Caino è segnato dal sangue ma non perde la sua dignità

Bari – convegno del Premio Castelli – 10 ottobre 2014

Partiamo dal mito – o parabola – di Caino e Abele, rievocando le parole della Scrittura. Poi proveremo ad applicarne l’insegnamento all’umanità di oggi, avendo di mira la nostra interrogazione sulla colpa, sul reato e sulla pena.

Genesi 4, 8-15: Mentre erano in campagna, Caino alzò la mano contro il fratello Abele e lo uccise. Allora il Signore disse a Caino: “Dov’è Abele, tuo fratello?”. Egli rispose: “Non lo so. Sono forse io il custode di mio fratello?”. Riprese: “Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo! Ora sii maledetto, lontano dal suolo che ha aperto la bocca per ricevere il sangue di tuo fratello dalla tua mano. Quando lavorerai il suolo, esso non ti darà più i suoi prodotti: ramingo e fuggiasco sarai sulla terra”. Disse Caino al Signore: “Troppo grande è la mia colpa per ottenere perdono. Ecco, tu mi scacci oggi da questo suolo e dovrò nascondermi lontano da te; io sarò ramingo e fuggiasco sulla terra e chiunque mi incontrerà mi ucciderà”. Ma il Signore gli disse: “Ebbene, chiunque ucciderà Caino subirà la vendetta sette volte!”. Il Signore impose a Caino un segno, perché nessuno, incontrandolo, lo colpisse. 

Caino alza la mano contro il fratello: ogni uomo che uccide un uomo alza la mano contro il fratello – contro il fratello in umanità. Questo oggi ci è più chiaro di ieri: il “non ucciderai” vale per ogni uomo, non solo per quelli che ci sono prossimi.

Ora sii maledetto: non malediciamo più, sappiamo di non dover maledire nessuno, ma sappiamo anche che il sangue versato grida al cielo, oggi come sempre. E come sempre è necessaria la sanzione del delitto, che è anche un primo passo per il recupero del colpevole.

Ramingo e fuggiasco sarai sulla terra: è il bando, l’esilio, l’ostracismo: la forma più comune della pena nell’antichità; mentre il carcere, sconosciuto all’umanità della Genesi, è la forma oggi più diffusa in cui tanti nostri simili che hanno alzato la mano contro i fratelli restano – non vanno – “raminghi e fuggiaschi sulla terra”. L’impegno a trovare alternative al carcere non deve far dimenticare la necessità della pena. “Colpa reato e pena”: occorre non sottovalutare la serietà del titolo che ci siamo dati.

Chiunque mi incontrerà mi ucciderà: il colpevole avverte d’essere esposto alla vendetta altrui. Il sangue che ha versato grida vendetta. Nel profondo questa serietà del caso – anche questo, soprattutto questo, è un caso serio – vale oggi come sempre. Sappiamo bene, del resto, che il carcere spesso protegge dal linciaggio. Anche oggi, anche da noi.

Il Signore impose a Caino un segno perché nessuno lo colpisse: questo segno è restato e ha avuto nei secoli un riconoscimento del suo carattere di salvavita del colpevole sempre più vasto ma non ancora sufficiente. In quelle parole del Signore è prefigurato il superamento della legge del taglione e della pena di morte, che invece non sono ancora affatto superati nel mondo globale.

Trovo significativo che il movimento per l’abolizione della pena di morte e per la moratoria mondiale delle sentenze capitali, promosso da persone non credenti, prenda titolo dalle parole della Genesi: “Nessuno tocchi Caino”. Si tratta di una “lega internazionale” che nasce a Bruxelles nel 1993 per iniziativa del Partito Radicale Italiano. Quella denominazione sta a dire che le parole della Genesi hanno innervato nei millenni le energie profuse da ogni generazione nel combattimento per l’umanizzazione delle pene e segna tutt’oggi l’attuale dibattito su colpa reato e pena. “Nessuno tocchi Caino vuol dire giustizia senza vendetta” si legge nell’autopresentazione della lega.

La lezione del primo Testamento ovviamente noi cristiani siamo chiamati a leggerla alla luce del secondo Testamento, cioè alla luce della figura e della parola di Gesù che dice molto di più della non uccisione del colpevole. Dice di rispondere al male con il bene, di amare i nemici, di perdonare fino a settanta volte sette. Per una sapiente esposizione delle implicazioni simboliche, culturali e pratiche dell’insegnamento biblico sulla colpa e la pena possiamo rifarci a tanti testi del cardinale Carlo Maria Martini (1927-2012), che pose molto impegno, fin dalla giovinezza e per tutti gli anni del ministero episcopale a Milano, nel visitare i carcerati e nella riflessione sulla dignità del colpevole: li troviamo raccolti in due volumi Mondadori, uno intitolato Sulla giustizia (che è del 1999) e un altro Non è giustizia. La colpa, il carcere e la Parola di Dio (2003).

Il secondo di questi volumi ha un’introduzione del docente di diritto penale della Cattolica di Milano Luciano Eusebi, che in questo convegno parla dopo di me e che ha accompagnato negli anni la ricerca del cardinale Martini su questa frontiera che gli uomini di Chiesa hanno poco frequentato in passato. Eusebi ha riassunto a sua volta la propria proposta interpretativa del cammino ebraico cristiano sull’arduo terreno della pena e della colpa nel volume La Chiesa e il problema della pena. Sulla risposta al negativo come sfida giuridica e teologica, pubblicato all’inizio di quest’anno con l’editore La Scuola.

Grande impegno su questi temi ha posto il Papa Giovanni Paolo II, di cui resta memorabile il Messaggio per il Giubileo nelle carceri del 9 luglio 2000. Un impegno ancora più frequente dedica oggi a carceri e carcerati Papa Francesco, del quale pure intendo segnalare un testo maestro: Lettera ai partecipanti al XIX Congresso internazionale di Diritto penale, del 7 giugno 2014. Tratta della relazione della comunità umana con il colpevole alla luce delle icone bibliche (così le avrebbe chiamate Martini) del Buon Samaritano, del Buon Ladrone e del Buon Pastore. Scrive il Papa che il Signore “ha insegnato a poco a poco” al suo popolo che “esiste una asimmetria necessaria tra delitto e castigo, per cui a un occhio o a un dente rotto non si rimedia rompendone un altro. Si tratta di rendere giustizia alla vittima, non di giustiziare l’aggressore”; e si dovrebbe fare “tutto il possibile per correggere, migliorare ed educare l’uomo a maturare in tutte le sue forme, perché non si scoraggi, faccia fronte al danno causato e riesca a rilanciare la sua vita senza essere schiacciato dal peso delle sue miserie”.

Tra tutti gli insegnamenti veicolati dalla storia di Caino e Abele, ora mi limito a svolgerne uno, che pongo a elemento centrale della considerazione ebraico-cristiana della colpa e della pena: la colpa non cancella la dignità del colpevole, non lo esclude dalla comunità umana, non lo priva dei suoi diritti fondamentali e dunque inalienabili, non ne muta l’identità da immagine di Dio a operatore del male, da uomo in delinquente e cioè non lo fissa in una nuova identità.

Da questo insegnamento basilare della tradizione ebraico-cristiana potremmo trarre spunti di animazione e di arricchimento per molti capitoli della nostra attuale ricerca di una via più umana nel rimedio alle devianze sociali e più ampiamente al negativo che insidia la convivenza umana sulla terra.

Per l’impegno a ottenere una moratoria universale nell’applicazione della pena di morte, in vista di una sua completa abolizione su tutto il pianeta. Impegno che ha la sua fondazione – appunto – nella Genesi e che non dev’essere assolutamente da considerare appannaggio dei movimenti radicali: dopo una lunga e complessa evoluzione storica, oggi anche le Chiese cristiane sono su questa posizione. Vi sono arrivati prima gli altri, ma noi cristiani – seguaci di un messia messo a morte con un processo politico – dovremmo starvi, infine, più convintamente di tutti.

Per l’aspirazione a un effettivo superamento – ovunque nel mondo – della pena dell’ergastolo, che ci appare oggi lesiva del rispetto della persona umana in misura equivalente, in linea di principio, con la pena di morte, in quanto com’essa considera irrecuperabile il reo e ritiene inefficace ogni pedagogia carceraria che si proponga di far valere la finalità educativa della pena – dal momento che questa rieducazione nel caso dell’ergastolo viene a essere considerata per definizione senza termine, ovvero senza meta: “Fine pena mai”.

Per ogni battaglia mirante all’umanizzazione del sistema carcerario. Il rispetto della dignità umana esige un trattamento del detenuto dignitoso e umano. Quanto siamo lontani da questo, in Italia, ce lo ricorda periodicamente l’Unione Europea con le sue censure.

Per la ricerca di pene alternative al carcere. Che dovrebbe condurci a ritenere il carcere una misura estrema e di emergenza, da limitare il più possibile e da non concepire mai come sistema sanzionatorio autosufficiente, che realizza in pienezza la sua funzione isolando gli asociali dalla società, mentre la via regale e unica al vero recupero dell’asociale è quella della socializzazione. Qui il fronte dell’impegno è amplissimo, perché gli esperti della materia ci segnalano come la popolazione carceraria ai nostri giorni vada invece aumentando, ovunque nel mondo e da noi.

Per l’impegno – che caratterizza gli ambienti associativi che danno vita al Premio Castelli e che hanno promosso questo convegno – a realizzare un più diffuso e capillare rapporto tra carcere e società e in particolare tra il mondo del volontariato sociale e l’universo carcerario. Unica via, in definitiva, per dare piena attuazione al fine rieducativo della pena, perché essa consenta un reale cammino di risocializzazione e sia davvero “una cura / che salvi insieme assassino e città” (David Maria Turoldo).

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