“Vado in chiesa ma non faccio la comunione”

Tipologia dei messalizzanti astemi – 1

Assisto con deferenza alla messa ma non partecipo. Per farlo bisogna saper pregare e io non sono capace“: queste parole dette da Giuliano Ferrara il 24 febbraio a un cronista del Corsera mi hanno provocato a interrogarmi sui tanti che assistono e non partecipano: non fanno la comunione, non aprono bocca e sembrano non pregare; ma a volte fanno l’offerta e scambiano la pace se qualcuno gli porge la mano.
Ne è venuta una piccola inchiesta tra gli amici che mi ha aiutato ad ampliare la tipologia dei messalizzanti astemi: persone che non si ritengono credenti o non si considerano degne, che non si confessano – per le ragioni più varie – e dunque non si comunicano, che hanno dei conti in sospeso con la Chiesa o sono disorientate da quello che dicono i preti, che sono lì per un incarico pubblico o per accompagnare qualcuno. Studiandole mi sono innamorato di loro e mi sono detto che forse ci precederanno nel Regno.

Canto e prego
ma non prendo l’ostia
Ho cercato i loro volti partendo dall’assemblea domenicale che frequento. Ecco il marito di una catechista che c’è sempre quando c’è lei. Lei davanti con i ragazzi a guidare canti e letture, lui a metà della navata e sempre in piedi davanti a una colonna con il “Messaggero” in tasca. Non si muove da lì finché non è ora di uscire.
Simile e diverso è un dirigente industriale in pensione – molto noto – che non parla con nessuno, arriva nel momento preciso in cui il coro intona il canto di ingresso ed esce appena ricevuta la benedizione. Un giorno gli ho chiesto come mai venisse alla mia chiesa abitando lontano e mi ha risposto: “Perchè qui mi sono sposato”. Da quando la moglie è morta, qualche anno addietro, viene a messa dove lei un giorno l’aveva condotto. Fa l’offerta, si siede sempre allo stesso banco, segue sul foglietto togliendosi gli occhiali ma non pronuncia parole e non fa la comunione.
Quest’uomo che viene nella chiesa che fu della moglie e l’altro che viene nella chiesa dove la moglie fa la catechista mi ricordano le parole di Paolo: “Il marito non credente viene reso salvo dalla moglie credente” (1Corinti 7, 14). Li ho ritratti in poche parole nel mio blog e ho chiesto agli amici di segnalarmi figure simili. Perché – scrivevo – mi appassiona capire i cristiani marginali, muti, non comunicanti. Non è poco quello che trovo in loro.
Così mi ha risposto un visitatore del blog: Sono anch’io un non credente che va a messa ogni domenica. Canto e prego, ma non faccio la comunione perché non sum dignus ut intres sub tectum meum, con l’anima bloccata dai tanti dubbi che sono – ancora – più forti della fede (ma non della speranza e dell’amore). Il post mi ha commosso: perché mi sento bloccato a terra, nel cammino fra Gerusalemme e Gerico, e dietro a quelle parole ho sentito uno sguardo da buon samaritano.
Un altro visitatore ha descritto così la partecipazione asciutta degli uomini del suo paese alla messa mattutina del 2 novembre quand’egli faceva il chierichetto: Solo quel giorno il duomo era sempre pieno alla prima messa del mattino, di uomini soprattutto, che non prendevano posto nei banchi ma restavano in piedi, in fondo o appoggiati alle colonne. Fermi per tutto il tempo, non dicevano niente, non partecipavano alle preghiere e ai canti, s’inginocchiavano solo all’elevazione. Dopo la benedizione, un segno di croce rapido e via quasi tutti al lavoro dei campi.
Lo stesso visitatore segnalava una pagina di Luigi Meneghello contenuta nel romanzo autobiografico Libera nos a Malo (BUR 1963): “Il matrimonio cristiano è una specie di missione in partibus: il maschio è naturalmente pagano, e tocca alla sposa cristiana non tanto convertirlo quanto salvargli l’anima (…) prendere i maschi di petto sarebbe assurdo, come voler spiegare l’algebra ai cannibali; ma fin che c’è donne c’è speranza”.

Confessarsi
almeno una volta all’anno
Nelle campagne era così, toccava alla moglie salvare il marito, non c’è che dire. Ma fuori come siamo dalla civiltà contadina ci è nota anche l’altra faccia dell’avventura cristiana che l’apostolo Paolo aveva ben messo nel conto: “La moglie non credente viene resa salva dal marito credente” (ivi).
Un collega mi riferisce di una sua familiare che va a messa ma non fa la comunione: ha difficoltà a confessarsi e non se la sente di prendere l’ostia senza avere prima il perdono dal sacerdote. Se le segnalano un prete amico c’è l’imbarazzo dell’eccessiva confidenza, se le propongono un estraneo teme di non essere capita.
Il padre Alfio Filippi dice di capire chi in chiesa se ne sta silenzioso e in disparte “perché sia la religione sia l’interiorità religiosa si esprimono nel bisogno di stare da soli con se stessi, con il proprio vissuto e con Dio”. Filippi ama i pellegrinaggi e domanda: “Che cos’è il lungo ‘camino’ a piedi verso Santiago de Compostela se non il segno di una religiosità forte, interiore, bisognosa di dirsi silenziosamente, chiamando in causa dentro di sé Dio, gli altri e il sé profondo?”
Enrico Peyretti mi ricorda una confidenza fatta da Giuseppe Saragat (quando non era ancora presidente della Repubblica) al vescovo dell’Azione cattolica Franco Costa: andava a messa mettendosi dietro una colonna e pensando alla moglie morta. Sempre Peyretti scriveva su Rocca, nel fascicolo del 1° febbraio, questa variante alla parabola del pubblicano e del fariseo: Dall’alto del tempio, Dio suggerì al fariseo soddisfatto: «Per favore, figliolo caro, mi fai pietà, e ti voglio aiutare: vai un momento a peccare, senza far male a nessuno: fai qualcosa che ti faccia sembrare un ladro, un ingiusto, un adultero, un pubblicano. Per una settimana, salta i tuoi digiuni, per una volta non pagare le decime. Poi torna qui, fermati un momento sulla soglia, rivolgi gli occhi a te più che al cielo, e vedrai che ti nascerà dal petto una preghiera più giusta e più lieta di questo tuo superbo ringraziamento che non mi fa arrabbiare, ma mi fa ridere».

Chi votava comunista
e chi prende la pillola
Dall’Eremo di Caresto (Pesaro), che ricordo come una “locanda del Samaritano” per i feriti della vita coniugale, mi segnalano una quantità di casi: “Ci sono tanti che vanno a messa perché è un dovere ma non fanno la comunione perché i preti hanno detto (soprattutto in passato) che non era  necessario, anzi si rischiava di fare peccato se non la facevi proprio bene. Anche sul rispondere ad alta voce: ma non dicevano che il popolo andava ad assistere alla Messa?
“Un’altra categoria sono quelli che ‘cascano’ sotto il tiro delle leggi della Chiesa: chi votava comunista, chi prende la pillola, chi è risposato (ma poi dentro di sè sono ‘convintissimi’ che non hanno fatto peccato), chi è separato e magari non sa che la potrebbe fare, chi ‘gli scappa’ qualche bestemmia e tutt’oggi la bestemmia è al primo posto tra i peccati confessati”.
Quanto ai separati anche a me è capitato più volte di sentirmi interrogare da persone abbandonate dal partner che davano per scontata la propria esclusione: “Ma ti pare giusto che una come me non possa fare la comunione?” E si trattava di persone per altri aspetti della vita assai bene informate.

I ragazzi conviventi
si mettono all’ultimo banco
Ancora da Caresto mi segnalano il caso serio dei giovani, soprattutto fidanzati: “Ovviamente loro sono convintissimi che fare l’amore, alzare il gomito, fumare spinelli, litigare con i genitori non c’entra con Dio ma i genitori fanno le prediche e i preti la fanno tanto lunga, meglio stare alla larga”.
Un visitatore del blog mi racconta che conosce due ragazzi che convivono e vanno in chiesa mettendosi come il pubblicano all’ultimo banco, mentre tanti li guardano con sufficienza.
Caresto infine segnala “quella fetta di popolazione che ha i suoi problemi, le sue pene, le sue tristezze; ha il cuore gonfio e non gli va di cantare o rispondere o fare gesti di apertura, risalire la navata per fare la comunione”. Non perché pensino che quelle cose non abbiano valore, magari in altri momenti lo hanno fatto volentieri, ma quel giorno no: “Sono arrabbiati col Signore, o col mondo e pregano come gli riesce, senza dare nell’occhio. Con quella pena potrebbero anche sbottare in un gran pianto e proprio non gli va di farsi vedere da tutti”.
A me piace pregare ad alta voce. Lo vedo un poco come prendere per mano la mia donna quando sono per via e guardo con tenerezza a chi ama o prega di nascosto.

Beati quanti gridano
nel silenzio del cuore
Paolo Nepi, che insegna filosofia morale alla terza Università di Roma pensa che “il fatto di andare in chiesa senza partecipare alla preghiera possa nascondere anche un grande equivoco, forse una sottile e inconsapevole presunzione: che pregare significhi aver da dire qualcosa di interessante, come se il colloquio con il Signore fosse un dialogo con un personaggio importante e non parole da dire con la semplicità del bambino, che non confida minimamente sulla bellezza del suo linguaggio, ma solo sulla sincerità della sua richiesta”.
La scrittrice Espedita Fisher (Claustrali, Castelvecchi 2007) mi manda un’esclamazione che faccio mia a conclusione di questa prima puntata dell’inchiesta sui praticanti inappetenti: Beati i cuori e le menti che accolgono l’Eucarestia e il segno della pace, ma beati pure coloro che si sottraggono a un gesto meccanico evitando di offendere il Creatore con la loro noncuranza. E beati quanti gridano nel silenzio del cuore: “resto muto perché non sono degno di parlare, perché non comprendo”.

Luigi Accattoli
Da Il Regno 6/2008

Lascia un commento