Chiesa e società nell’età del Concilio

Genova – Giovedì 23 aprile 2009

Prima dico il mio rapporto di giovanissimo cristiano con l’evento del Concilio nei giorni del suo svolgimento. Poi provo a indicare per punti l’attualità ecclesiale e civile della sua presenza riformatrice. Infine darò un’occhiata ad alcune obiezioni riguardanti la sua applicazione, essendo tra coloro che vedono nel Vaticano II un grande dono alla Chiesa cattolica e al nostro tempo [“massima grazia del secolo ventesimo” fu definito dal documento finale del Sinodo straordinario del 1985], ma non volendo chiudere gli occhi davanti ai limiti della stagione del dopo Concilio, sia per quanto riguarda la non completa ricezione, sia per le ingenuità e gli abusi di chi si è richiamato al Concilio per legittimare un improvvido abbandono di elementi importanti della tradizione cattolica.

Nel 1959, durante una gita scolastica, vidi Papa Giovanni sulla sedia gestatoria, in San Pietro. Aveva annunciato il Concilio qualche mese prima, ma io nulla ne sapevo. Avevo 15 anni e mi incantavo a vederlo passare tra i flabelli.

Alla vigilia dell’apertura del Concilio, lo vidi pellegrino a Loreto il 4 ottobre del 1962. Io sono di Recanati, non potevo dunque non essere a Loreto quel giorno, essendo di appena sette chilometri la distanza tra le due città. Fu la mia prima partecipazione, dalla parte della folla, a un viaggio papale. Ricordo il pericolo di restare schiacciato dalla ressa e il professore di storia che il giorno dopo ci diceva: “Erano 104 anni che un Papa non usciva da Roma e da Castel Gandolfo”.

Lo rividi meglio – Papa Roncalli – sette giorni dopo per televisione, all’apertura del Concilio, che al mattino entrava in San Pietro in sedia gestatoria e la sera salutava la luna e mandava una carezza ai bambini. Ma ancora più viva nella memoria, direi negli occhi, mi rimane l’immagine sua che batte il piede, calzato con scarpette di raso, quando pronuncia le parole: “Sancta libertas filiorum Dei”, durante la lettura dell’allocuzione di chiusura della prima sessione del Concilio, l’8 dicembre 1962. Allora non colsi l’idea, che era grande, ma registrai quello scatto d’uomo vivo che ne raddoppiava la rivendicazione: “In un contesto così vasto si comprende anche come ci sia voluto qualche giorno per giungere a un’intesa su ciò che, salva caritate, era motivo di comprensibili e trepide divergenze. Anche questo ha la sua spiegazione provvidenziale per il risalto della verità, e ha dimostrato in faccia al mondo la santa libertà dei figli di Dio, quale si trova nella Chiesa”.

Più tardi mi resi conto dell’importanza di quel passaggio, riassuntivo della consapevolezza che il Papa bergamasco ebbe riguardo all’audacia dell’impresa conciliare e al suo significato – in primis – di restituzione al corpo episcopale della sua piena funzione di guida nella Chiesa.

La mia prima intuizione di Papa Giovanni arriva nei giorni della sua morte. Avevo 19 anni. Ero alla fine del liceo, distrattissimo rispetto a quell’evento. Ma fu messaggio per me la pietas popolare e intellettuale, credente e secolare, che quella morte suscitò. Lessi poi le parole di Pasolini ispirate da essa: “Non serve fare santo chi è santo”. Giovanni davvero fu sentito come santo da tutti. Dai miei familiari contadini e dall’ateo professore di filosofia con cui ne parlai – pochi giorni più tardi – durante l’esame di maturità e che mi interrogò a partire dalle parole “Pacem in terris”: l’incipit dell’enciclica che il Papa aveva firmato – quasi come un testamento rivolto all’intera umanità – due mesi prima della morte.

Ora Papa Giovanni è “beato”. Io in astratto sono contrario alla proclamazione della santità dei papi, che sono tenuti per “santi” già in vita e proposti ad eccesso all’attenzione dei battezzati. Ma sono contento che Giovanni sia “beato”. Fu proclamato nel 2000 insieme a Pio IX: dove si vede che la preoccupazione per il principio di “continuità” nell’interpretazione della storia della Chiesa e del Papato non è una novità di Benedetto XVI. Già Paolo VI aveva introdotto insieme le cause di Pio XII e di Giovanni XXIII per quella stessa preoccupazione.

Compresi più tardi che era stato soprattutto l’evento conciliare, con l’interesse che aveva suscitato ben oltre la comunità cattolica, ad attirare con quella forza l’attenzione del mondo sulla figura di quel papa veneratissimo tra tutti. Più tardi compresi che anche la scelta del successore – Paolo VI – fu favorita e quasi dettata dall’evento conciliare, cioè dall’avvertenza che fosse prioritaria l’esigenza di portare a un compimento coerente la convocazione indetta dal Papa bergamasco.

Papa Ratzinger il 3 agosto scorso ricordando il trentesimo della morte di Papa Montini ebbe a qualificare come “sovrumano” il suo “merito” nella conduzione del Vaticano II. Un riconoscimento che non bisogna dimenticare in una valutazione di come Benedetto guarda all’evento conciliare.

Avevo 22 anni quando il Concilio fu chiuso da Paolo VI in quel memorabile 8 dicembre 1965 e l’immagine che ne porto – dalla diretta televisiva in bianco e nero – è quella dei sei testimoni dell’epoca ai quali il pontefice consegnò i “messaggi” del Concilio indirizzati ai governanti, agli uomini di pensiero e di scienza, agli artisti, alle donne, ai lavoratori, ai giovani. Ricordo la curva e amabile figura di Jacques Maritain che si accosta fraternamente a papa Montini per ricevere il messaggio destinato agli uomini “di pensiero e di scienza”.

A cinquant’anni dall’annuncio del Concilio e a quarantatré dalla sua conclusione mi pongo la domanda: che cosa ha portato nella storia d’Italia? E che cosa ha colto l’umanità contemporanea di quell’evento? Provo a rispondere con otto “sguardi” o immagini, dalla più semplice alla più complessa.

1. Prima immagine: la più semplice. Il Concilio ha riformato la liturgia. Ha girato gli altari, ha introdotto nelle celebrazioni le lingue parlate, ha rinnovato i riti, ha promosso le concelebrazioni. Questa è la prima immagine che io colgo, la novità più semplice, quella che non è sfuggita a nessuno. Chi al tempo era già adulto l’ha vissuta come un evento straordinariamente forte. Alcuni hanno anche reagito con disappunto, con nostalgia del vecchio rito. Anche chi non era partecipe alla vita ecclesiale ha percepito che la Chiesa cambiava lingua. Se ne accorge chi vede in televisione la diretta di una messa domenicale, chi segue una celebrazione papale, chi accende il televisore magari durante la sede vacante, dopo la morte del papa, vede il vento che sfoglia il libro dei Vangeli, sente proclamare le Scritture in italiano. La novità liturgica oltre che la più visibile è stata anche quella più contestata, dentro e fuori la Chiesa; e tutt’oggi è segno di contraddizione. Ma almeno in Italia ha avuto buon esito, con qualche sbandata e con qualche eccesso, ma nella sostanza con dignità e con efficacia. Ha cambiato il nostro modo di pregare quotidiano e siamo, io credo, abbastanza ben messi oggi per poter completare la ricezione di questa novità.

Io non sono restato turbato dal motu proprio Summorum  Pontificum Cura di Papa Benedetto e neanche dal ritiro delle scomuniche. Quando vengono ritirate delle scomuniche faccio festa. E ritengo che quel motu proprio allarghi la disciplina senza compromettere in nulla la forma ordinaria del Rito romano.  Sono andato tre volte a messa alla Trinità dei Pellegrini, in Roma, la parrocchia personale di chi segue il Rito straordinario e una volta alla Cappella di Santa Caterina dove officia un prete della Fraternità lefebvriana e ho sperimentato che si può pregare bene insieme.

2. Seconda immagine di cambiamento. Il Concilio ha modificato l’immagine degli uomini di Chiesa a partire dalla figura papale. Questo è facile ad analizzare. Ma anche è cambiata la figura del vescovo e del prete e del religioso. E sono sorte figure nuove: il diacono permanente, il lettore, l’accolito. Non tutto è stato consequenziale, non si è coerentemente riformato tutto il settore dei ministeri. Tanti Sinodi hanno chiesto a Giovanni Paolo e a Benedetto di rivedere le norme riguardanti i ministeri ordinati, ma ancora non è stato fatto. Qualcosa si è fatto a metà: le donne per esempio sono state ammesse al “ministero straordinario dell’Eucarestia” ma sono escluse formalmente dal ministero del lettorato, benchè di fatto leggano. Tornando agli uomini di Chiesa – e già l’espressione “uomini di Chiesa” ci dice che la donna vi ha poco spazio – riconosciamo che la figura del papa, la figura del vescovo, la figura dei sacerdoti sono profondamente cambiate. Mi fermo un attimo su quella del papa. Abbiamo visto che i papi sono scesi dal loro trono, hanno abbandonato i flabelli, la corte, la sedia gestatoria. I cardinali avevano 15 metri di coda! Tutte queste cose sono state sfrondate, liberate. Si è andati all’essenza: il papa oggi si comporta come un vescovo. Ora celebra con il popolo. Il prima papa a celebrare con il popolo è Paolo VI.

Inoltre il papa è uscito dal Vaticano, è andato per il mondo; è andato persino a sciare, si è lasciato fotografare sulla montagna in abiti non pontificali, si è curato negli ospedali. Questi sono aspetti piuttosto esterni, ma è cambiata l’immagine papale anche nell’operare del papa: oggi egli è meno il capo della Chiesa, che la governa a tavolino ed è tornato in parte a essere l’apostolo che va per il mondo. E l’apostolo recupera per intero la sua dimensione umana, cioè il papa è un polacco, è un tedesco. Non si spersonalizza. Pio XII quando riceveva i pellegrinaggi italiani diceva “la vostra bella patria“; lui non si considerava italiano, era il papa. Invece Wojtyla e Ratzinger si considerano potentemente polacco e tedesco. E questa è una modifica profonda.

E mantengono le loro attitudini, le loro passioni. Papa Wojtyla ha pubblicato poesie da papa, Benedetto XVI pubblica libri di teologia. Lui è un teologo e continua a fare il teologo e dice “ognuno mi può contraddire“. Che il Papa teologo sia sceso dalla Cattedra per pubblicare un libro su Gesù senza rivendicare per esso la qualifica magisteriale io lo trovo stupendo: il Papa si fa testimone a tutto tondo, con l’intera sua umanità, oltre il mandato ministeriale. Altro momento analogo: la lettera ai vescovi sul ritiro delle scomuniche ai lefebvriani, anzi le due lettere ai vescovi, perché c’era già stata quella di accompagnamento del motu proprio Summorum Pontificum Cura. Il Papa che si spiega e che polemizza, che si sfoga e si raccomanda: una cosa da non credere! Io questo l’apprezzo.

Oggi il papa si ricomprende come un cristiano chiamato a un particolare ruolo. Non più quell’immagine staccata, angelica, bianca, irraggiungibile che era il papa della tradizione tridentina. Papa Ratzinger è molto diverso da papa Wojtyla, ma come papa Wojtyla esprime le sue opinioni. Si muove da Joseph Ratzinger, non diventa completamente Benedetto XVI. E’ stata la valorizzazione della figura episcopale operata dal Vaticano II ed è stata la scelta di papa Montini di firmare i documenti conciliari con la dicitura “vescovo di Roma” a rendere possibile tale novità. Sono state queste premesse a portare i papi a riscoprire la loro dimensione episcopale: a usare la mitria invece della tiara, ad avere la croce, il pastorale simile al pastorale del vescovo. Non tutto è completo di questo mutamento, ma abbiamo capito in che direzione ci si muove, anche se è appena agli inizi.

3. Terza immagine. Il Concilio ha spostato – nella percezione collettiva – la collocazione culturale, sociale e politica della Chiesa Cattolica. Attenzione: nella percezione collettiva. Non voglio dire che ha spostato la posizione della Chiesa di fatto e sempre e in tutti i settori, ma nella percezione collettiva sì. La Chiesa era percepita globalmente come appartenente al blocco conservatore: magari non era giusto ma veniva percepita così. Ed era percepita in atteggiamento di contrasto con molte acquisizioni delle società democratiche e pluraliste.

Riassumo questo concetto con un’istantanea: Giovanni Paolo II che il 14 novembre 2002 parla a Montecitorio alle Camere riunite. E’ la prima volta che un papa visita il Parlamento italiano, quindi non si può fare un paragone. Giovanni Paolo fa quattrocento metri con il suo bastone e poi tiene quel discorso così forte. La destra del nostro Parlamento lo applaudiva sui temi della vita, della famiglia e della libertà di educazione; e la sinistra lo applaudiva sui temi della giustizia, della pace, dell’accoglienza degli stranieri e del segno di clemenza per i carcerati. Quella immagine del papa che parla a Montecitorio ci dice lo spostamento nella percezione collettiva prodotta dal Concilio: prima la Chiesa apparteneva al blocco conservatore e ora si è portata al centro. Per una serie di questioni sembra alleata della sinistra e per un’altra serie di questioni sembra alleata della destra.

Altro elemento in cui si può evidenziare lo spostamento della Chiesa nella percezione dell’opinione pubblica sono i riconoscimenti sugli errori del passato che sono in parte nei documenti conciliari e che sono stati poi sviluppati da Giovanni Paolo nella Giornata del Perdono giubilare. La Chiesa del Vaticano II non è più quella che resisteva alla scienza, quella che ricorreva al braccio secolare per avere sostegno nelle sue posizioni sulla scena pubblica, quella che benediva gli eserciti schierati in battaglia, che discriminava i non-appartenenti alla propria compagine. E’ una Chiesa che chiede perdono per quei comportamenti. Anche questo è un riposizionamento.

4. Quarta immagine. Il Concilio ha proclamato che i cristiani devono essere amici degli ebrei e ha avviato un cammino di riavvicinamento. Questo in Italia lo percepiamo poco perché abbiamo una comunità ebraica antichissima ma minima, la più antica d’Europa, ma una delle più piccole. Quando Giovanni Paolo II è andato nella sinagoga di Roma nel 1986, quando è andato al Muro del Pianto a Gerusalemme nell’anno 2000, quando ha chiesto perdono per il maltrattamento degli ebrei, tutta la nazione italiana si è accorta del nuovo atteggiamento. Abbiamo visto il rabbino Toaff abbracciare il papa: senza il Concilio non avrebbe potuto avvenire, storicamente questa immagine non esisteva. Il papa al Muro del Pianto ha pregato non assieme, ma nello stesso luogo e subito prima e subito dopo del rabbino e hanno pregato con un salmo ciascuno, cioè con le stesse preghiere. Anche questo prima non era pensabile.

5. Quinta immagine del cambiamento. Il Concilio ha voluto il riavvicinamento con le altre Chiese cristiane e con le religioni non cristiane. Anche questo in Italia lo vediamo poco. Perchè in Italia di Chiese cristiane non cattoliche fino ad ora c’erano solo i valdesi, conosciuti esclusivamente nelle valli valdesi, a Roma e a Milano. Oggi, con l’immigrazione dai paesi dell’Est europeo, ci sono gli ortodossi e cominciamo a sentire il problema anche nella quotidianità. Prima era un problema degli intellettuali, che avevano percepito come sul pianeta, al di fuori dell’Italia, questa fosse una grande questione. Quando vediamo i raduni ecumenici (magari in occasione dei viaggi papali nel mondo) oppure quando si riuniscono le Assemblee del Consiglio Ecumenico delle Chiese e vediamo che sono rappresentate tutte le Chiese e ci sono gli orientali con quei loro copricapi caratteristici, ci sono i luterani, ci sono i calvinisti che ormai vestono in abiti non ecclesiastici e hanno anche le donne ministro. Quando Giovanni Paolo II convocava le giornate di Assisi e c’erano anche i non cristiani, tutti i cristiani pregavano finalmente insieme il Padre nostro. Non si era mai visto e anche questo è un frutto del Concilio. Pensate quale sarebbe oggi la nostra difficoltà nell’indebolimento che hanno tutte le Chiese nel nostro mondo, europeo e occidentale, che si va allontanando dalla tradizione cristiana, se ancora stessimo a combatterci tra cattolici, ortodossi, anglicani, luterani, calvinisti come abbiamo fatto per secoli.

Ancora: pensate che cosa sarebbe il problema di incontrare l’Islam, un interlocutore così difficile, se il Concilio non ci avesse preparati a interloquire, a parlare con tutti; se ci fossimo trovati con l’Islam in casa avendo ancora la mentalità dei secoli in cui eravamo lontani, quando ognuno stava a casa propria e loro pensavano il peggio di noi e noi il peggio di loro. Dico di più e stringo questo ragionamento a una data: la provvidenzialità che Giovanni Paolo sia entrato in una moschea il 5 giugno del 2001, esattamente tre mesi prima dell’11 settembre. Dopo l’11 settembre probabilmente non sarebbe stato più possibile. Per fortuna questo papa profeta ci è entrato prima e così è potuto andare in una moschea anche Benedetto. Gesti provvidenziali che non potevano avvenire senza il Vaticano II.

Benedetto su questo – sul rapporto con l’islam come anche con l’ebraismo – è pienamente fedele al Concilio e al predecessore. Il 12 marzo scorso ha ripetuto il mea culpa per il maltrattamento storico degli ebrei formulato da Giovanni Paolo un altro 12 marzo, quello del 2000: da un 12 marzo a un altro! E tra poco Pietro tornerà al Muro del pianto dov’era già andato quando si chiamava Giovanni Paolo. E tornerà una e due volte nelle moschee.

6. Sesta immagine di mutamento. Il Concilio ha voluto il dialogo e la collaborazione con gli uomini di buona volontà a promozione della pace e della giustizia. Nell’ultima marcia Perugia-Assisi c’erano, secondo la mia stima, forse 40.000 persone. Benedetto XVI ha inviato un messaggio di saluto. Questa marcia è fatta al 90% da cattolici: sono gli scout dell’AGESCI, sono le ACLI, è la Comunità di Sant’Egidio, sono le organizzazioni del volontariato, sono i giovani di Azione Cattolica. Ma poi si intreccia, in questa marcia, tutto il mondo laico, i Verdi, i radicali.

Io sono andato diverse volte a questa marcia, non per marciare, ma perché lì avvengono anche dei dibattiti, delle presentazioni, come un dibattito, organizzato dalle ACLI la sera prima della marcia, a quarant’anni dalla Popolorum Progressio. Ebbene, un contesto di questo genere non era pensabile prima del Concilio.

7. Settima immagine di novità. Il Concilio ha riconosciuto la libertà religiosa. Riassumo con due affermazioni dottrinali il cambiamento che c’è stato su questo tema. Nel Sillabo c’è scritto: “Sia anatema chi afferma che si possa cambiare religione per seguire il convincimento personale“. E Benedetto XVI, ricevendo l’inter-parlamentare democratico-cristiana, afferma: “È un diritto fondamentale dell’uomo quello di cambiare religione“. Con il Concilio, la Chiesa Cattolica ha avviato quello che Joseph Ratzinger in un libro-intervista ha definito “il grande balzo nel presente“. Non lo ha completato: lo ha avviato. Quando noi ci stupiamo leggendo come si comportano gli islamici nei confronti di coloro che abbandonano la religione islamica e si convertono al cristianesimo, dobbiamo riflettere sul fatto che noi facevamo lo stesso: anche noi condannavamo l’apostata, colui che abbandona la propria religione. Il cambiamento di atteggiamento è venuto appunto dal Concilio con il documento sulla libertà religiosa.

8. Ultima immagine di cambiamento e la meno riuscita: il Concilio ha promosso partecipazione e concertazione all’interno della Chiesa. È come se la convocazione del Concilio fatta da Giovanni XXIII non fosse mai cessata, come se la Chiesa fosse rimasta in stato di concilio permanente. I vescovi sono tornati a casa, però ogni tre anni si riuniscono i sinodi, le conferenze episcopali si radunano una o due volte all’anno, nelle diocesi si fanno i sinodi locali. Tutto questo lavorare e ricercare lo vedo come un elemento di salute nella crisi che subisce il nome cristiano oggi nell’Occidente sviluppato: noi stiamo svegli sui problemi della fede, non ci acquietiamo. Ma questo è anche il punto, tra gli otto, dove il risultato è stato più parziale. Perché questa partecipazione e concertazione avrebbe dovuto dare corpo e consistenza alla pari dignità di tutti i battezzati affermata dal Concilio e fondata sul Vangelo. “Uno solo è il Signore e voi siete tutti fratelli” dice Gesù. Il testo di riferimento è Lumen Gentium 32, “Uno è quindi il popolo eletto di Dio, comune è la dignità dei membri per la loro rigenerazione in Cristo, comune la grazia dei figli, comune la vocazione alla perfezione. Una sola salvezza, una sola speranza e indivisa carità… Vige fra tutti una vera uguaglianza riguardo alla dignità e all’azione comune di tutti i fedeli nell’edificare il Corpo di Cristo“. Io credo non ci sia bisogno di un lungo discorso per convenire che non è stata realizzata la sognata promozione dei laici e in particolare delle donne. E quindi la situazione resta sbilanciata, fortemente sbilanciata. Chi non si ritrova nelle posizioni ufficiali non viene ascoltato, non è presente al Convegno di Verona, raramente può parlare al vescovo, mai viene interpellato a livello nazionale. C’è ancora una grande passione partecipativa che potrebbe essere facilmente risvegliata se cessasse l’attuale strategia di dare spazio solo alle posizioni centriste, che svolgono quasi esclusivamente il pur meritorio lavoro di divulgazione delle indicazioni che vengono dal vertice.

La nostra è ancora una Chiesa a dominante clericale. Una dominante meno imperativa, più ospitale, magari formalmente dialogica, ma pur sempre di dominio si tratta. La pari dignità comporta che ai ruoli di responsabilità e di rappresentanza possano accedere anche i laici e le donne, tutte le volte che non vi è implicato il sacerdozio, mentre essi sono ancora sistematicamente riservati agli ecclesiastici. Ancora  oggi il celibe viene prima dello sposato, il consacrato prima del secolare, l’uomo prima della donna e l’ecclesiastico domina su tutti.

È vero però che dei passi di avvio verso la pari dignità sono stati fatti. Ne cito uno: il riconoscimento della santità degli sposati. A seguito del Concilio Giovanni Paolo ha potuto proclamare una decina di beati sposati e poi infine una santa sposata. E alla proclamazione di Gianna Beretta Molla, a piazza San Pietro, era presente il marito ancora vivente. Cito questo fatto per dire che il cammino si sta svolgendo.

Le obiezioni riguardanti l’applicazione del Concilio le accenno appena, come detto in premessa. E le presento sinteticamente con un passaggio chiave del volume del cardinale Carlo Maria Martini Conversazioni notturne a Gerusalemme (Mondadori 2008, p. 103): “Vi è un’indubbia tendenza a prendere le distanze dal Concilio. Il coraggio e le forze non sono più grandi come a quell’epoca e subito dopo. Ed è indubbio che nel primo periodo di apertura alcuni valori sono stati buttati a mare. La Chiesa si è dunque indebolita […] penso a quanti in questo periodo hanno abbandonato il sacerdozio, a come la Chiesa sia frequentata da un numero sempre minore di fedeli e a come nella società e anche nella Chiesa sia emersa una sconsiderata libertà. E’ comprensibile che soprattutto i vescovi e gli insegnanti conservatori vogliano limitare le manifestazioni di disgregazione e siano tentati di tornare ai vecchi tempi. Ciò nonostante dobbiamo guardare avanti“. Siamo qui per questo: per guardare avanti!

Non condivido l’opinione espressa da molti – dentro e fuori la comunità cattolica – secondo la quale il pontificato di Benedetto XVI starebbe segnando una svolta reazionaria nel cammino della Chiesa post-conciliare. Ritengo che nella sostanza sia lo stesso cammino di applicazione frenata e difensiva del Vaticano II che era stato impostato nella seconda metà del pontificato montiniano, che fu poi sostanzialmente confermato e prolungato dal pontificato wojtyliano e i cui portatori hanno scelto nel conclave del 2005 di affidarne il terzo tempo a chi era stato chiamato a responsabilità gerarchiche da papa Montini e che papa Wojtyla aveva voluto come suo principale collaboratore per 23 anni. Che la linea sia la stessa si può vedere dalla conduzione dei Sinodi, dalle nomine episcopali, dai contenuti delle encicliche, dalle iniziative ecumeniche e interreligiose. Nei casi in cui si nota un cambiamento si tratta di novità tra loro bilanciate: abbiamo una stretta in campo liturgico che si accompagna a un alleggerimento dei richiami in materia di morale sessuale; c’è una riduzione in quantità ed enfasi della predicazione della pace che va insieme a una maggiore concentrazione nell’annuncio della fede e nella presentazione della figura di Gesù. Ma sono dettagli: la linea è la stessa. Direi che il secondo tempo di papa Montini ha fatto scuola a tre papi.

Per la Chiesa nei prossimi anni mi auguro la crescita di una reale tolleranza interna che permetta qualche riforma e una ripresa di iniziativa nel campo ecumenico e in quello della pace. A metà del pontificato montiniano – nel biennio 1967-1968 – si sceglie di frenare sulle riforme e sulle iniziative ad extra che sembravano mettere a rischio l’unità della comunione cattolica e ci si dedica alla preservazione della coesione sostanziale, dottrinale e giuridica. Hanno la stessa logica le scelte missionarie di papa Wojtyla e quelle catechetiche di papa Ratzinger: distogliere l’attenzione dalle questioni disputate proponendo obiettivi più alti. Ma la crescita della tolleranza e della reciproca accettazione tra le diverse componenti è lenta e i papi vengono a trovarsi con le mani legate. Se ci fossero meno accanimento e meno contrapposizioni i nostri papi, tutti ottimamente intenzionati, potrebbero fare di più.

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