Rienzo Colla nel contesto storico e teologico del Concilio Vaticano II

 

Biblioteca Bertoliana – Vicenza – 27 novembre 2014

Ritengo che il maggior interesse per il lavoro editoriale di Rienzo Colla in riferimento al Vaticano II sia da cercare nel primo decennio di attività della Locusta: cioè nel ruolo di anticipazione della tematica conciliare svolto dalla piccola editrice vicentina e in quello di accompagnamento della prima fase dell’assiste ecumenica. Non che non vi sia altro di interessante, in rapporto al Concilio, nella produzione locustiana degli anni seguenti, ma si tratterà per lo più dello sviluppo di tematiche già presenti nei titoli e negli autori del primo decennio. Rienzo Colla resta per tutti i quarant’anni seguenti della sua attività un cultore dell’eredità conciliare, ma vi resta nell’attitudine di colui che ne fu anticipatore e con un’attenzione privilegiata ai temi di quell’anticipazione.

Un’anticipazione che porta il nome di don Primo Mazzolari (1890-1959): è per pubblicare un suo testo – La parola che non passa – che la Locusta nasce nel 1954. L’editrice continuerà, nei cinquant’anni seguenti, la divulgazione dei testi di don Mazzolari, che fu l’ispiratore di quasi tutti temi dell’anticipazione che si diceva: ma già al termine del 1963 (quando a Roma si concludeva la seconda sessione conciliare), la Locusta aveva pubblicato undici testi diversi di don Primo. Nel suo mezzo secolo di attività (dal 1954 al 2004) l’editrice arriverà a pubblicare 57 volumetti che hanno come autore Mazzolari più altri sette nei quali Mazzolari figura come prefatore e ancora nove dei quali è coautore. Infine nel catalogo vi sono sette volumetti a lui – o anche a lui – dedicati: gli autori vanno da Giacomo Lercaro a Carlo Bo. Dunque in totale sono 80 volumetti – un quarto dell’intero catalogo – che hanno il parroco di Bozzolo come autore o come oggetto della trattazione.

La precorritrice rispondenza al Concilio delle tematiche mazzolariane va vista come uno degli elementi che garantiranno il mantenimento della produzione locustiana nel solco conciliare. Ma vi sono altre due lezioni mazzolariane che aiuteranno a mantenere attivo nei decenni quel particolare dna “conciliare” che all’editrice era stato trasmesso dall’amicizia del suo promotore con il parroco di Bozzolo: l’occhio ai “lontani” e la “fedeltà” alla Chiesa. Mazzolari instradò verso il largo mondo fin dall’inizio la prodigiosa – quasi sensitiva – curiosità umana e culturale di Rienzo invitandolo a “leggere sempre con larghezza, specialmente i lontani” (Lettere a un amico, La Locusta, Vicenza 1976, p. 15). Mazzolariana è poi sempre restata la libera fedeltà di cattolico del nostro editore, come ebbe ad attestare in un’intervista: “Credo che se sono rimasto nella Chiesa è stato per don Primo” (Gli anni della Locusta, Biblioteca civica Bertoliana, Vicenza 1986, p. 44).

Morto Mazzolari il 12 aprile 1959 – a Concilio appena annunciato – la Locusta continuerà per la strada imboccata avendo a guida la sua viva eredità e il vivente consiglio di suoi amici da Rienzo incontrati nella collaborazione ad “Adesso” (che va dal 1950 al 1954) e nella fattiva – e anche postuma – ricezione di ogni indicazione che gli venisse o gli fosse venuta dall’indiscusso maestro.

Nessun nome splende come quello di Mazzolari nel firmamento locustiano, ma un’analoga funzione fondativa e di permanenza nei decenni la svolge don Divo Barsotti (1914-2006): nel dopo-concilio la Locusta continuerà – anzi intensificherà – la pubblicazione di testi di don Divo, che nell’insieme dei 50 anni di attività saranno nove (il prete fiorentino sarà l’autore più presente nel catalogo dell’editrice dopo Mazzolari: il primo volumetto è del 1958, l’ultimo del 1998); ma già al termine del 1963 i testi barsottiani erano due. E anche Barsotti è ispiratore dell’attesa di novità che sbocca nel Concilio.

Quello che vale ad exemplum per Mazzolari e Barsotti vale variamente per altri autori della Locusta: già alla fine della prima sessione del Vaticano II c’erano tra loro Nazzareno Fabbretti, David Maria Turoldo, Sirio Politi, Giulio Bevilacqua, Giuseppe Lazzati, Ernesto Balducci, Carlo Carretto, Adriana Zarri, Wladimiro Dorigo, Nando Fabro, Valerio Volpini (li ho elencati in ordine di pubblicazione). Senza contare i non italiani e i non cristiani: Georges Bernanos, Mahatma Gandhi, Emmanuel Mounier, Thomas Merton, Jacques Maritain, Karl Rahner (elencati in ordine di pubblicazione).

Nei decenni seguenti vi saranno molti ampliamenti dell’area conciliare, ma sento di poter azzardare l’affermazione che nulla di sostanziale – che riguardi il Concilio – entra nel catalogo a partire dal 1964 che non vi fosse già nominalmente o prefigurato come tipo: Umberto Vivarelli, Mario Rossi, Fabrizio Fabbrini, Lorenzo Milani, Giovanni Vannucci, Salvatore Baldassarri, Raniero La Valle, Giacomo Lercaro, Italo Mancini, Carlo Bo, Emilio Guano, Sergio Pignedoli, Paolo Giuntella, Giancarlo Zizola, Giuseppe De Luca, Gianfranco Ravasi, Enrico Bartoletti, Arturo Carlo Jemolo (elencati in ordine di pubblicazione) vi entrano dopo quella data ma vi arrivano – si direbbe – per filiazione o per ricongiungimento familiare.

Già nello scorrere i nomi, risulta chiaro un metodo: Rienzo Colla non procede con specifici criteri editoriali, ma sonda e acquisisce autori e territori per esplorazione personale e contagio amicale; e tale metodo non muta con il passaggio dall’attesa alla memoria del Concilio. Mazzolari e Barsotti sono conoscenze personali e secondo questo modulo va letto l’ingresso di nomi legati all’ambiente dell’Azione Cattolica conosciuto da Rienzo nel suo lavoro presso la presidenza nazionale negli anni di Vittorino Veronese (vanno ricondotti a questo filone i nomi di Carlo Carretto, Adriana Zarri, Mario Rossi), come dei nomi del cattolicesimo fiorentino conosciuto attraverso Barsotti e di quello milanese calamitato da Mazzolari. Con lo stesso metodo Colla acquista familiarità negli anni con gli ambienti genovesi (qui la via maestra è quella della rivista “Il Gallo”: sentiremo oggi pomeriggio da Paolo Zanini che la prima lettera di Colla a Fabro è del 1950) e bolognesi.

I bolognesi sono gli ultimi tra i focolari conciliari italiani a entrare nel catalogo locustiano: Baldassarri, La Valle, Lercaro arrivano insieme nel 1969. E anche in questa tempistica del ritardo c’è un significato: Rienzo aggancia il laboratorio bolognese quando questo entra in sofferenza (le prime difficoltà di rapporto dei bolognesi con la Curia montiniana sono segnalate dalle dimissioni di La Valle dalla direzione del quotidiano “L’Avvenire d’Italia”, che sono del 1° agosto 1967). Si direbbe che le antenne lunghe della Locusta si attivino con straordinaria prontezza nell’esplorazione di ambienti e personaggi non appena questi mostrano un qualche segno di penalizzazione per essersi scostati dall’ufficialità e dalla gestione maggioritaria dell’esistente; mentre le antenne brevi continuano nella laboriosa tessitura di trame già ordite.

Segnalo complessivamente tre momenti meglio distinguibili dell’avventura locustiana in riferimento al Concilio: l’audace anticipazione, l’entusiastico accompagnamento della fase nascente, la cura di altre piante di quel vivaio non appena esse entrano in sofferenza.

Anche la quantità di titoli pubblicati negli anni rimanda a questo climax conciliare. Dopo la stagione eroica degli anni ’50 (si può dire che non vi sia nessuno dei tredici volumetti editi tra il 1954 e il 1959 che non sia incappato in censure e moniti: Mazzolari, Fabbretti, Barsotti, Turoldo, Bernanos sono i nomi che sollevano le maggiori riserve), dove i titoli non erano mai stati più di quattro in un anno, con il Concilio e con il Pontificato montiniano la Locusta va incontro a un vento ogni anno più favorevole. Escono sette titoli nel 1960, dieci nel 1961, dodici nel 1962 e nel 1963, quindici nel 1964 e ancora quindici – che resta il record – nel 1967.

Aggiungo un riferimento personale che aiuta a intendere il metodo Colla e l’arte da lui seguita nel cercare interlocutori e nell’attendere che maturi la decisione di ognuno di loro a pubblicare con lui.

Se io parlo qui oggi è perché sono autore di uno dei 326 titoli della Locusta. Il mio volumetto è tardo: contrassegnato dal numero progressivo 299, appare nel 1996. Rienzo mi aveva scritto dopo aver letto un mio libretto pubblicato altrove e sei anni più tardi mi chiese di fargliene un altro “come pare a te” per la Locusta. Lo misi in contatto con miei amici vicentini che non l’avevano mai incontrato: frequentandolo non potevi non chiederti come riuscisse a essere così solitario e insieme così collegato con tante persone pensanti. Venne a sentirmi in occasione di una mia conferenza in Vicenza, presso il Meic (Movimento ecclesiale di impegno culturale) e ci vedemmo a casa di conoscenti suoi e miei.

Il volumetto che misi insieme per lui s’intitola “Cento preghiere italiane di fine millennio”. Conservo sei lettere di Rienzo scritte a mano, con quella grafia minuta e quell’inchiostro pallido che dovevi decifrare, come dovevi aprire con il tagliacarte le pagine dei suoi libretti. La prima è del 1989: aveva letto un mio testo intitolato “La speranza di non morire” (Paoline 1988) e mi ringraziava per “il bene” che ne aveva cavato e per avervi incontrato “la segnalazione di due libretti locustiani”. Gli risposi elencando una ventina di titoli della Locusta divenuti miei libri del comodino. Egli me ne inviò altri e così fece poi a ogni contatto.

Preparai quell’antologia di preghiere e questa fu la sua reazione: “Ho letto il tuo dattiloscritto, mi è piaciuto molto. Credo sia adattissimo a La Locusta, che però è sempre piccola e povera. Forse il tuo lavoro meritava un editore più importante”. Aveva voluto il dattiloscritto per posta e per posta mi inviò le bozze. Gli avevo proposto di accelerare con l’invio di un dischetto, come già si usava, ma mi aveva risposto: “Io non capisco nulla di queste cose”.

Pubblicato il libretto mi informava con garbo: “Va bene e fa bene”. Mi assicurava di aver “raccomandato alle messaggerie cattoliche (Mescat) di Milano, che riforniscono anche le librerie di Roma, di fare un buon lavoro”. In verità nelle librerie di Roma e di tutta la penisola nessuno riusciva a trovare il mio libretto: i metodi di diffusione cari a Rienzo erano restati quelli degli anni ’50, travolti senza che se n’avvedesse – direi – dalle novità intervenute nel commercio librario in particolare agli inizi degli anni ’80 con l’esplosione del mercato pubblicitario.

L’incontro che avemmo – l’unico della nostra relazione – fu all’inizio del 2000. Rienzo non finiva di farmi domande sul Papa, sull’Azione Cattolica e sulle librerie di Roma. Rispondendo a una mia lettera successiva a quell’appuntamento mi dava un’eco entusiasta della nostra conversazione: “E’ stata una gioia trovarci. Ti ringrazio tanto, anche per le notizie”.

Il minimo contatto intrattenuto da Rienzo con me – contatto da editore ad autore ma non solo, in quanto lo condusse fin dal primo momento anche come contatto amicale e di ambiente – non avrebbe alcun interesse in questa sede se non fosse chiaro a me e credo anche a chi mi ascolta che quello seguito nel mio caso era il metodo con cui il nostro editore entrava abitualmente in relazione con le persone e con il quale procedeva, ad amicizia consolidata, a proporre la pubblicazione di un testo nella Locusta.

Trattava insomma di persona con gli autori, che andava scoprendo con un suo metodo che era fatto più di ruminazione monastica di quanto leggeva che di vaglio della produzione dell’industria culturale. Traduceva, leggeva i manoscritti e li consegnava in tipografia, impacchettava con lo spago, scriveva a mano gli indirizzi e faceva le spedizioni dei volumetti portandoli di persona all’ufficio postale. Faceva gli onori di casa se capitavi a Vicenza: da solo era tutta la Locusta.

Quando i curatori dell’archivio della Locusta avranno completato l’inventario del vasto carteggio di Rienzo Colla si potrà verificare l’ipotesi che mi sento di azzardare e di suggerire come pista di ricerca: che la maggioranza dei contatti su cui è stata costruita la cinquantennale attività della creativa editrice sono stati avviati da lettere scritte da Rienzo a interlocutori a lui noti per relazioni amicali o conosciuti leggendo. Forse si potrà anche verificare che spesso le proposte venute da altri hanno trovato difficoltà a essere accettate da Rienzo. Egli, come sappiamo già da varie testimonianze, era molto selettivo nella scelta dei temi e degli autori e difficilmente accettava proposte che non gli risultassero familiari o che non avesse lungamente meditato.

Sappiamo che prendono avvio da lettere di Rienzo Colla sia l’amicizia con don Primo Mazzolari sia quelle con don Divo Barsotti, con Nando Fabro, con don Italo Mancini, con il cardinale Martini, con Enzo Bianchi. Abbiamo davanti a noi un cinquantennio di solitario fervore intellettuale vissuto in sostanziale nascondimento da un dotatissimo tessitore di relazioni a distanza: così appare – a guardarla in prospettiva – la parabola culturale e umana della Locusta.

Leggendaria è la riservatezza sempre mantenuta dal nostro nella conduzione di tali rapporti, che conosciamo solo per squarci. “Sei così discreto nel parlare di te che non so a che punto ti trovi, se con l’abito o no” gli scrive Mazzolari nell’ultima delle lettere in cui accenna alla tribolata vicenda vocazionale di Rienzo (Lettere a un amico, cit., p. 181). Ma non è la discrezione di chi rinuncia a esplorare e comunicare. Egli conduce con riservatezza una rete di audaci contatti d’anima e di cultura, magari lenti ma coinvolgenti: si potrebbe forse descrivere così il paradosso della sua tenace esplorazione amicale del momento storico che si è trovato a vivere.

C’è un personaggio e un momento della vicenda umana del nostro Rienzo che possono forse aiutarci a mettere a fuoco gli ossimori di audace riservatezza e di tempestiva lentezza che hanno caratterizzato i suoi rapporti d’amicizia e di lavoro: l’uomo è Franco Rodano (1920-1983) e il momento è quello dell’occupazione tedesca di Roma: settembre 1943-giugno 1944.

Rienzo, figlio di un sarto vicentino, dopo gli studi liceali a Vicenza si iscrive alla Facoltà di Lettere dell’Università di Roma – credo nel 1939 – e a Roma è negli anni della guerra. Dal 1940 inizia anche a seguire i corsi di teologia alla Gregoriana. Nel 1942 collabora da Roma alla “Domenica illustrata” dei Paolini. Nei mesi dell’occupazione tedesca è a contatto con Franco Rodano che era allora animatore del “Movimento dei Cattolici Comunisti”. Poco fino a oggi sappiamo dell’attività svolta in quei mesi dal nostro, che quasi mai – a quanto risulta fino a oggi – ebbe a parlare o a scrivere di quell’unica esperienza politica della sua vita, che tuttavia mai ripudiò, continuando anzi segretamente a coltivare negli anni la lezione che ne aveva tratto e arrivando nel 1986, dopo oltre quattro decenni, a pubblicare nella Locusta un testo di Rodano: Lettere dalla Valnerina, proposto da Giovanni Tassani, con prefazione di Piero Pratesi (1925-2000).

Annarita Bartoli, amica vicentina che fu vicina a Rienzo negli anni novanta, ricorda d’averne avuto qualche confidenza impegnativa sul ruolo di “staffetta” che svolse nella resistenza romana e su episodi nei quali “rischiò la vita”. Michela Bellenzier, che ascolteremo oggi pomeriggio, mi diceva ieri che lavorando alla sua tesi di laurea La Locusta e la cultura cattolica italiana (1954-1990) [Università degli Studi di Genova, a.a. 1990/1991] ebbe da Rienzo la confidenza riguardo a un “breve periodo” di carcere, per quell’attività, fatto a Regina Coeli alla viglia della liberazione di Roma (dunque nella primavera del 1944).

E’ verosimile che un giorno, esplorati per intero gli archivi e i carteggi, sapremo di più su quel periodo; ma valga al momento questo spunto dell’amicizia con Rodano che ci segnala l’attitudine di Rienzo a lunghe, lunghissime maturazioni di idee e di rapporti e può aiutare a intendere la genesi del suo apporto di editore alla preparazione e alla divulgazione delle novità che vanno sotto il nome del Vaticano II: un apporto dato da chi ha antenne sempre vigili ma non si lascia guidare dalla fretta. Rienzo frequenta Rodano negli anni romani (sono coetanei, essendo nato Rodano nell’agosto del 1920 e Colla nel marzo del 1921), mantiene il contatto nella stagione in cui l’amico è colpito da “interdetto” per aver aderito al Partito Comunista Italiano (nel volumetto Lettere alla Locusta, che è del 1992, la lettera numero 12 è di Franco Rodano e ha la data del 23 agosto del 1955: l’interdetto è del 1949 e gli sarà tolto soltanto da Giovanni XXIII, nel 1959), arriva a pubblicarne un testo nel 1986. Rodano era morto tre anni prima e il testo era già apparso a puntate negli anni 1971-1972 su “Settegiorni” e negli anni 1974-1975 sulla “Rivista Trimestrale”, ma il volumetto della Locusta non costituiva una pura riproposta editoriale di scritti vecchi ormai di un quindicennio, perché quelle “lettere” erano apparse con lo pseudonimo Ignazio Saveri e ora la Locusta le ripubblicava con il nome di Rodano e venivano dunque a costituire il pieno svelamento dell’apporto tribolato e mal accolto che quel pedagogo politico aveva dato al dibattito ecclesiale italiano in vista di “una definizione adeguata della nostra attuale identità di cattolici” (Lettere dalla Valnerina, p. 89). Ho frequentato casa Rodano e ho collaborato a “Settegiorni” nei mesi delle prime “lettere” rodaniane e so bene come confliggevano il suo desiderio di prendere la parola e il suo scrupolo che lo portava all’uso di pseudonimi, non sentendosi libero di poterlo fare alla luce del sole. Né potremo dargli torto accusandolo magari di un eccesso di prudenza, se teniamo conto dell’interruzione di quella pubblicazione su “Settegiorni”, deciso dalla direzione della rivista dopo le prime sei puntate, in risposta alle proteste venute dal mondo cattolico, come racconta Pratesi nella prefazione all’edizione locustiana.

Guardando la scena col senno di poi è come se Rodano (che mai in vita volle prendere parte direttamente al dibattito ecclesiale) avesse affidato al vecchio amico un messaggio in bottiglia da far valere a futura memoria. Forse nessuno o comunque ben pochi nella nostra storia recente ha dato dimostrazione di tanta prontezza nell’intuire il nuovo e di tanta tenuta nel coltivarlo segretamente, fino alla sua piena maturazione, come è stato capace di fare Rienzo Colla.

Scheda del relatore

Luigi Accattoli, nato a Recanati nel 1943, vive a Roma. Giornalista prima della “Repubblica” e poi del “Corriere della Sera”, ha pubblicato con la Locusta il volumetto Cento preghiere italiane di fine millennio (1996). Per la rivista bolognese “Il Regno” ha pubblicato due testi su Rienzo Colla e la Locusta: In memoria di Rienzo Colla che si cibava di locuste, 16/2009; Colla Rodano Mazzolari e Barsotti, 22/2014.

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