La riforma della Chiesa in uscita missionaria

Prima dell’incontro verranno letti – da un lettore e da una lettrice – questi cinque brevi passi dell’esortazione apostolica “La Gioia del Vangelo” [dai paragrafi 1, 17, 15, 27, 32]:

In questa Esortazione desidero indirizzarmi ai fedeli cristiani, per invitarli a una nuova tappa evangelizzatrice marcata dalla gioia del Vangelo e indicare vie per il cammino della Chiesa nei prossimi anni.

Ho deciso, tra gli altri temi, di soffermarmi sulla riforma della Chiesa in uscita missionaria, sulla Chiesa intesa come la totalità del Popolo di Dio che evangelizza, sulle motivazioni spirituali per l’impegno missionario.

L’attività missionaria rappresenta, ancor oggi, la massima sfida per la Chiesa e la causa missionaria deve essere la prima. Che cosa succederebbe se prendessimo realmente sul serio queste parole? Semplicemente riconosceremmo che l’azione missionaria è il paradigma di ogni opera della Chiesa.

Sogno una scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa, perché le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione. La riforma delle strutture, che esige la conversione pastorale, si può intendere solo in questo senso: fare in modo che esse diventino tutte più missionarie, che la pastorale ordinaria in tutte le sue istanze sia più espansiva e aperta, che ponga gli agenti pastorali in costante atteggiamento di “uscita” e favorisca così la risposta positiva di tutti coloro ai quali Gesù offre la sua amicizia.

Dal momento che sono chiamato a vivere quanto chiedo agli altri, devo anche pensare a una conversione del papato. A me spetta, come Vescovo di Roma, rimanere aperto ai suggerimenti orientati ad un esercizio del mio ministero che lo renda più fedele al significato che Gesù Cristo intese dargli e alle necessità attuali dell’evangelizzazione.

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La mia meditazione seguirà questo schema:

Questo è un tempo di grazia perché noi cristiani – qui in Europa – avevamo un grande bisogno di una scossa e in pochi mesi ne abbiamo avute tre:

  • La sorprendente e risvegliante rinuncia di Papa Benedetto
  • L’elezione di Papa Francesco con le sue inattese novità
  • Il monito del nuovo Papa a porci come “Chiesa in uscita”

Le prime due scosse ci sono state “date”, erano fatti oggettivi, non ci era chiesto altro che di comprenderle. Non so quanto e quanti le abbiamo comprese, ma tutti in qualche modo abbiamo accusato il colpo. Chiamo “risvegliante” la rinuncia di Benedetto, sicuramente traumatica e dolorosa per tanti tra noi, perché ci ha destati da un sonno pericoloso: e il risveglio è comunque un segno di salute, o una provocazione a essa.

La terza scossa invece – a mio parere la più importante – non ha la natura dei fatti oggettivi che ci interpellano dall’esterno, ma è una vocazione che chiede di essere accolta, esiste solo se l’obbediamo; e qui credo che siamo inadempienti.

Non solo non vedo segni di obbedienza a quella chiamata a uscire, ma credo che dai più essa non sia stata neanche colta – e quelli che l’hanno colta magari l’hanno commentata – “Tu che ne dici?” – ma forse non l’hanno obbedita in nulla.

Fate una prova: chiedete a dieci vostri amici quale sia per loro la novità maggiore, o la parola più importante di Francesco fino a oggi: le vesti semplificate, l’abbandono dell’appartamento, la “Chiesa dei poveri”, il non giudicare “il gay che cerca Dio”, i passi per il governo collegiale della Chiesa, o per la riforma della Curia e dell’Ior… – credo che pochi o forse nessuno vi dirà che la vera novità sia la Chiesa in uscita.

Io sono invece convinto che la vera novità sia qui e oso affermare che se non obbediamo a quella chiamata vanifichiamo l’intera dote – o dono – di cui è portatore Francesco e che tutta è in funzione della chiamata all’uscita.

Se non usciamo con lui, Francesco resterà un Papa simpatico, estroverso, che ha alleggerito – o ha tentato di alleggerire – i conflitti con la modernità e che ha semplificato l’immagine e il linguaggio, ma che non avrà ottenuto quello per cui è stato eletto – in accoglienza al monito rivolto ai confratelli cardinali alla vigilia del Conclave, della Chiesa chiamata a uscire da se stessa per evangelizzare; monito che viene ripetendo da quando è stato eletto e intorno al quale ha costruito il programma del Pontificato, consegnato alla “Evangelii Gaudium”.

Segnalo in particolare questo motto dell’esortazione, che invito a memorizzare: “Riforma della Chiesa in uscita missionaria” (n. 17). Esso bene sintetizza il programma del Pontificato.

Provo a dire il monito epocale di Papa Francesco seguendo il suo metodo delle “parole chiave” e ci provo con quattro parole: uscire, Vangelo, poveri, misericordia.

Uscire. “Uscire uscire” – “uscire dalla nostre comodità e andare alle periferie geografiche ed esistenziali” – “uscire” dal recinto delle istituzioni e del linguaggio ricevuto – uscire dall’ingabbiamento dell’annuncio cristiano in una ideologia religiosa irricevibile per l’umanità contemporanea. Uscire dagli ambienti popolati da cristiani praticanti e andare dai non credenti, o da chi ha rotto con la Chiesa. Uscire perchè le 99 pecore sono fuori e nell’ovile ormai ce n’è una sola. “Uscire per evangelizzare”: cioè per portare Cristo e il suo Vangelo, non una nostra cultura.

Vangelo. “Vangelo Vangelo” è stato il grido che Papa Francesco ha proposto ai giovani sul piazzale della Basilica di Santa Maria degli Angeli ad Assisi il 4 ottobre 2013, e ponendo quel grido a logo del suo messaggio – affermando che se lo sente dire da San Francesco e che “se io non riesco a essere un servitore del Vangelo, la mia vita non vale niente”. Il Vangelo prima delle dottrine. Il Vangelo liberato da impalcature ideologiche che “allontanano” anziché “convertire”.

Poveri. Uscire per portare il Vangelo innanzitutto ai poveri – ai poveri di tutte le povertà: e la più grande è la privazione della fede – “Quanto vorrei una Chiesa povera e per i poveri” – una Chiesa missionaria “povera e samaritana” – una Chiesa “ospedale da campo” che innanzitutto cura le ferite dell’umanità che incontra nella sua uscita.

Misericordia. “Il messaggio di Gesù è quello: la misericordia. Per me, lo dico umilmente, è il messaggio più forte del Signore”: così nell’omelia della sua prima domenica da Papa. “Io credo che questo sia il tempo della misericordia. E la Chiesa è madre: deve trovare una misericordia per tutti”: così ai giornalisti in aereo tornando da Rio de Janeiro. Non una Chiesa giudicante quindi, non la condanna ma la “medicina della misericordia”, come già diceva Papa Giovanni.

Non abbiamo a che fare con un Papa che semplifica e alleggerisce, che rende più facile l’appartenenza alla Chiesa – abbiamo un Papa che pone una forte, fortissima esigenza apostolica, radicale, totale – in vista della quale alleggerisce tutto il resto – perché vuole una comunità senza altri pesi – disposta a farsi carico del solo Vangelo. Libera da ogni impaccio per portarlo a tutti. Libera anche da linguaggi imprigionanti che magari furono fecondi un giorno ma che oggi “più non comunicano”.

Prospettiva storica. L’uscita predicata da Papa Francesco è anche uscita dal modello di Chiesa costituita della tradizione europea – che ha dominato il secondo millennio – per realizzare una nuova figura di Chiesa missionaria. Semplificando si potrebbe dire che dal Dictatus Papae di Gregorio VII prende avvio la Chiesa costituita, come la chiamo per brevità, che ha poi avuto sviluppo coerente con Innocenzo III, con Bonifacio VIII, con il Concilio di Trento, per limitarci a dare un’occhiata alle grandi arcate della sua storia. E’ una Chiesa che mira ad adunare nelle sue mura, nella sua pedagogia, nella sua anagrafe battesimale e pasquale l’intera umanità, fino a stabilire una coincidenza ideale tra se stessa e la società circostante: la societas christiana, la res pubblica christiana.

La Chiesa in uscita invece va oltre l’ovile, le mura, la pedagogia, l’anagrafe e il linguaggio della Chiesa costituita, non più in grado di corrispondere all’umanità circostante, perché essa ha dato grandi vantaggi in altra epoca ma oggi costituisce un impedimento. Un ostacolo all’incontro missionario con l’umanità che è al di là di essa. All’incontro apostolico con ogni umanità, quale fu quello dei primi secoli.

Quando il cardinale Martini, in articulo mortis, ebbe a dire come ultima parola che la Chiesa era indietro di duecent’anni, forse intendeva questo: continua a parlare all’umanità come se essa coincidesse ancora con i credenti, come se la comunità costituita fosse ancora in grado di contenere l’intera umanità. Cosa che non è più – appunto – da almeno due secoli.

Possibilità dell’uscita. L’uscita è una necessità (calo delle vocazioni, abbandono dei giovani), ma una necessità non ancora pienamente avvertita. Questo Pontificato è una provocazione all’avvertenza. Quando ci sarà avvertenza, l’uscita sarà realizzata. O almeno tentata. La sua possibilità è garantita dall’esperienza tutta missionaria delle Chiese non europee, meno costituite, meno organizzate, meno colte; ma più pronte a reagire, più agili, più dinamiche.

Difficoltà dell’uscita. La difficoltà è dominante nelle Chiese d’Europa. E’ una difficoltà da benessere e da ingombro. Da benessere: perché l’uscita comporta l’abbandono delle comodità. Le Chiese costituite sono comode. Da ingombro: gli ingombri sono legati sia alla ricchezza delle strutture, sia alla forma mentis [non si può toccare nulla della figura papale, non si possono rivedere le priorità tra i temi dell’annuncio].

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