in questo settore dei media – ed è moltissimo – è in qualche modo implicito in quel programma e nelle tre fasi spontanee che l’hanno preceduto.

La novità nell’uso dei media realizzata da Giovanni Paolo Il è analoga a quella che ha introdotto nella pratica dei viaggi. Non abbiamo avuto un Papa che all’occasione viaggia, per attuare missioni simboliche, o esemplari, come faceva Paolo VI, ma un Papa che intende visitare ogni Chiesa locale, per una sistematica mobilitazione missionaria della cattolicità. E analogamente: non abbiamo avuto un Papa che tiene radiomessaggi a Natale e a Pasqua, o autorizza la trasmissione in diretta delle sue celebrazioni, come facevano i predecessori; ma un Pontefice che in proprio realizza e agli altri chiede una sistematica utilizzazione dei media, perché ogni momento significativo della vita della Chiesa venga comunicato e affinché la sua testimonianza sia presente in ogni rete comunicativa.

Le interviste sull’aereo sono l’esempio classico di tale novità: non c’era vaglio alle domande, il Papa le accettava tutte e affrontava il rischio di rispondere come poteva, improvvisando. Faceva questo perché confidava nell’attendibilità complessiva del sistema dei media. E perché ritenne utile l’obiettivo che in tal modo otteneva: di una presenza più marcata sui media, magari ottenuta – a volte – per ragioni marginali, di curiosità, di immagine.

Paolo VI viaggiava, aveva anzi inventato i viaggi Papali moderni, ma – abbiamo detto – si limitava a salutare i giornalisti che lo seguivano sull’aereo, non accettava domande. E non certo per atteggiamento antimoderno. Ma per un’esigenza di riserbo nei confronti dei media: per lo scrupolo di offrire loro soltanto i momenti alti del suo magistero.

Papa Wojtyla invece accettava la regola dei media, che è quella della ridondanza, della semplificazione e dell’intrattenimento. Ed ecco che rispondeva alle domande dei giornalisti e si faceva fotografare durante le escursioni in montagna, o quando sciava, o sul letto del Gemelli.

Paolo VI avrebbe ritenuto inopportuno per l’immagine Papale rispondere a una decina di domande diverse e convergenti su Cuba, Castro e il comunismo, come invece farà – con impegno totale e compiaciuto – Giovanni Paolo il 21 gennaio 1998, durante il volo Roma?L’Avana: è la regola della ridondanza (o dell’ingrandimento), amata dai media. I Papi una volta – e non mille anni fa, ma fino a metà dell’Ottocento – parlavano, da Papi, soltanto in latino e nei Concistori. La spregiudicata accettazione della regola della ridondanza mass?mediale da parte di Giovanni Paolo ci dà la misura della distanza da lui presa rispetto a quell’immagine sacrale del pronunciamento «ex ore sanctissimi» (dalla bocca del santissimo), come si diceva nel linguaggio di Curia.

Analogamente Paolo VI avrebbe ritenuto impossibile rispondere a una domanda semplificata, del tipo: «Che pensa delle accuse di bancarotta fraudolenta che vengono mosse all’arcivescovo Marcinkus?» Wojtyla non si è mai rifiutato di rispondere a domande come questa, ne ha anzi approfittato per dare – con una risposta a una domanda semplificata – un’indicazione semplice, e a volte tanto più efficace, che nel caso di Marcinkus fu: «Noi siamo convinti che non si può attaccare una persona in modo così brutale!» (volo Roma?Montevideo, 31 marzo 1987).

Infine la regola dell’intrattenimento. Sono dettate da essa le domande del tipo: «Stasera c’è la partita di calcio Italia?Polonia, lei per chi tifa?». Cioè quelle questioni che i giornalisti pongono per rispondere alla pura curiosità dell’opinione pubblica. Giovanni Paolo si sottometteva anche a questa regola, non solo rispondendo con humour a quelle domande (nel caso della partita la risposta fu: «Per me sarebbe meglio nascondermi», volo Buenos Aires?Roma, 14 giugno 1982), ma accettando di farsi fotografare con in braccio un koala, o mentre accarezzava un piccolo rinoceronte, o cercava di avvicinarsi a un canguro.

L’accettazione della regola dei media è stata radicale in Giovanni Paolo. Ha voluto una volta la ripetizione – per i fotografi e i cameramen che li avevano mancati – della genuflessione e dell’abbraccio di Lech Walesa, perché «bisogna far vedere come il signor Walesa mi saluta e come io l’accolgo» (21 aprile 1989). A Papa Montini una simile opportunità non sarebbe mai venuta in mente. E non ha avuto difficoltà a essere ripreso in quel colloquio?confessione che ebbe a Rebibbia con il suo attentatore, Alì Agca (27 dicembre 1983: vedi capitolo 15), perché convinto che tutto possa e debba essere mostrato, di quanto può servire a predicare il Vangelo.

Sono state tentate molte spiegazioni dei privilegio televisivo della figura Papale e dell’uso «innocente» ed efficace che ne ha fatto Giovanni Paolo II. Unica, bianca, ideologicamente semplice, l’immagine del Papa risponde in modo ottimale all’esigenza di semplificazione simbolica che governa i media di massa. C’è poi da considerare l’attitudine personale del Papa. E non è stata solo l’esperienza del teatro, ma anche quella della liturgia a fare dell’uomo Wojtyla un comunicatore televisivo ottimale. Attitudine cui corrispondeva la convinzione di una precedenza della visibilità sull’oralità, dell’azione sulla parola. A sua volta la televisione valorizzava appieno quell’attitudine e quella voluta precedenza. Lontananza simbolica e percezione immediata si fondevano – con reciproco rafforzamento – nell’immagine televisiva del Papa.

Riassumendo la nostra ricostruzione dell’alleanza di Giovanni Paolo con i media, diremo:

? che Wojtyla è stato un Papa del gesto e della presenza, fisica e mediale, prima che della parola; e della parola improvvisata e personale, prima che di quella scritta e firmata;

? che questa preferenza, che si esprimeva nei viaggi e nell’uso dei media, gli permetteva di raggiungere un pubblico enormemente più vasto di quello con cui sarebbe potuto entrare in contatto con le udienze romane e con il magistero scritto;

? che essa risentiva sia dell’antico genio comunicativo cattolico e pontificio, che ha sempre privilegiato l’azione e la visibilità liturgica, iconografica e architettonica (e poi fotografica e televisiva), sia dell’attitudine del personaggio: dotato di comunicativa naturale, educato all’arte del teatro, con l’esperienza viva della teatralità liturgica polacca.

Giovanni Paolo credeva al ruolo positivo dei media: con intuizione tipicamente cattolica riteneva che il mondo fosse buono e buone dovessero esserne le notizie. «Voi proponete l’unità fra tutte le nazioni mediante la diffusione della verità fra tutti i popoli», disse ai giornalisti accreditati presso l’Onu, il 2 ottobre 1979.

Al momento dell’elezione egli non aveva un’esperienza positiva dei media del suo paese, grigi e atei. Ma aveva grande aspettativa per i media del mondo libero, come li avesse attesi da una vita. E già da cardinale, nel volume di commento ai documenti conciliari, che si intitola Alle fonti del rinnovamento, affermava con un’intuizione che non poteva essere più sicura: «L’aspetto profetico della vocazione cristiana guida la nostra attenzione verso i mezzi di comunicazione di massa».

L’aspettativa per i media del mondo libero trovò verifica nell’eco suscitata dalla sua elezione e ancor più nell’attenzione mostrata al suo viaggio in Messico e soprattutto a quello in Polonia. L’irruzione dei media nella sua patria, al seguito del Papa pellegrino, la percepì come il segno della fuoriuscita della Polonia dall’isolamento geopolitico in cui era stata costretta dalla spartizione di Yalta: «Vi ringrazio per aver portato tutto il mondo in Polonia, tenendolo al mio fianco e facendolo partecipare a queste preziose giornate di preghiera e di mio ritorno a casa», così salutò i giornalisti il 10 giugno 1979 a Cracovia, nel cortile dell’arcivescovado.

Occorre prendere sul serio il Papa missionario, per comprendere il suo impegno per excessum nei viaggi e la sua fiducia – forse altrettanto eccessiva – nei media. Egli decideva i viaggi ponendosi come missionario del mondo. E li voleva organizzati in modo che gli permettessero di incontrare, a ogni tappa, il più gran numero di persone. Analogamente voleva che la Chiesa affrontasse «con umile audacia i sentieri misteriosi dell’etere per recare alla mente e al cuore di ogni persona l’annuncio gioioso di Cristo Redentore dell’uomo» (così scrisse nella preghiera a Maria stella dell’evangelizzazione, composta nel 1992 per l’emittente cattolica italiana Telepace).

Egli era veramente convinto che i media gli permettessero di raggiungere «la mente e il cuore» di ogni persona. Aveva fiducia nel mezzo e nel recettore. Riteneva che l’avvento dei media avesse modificato la condizione del missionario: che avesse ampliato le possibilità di risposta dei cristiani al mandato missionario di Cristo, «andate e predicate a tutte le genti».

Arrivare ovunque – con l’aereo o via satellite – e raggiungere ogni popolo, salutandolo in ogni lingua: egli lo considerava non soltanto un grande dono, ma un assoluto dovere. «Grandi possibilità oggi sono offerte alla comunicazione sociale, nella quale la Chiesa riconosce il segno dell’opera creatrice e redentrice di Dio, che l’uomo deve continuare. Questi strumenti possono quindi diventare potenti mezzi di trasmissione del Vangelo» (messaggio per la XIX Giornata mondiale delle comunicazioni sociali, maggio 1985). E se possono, debbono: questa è la regola della missione.

Vi sono scelte gestuali e di linguaggio di Giovanni Paolo II che possono essere comprese solo se teniamo conto dell’assemblea continentale o planetaria cui sono destinate, mediante la diretta televisiva. Per i messaggi Urbi et orbi di Pasqua e di Natale arrivò a usare 62 lingue: sarebbe stata un’esibizione insensata, se a seguire la trasmissione in mondovisione, diretta o differita, non ci fossero davvero «tutte le genti».

Alla tirannia della diretta televisiva Giovanni Paolo arrivava a sottomettersi docilmente, come si vede bene da questa battuta improvvisata durante una veglia in piazza San Pietro trasmessa in mondovisione: «Io devo dire per 25 minuti e non so se questi 25 minuti sono oltrepassati» (8 ottobre 1994).

Ma, si sa, i media sono una sfida per tutti e lo sono stati a volte anche per Wojtyla, per esempio con l’insistenza sui segni di sofferenza, dopo la protesi al femore destro. «Chieda ai giornalisti se non hanno mai avuto loro una smorfia di dolore!», dice al portavoce Joaquin Navarro-Valls, il 22 agosto 1994 a Introd (Aosta), vedendo che i giornali avevano enfatizzato un momento di dolore che aveva avuto il giorno prima, nel salire i gradini dell’altare.

Altre volte si è difeso con l’ironia dall’invadenza dei media nel campo della sua salute:

«? Come sta, Santità?
? Certamente non ho più gli anni che avevo nel 1979! Ma forse la Provvidenza mi mantiene. Se voglio sapere qualcosa sulla salute, soprattutto sulle mie operazioni, devo leggere la stampa!» (21 gennaio 1998, volo Roma?La Habana).

Ma nel complesso Giovanni Paolo – che i media da subito qualificarono come «grande comunicatore» – ha avuto un buon rapporto con la stampa. Il portavoce Navarro sostenne che ci fu «un’alleanza oggettiva tra i media e il Papa», che contribuì a modificare l’immagine Papale: «Non sappiamo quale percentuale spetta al Papa e quale ai media, ma questo profondo mutamento lo hanno realizzato insieme».

Lascia un commento