I pellegrinaggi in Turchia e Terra Santa di Benedetto XVI – nel 2006 e nel 2009

CON PAPA RATZINGER A EFESO
NELLA CASA DI MARIA – NOVEMBRE 2006

Il viaggio del papa in Turchia (28 novembre-1° dicembre 2006) ha avuto una forte eco nei media internazionali e presso l’ufficialità turca. Secondo la maggior parte degli osservatori ha posto la parola fine alla difficoltà di rapporto con l’Islam, seguita all’incidente di Ratisbona (12 settembre). Due i gesti papali più significativi: fa dichiarare dal portavoce – ad Ankara, il 28 novembre – che la Santa Sede “incoraggia” il cammino della Turchia per l’ingresso in UE e visita la Moschea blu di Istanbul il 30 novembre, raccogliendosi in preghiera su invito del mufti che l’accompagna. Ma c’è dell’altro: l’incontro con le autorità dello Stato e i rappresentanti dell’islam ad Ankara; quello con la comunità cattolica, nelle due celebrazioni di Efeso, al santuario della Casa di Maria e di Istanbul, nella cattedrale dello Spirito Santo; soprattutto quello con il patriarca Bartolomeo, con il quale firma una dichiarazione congiunta.

“Un paese emblematico”
All’udienza generale di mercoledì 6 dicembre, Benedetto XVI così riassume il significato più ampio della visita: “La Turchia è un paese emblematico in riferimento alla grande sfida che si gioca oggi a livello mondiale: da una parte, cioè, occorre riscoprire la realtà di Dio e la rilevanza pubblica della fede religiosa, e dall’altra assicurare che l’espressione di tale fede sia libera, priva di degenerazioni fondamentaliste, capace di ripudiare fermamente ogni forma di violenza. Ho pertanto avuto l’occasione propizia per rinnovare i miei sentimenti di stima nei confronti dei musulmani e della civiltà islamica. Ho potuto, nel contempo, insistere sull’importanza che cristiani e musulmani si impegnino insieme per l’uomo, per la vita, per la pace e la giustizia, ribadendo che la distinzione tra la sfera civile e quella religiosa costituisce un valore e che lo stato deve assicurare al cittadino e alle comunità religiose l’effettiva libertà di culto“.
Mano tesa alla Turchia per l’ingresso in Europa, rilancio del dialogo con l’Islam e richiesta di una piena libertà religiosa per le minoranze cristiane sono tre fuochi della visita accesi già il primo giorno. Il papa ­- contrariamente ai timori della vigilia – viene accolto bene e ricambia la buona accoglienza rendendo onore agli ospiti con generosità. Tiene due discorsi calorosi, uno ai responsabili del Dipartimento per gli affari religiosi e un altro al corpo diplomatico. «I cristiani e i musulmani appartengono alla famiglia di quanti credono nell’unico Dio e che, secondo le rispettive tradizioni, fanno riferimento ad Abramo», dice nel primo. E nel secondo: «Sono lieto di essere ospite della Turchia, giunto qui come amico e come apostolo del dialogo e della pace», a «dire nuovamente tutta la mia stima per i musulmani».
Più in là di così con le parole forse non può andare. Ma ci va con i fatti: durante il colloquio con il premier Erdogan chiarisce di non essere contrario all’ingresso della Turchia nell’UE. E non è cosa da poco, stante la contrarietà che aveva espresso da cardinale, un anno e mezzo prima dell’elezione a papa.
Così il portavoce vaticano, padre Federico Lombardi, precisa la questione dopo che il premier turco ha riferito ai giornalisti l’assicurazione avuta dal papa («Noi non facciamo politica, mi ha detto il pontefice, ma desideriamo che la Turchia entri nella UE»): «La Santa Sede non ha il potere né il compito specifico, politico, di intervenire sul punto preciso riguardante l’ingresso della Turchia nell’Unione europea. Non le compete. Tuttavia vede positivamente e incoraggia il cammino di dialogo e di avvicinamento e inserimento in Europa, sulla base di valori e principi comuni».
L’altro punto chiave della giornata è la rivendicazione della libertà religiosa, che in Turchia è affermata dalla Costituzione laica, ma che di fatto mantiene ai margini le religioni diverse da quella musulmana. «La libertà di religione – dice nel primo dei due discorsi – garantita istituzionalmente ed effettivamente rispettata, costituisce per tutti i credenti la condizione necessaria per il loro leale contributo all’edificazione della società».

La Turchia nell’Unione europea
Molto si è discusso sulla reale portata del nuovo atteggiamento del papa e della Santa Sede sulla questione UE. La novità – rispetto alla neutralità tradizionale, più volte affermata negli anni dal cardinale Angelo Sodano, ma soprattutto rispetto alla contrarietà “personale” del cardinale Ratzinger – si è fatta strada gradualmente, in dichiarazioni del vertice vaticano, alla vigilia del viaggio.
“Non risulta che la Santa Sede abbia espresso una posizione ufficiale” dichiara ad Avvenire l’arcivescovo Dominique Mamberti il 26 novembre: “Certo, la Santa Sede ritiene che, in caso di adesione, il paese debba rispondere a tutti i criteri politici convenuti al Vertice di Copenhagen del dicembre 2002 e, per quanto riguarda più specificamente la libertà religiosa, alle raccomandazioni contenute nella decisione relativa ai principi, alle priorità e alle condizioni contenuti nel partenariato per l’adesione della Turchia del 23 gennaio 2006”. Un’affermazione più decisa fa quello stesso giorno il cardinale Tarcisio Bertone a Tg2 dossier: “L’auspicio è che la Turchia possa veramente realizzare le condizioni poste dalla Comunità europea per l’accesso e per un’integrazione nella Comunità”.
Dalla contrarietà del cardinale Ratzinger e dalla neutralità del cardinale Sodano si è passati a un atteggiamento che “oscilla – per dirla con Sandro Magister, vaticanista dell’Espresso – tra la neutralità attiva e il favore condizionato”. A chiarimento del fatto che il cardinale Ratzinger era contrario, basti un passaggio di un discorso del 18 settembre 2004 agli operatori pastorali della diocesi di Velletri, riportato dal Il Giornale del Popolo di Lugano: “Storicamente e culturalmente la Turchia ha poco da spartire con l’Europa: perciò sarebbe un errore grande inglobarla nell’Unione Europea“.

Preghiera nella Moschea blu
Si sono fatte molte illazioni sulla genesi delle decisioni papali di esprimere favore all’aspirazione europea della Turchia e di vistare la Moschea blu: decisioni prese in contemporanea, tre o quattro giorni prima della visita e contraccambiate dal premier Erdogan con la disponibilità ad accogliere l’ospite all’aeroporto di Ankara, fino ad allora negata con l’alibi di un vertice NATO a Riga che si apriva proprio quel giorno. Al desiderio di rassicurare l’interlocutore dopo le polemiche seguite alla lectio di Ratisbona va aggiunto l’interesse del papa a dare un ascolto fattivo ai sei vescovi cattolici che vivono in Turchia, i quali all’unanimità si erano espressi a favore dell’ingresso del paese nell’UE e che per primi gli avevano proposto la visita alla Moschea.
La visita alla Moschea è avvenuta subito dopo quella a Santa Sofia. Al termine della presentazione del monumento da parte di una guida che parlava italiano, il Mufti di Istanbul rivolto alla Mecca ha invitato l’ospite a un momento di “raccoglimento”. Il papa si è raccolto in visibile atteggiamento di preghiera, muto e senza gesti, con lieve e breve movimento delle labbra, almeno all’inizio. E in quell’atteggiamento è restato più a lungo del Mufti.
Egli stesso ha così interpretato il fatto, nel discorso all’udienza del 6 dicembre: “Nell’ambito del dialogo interreligioso, la divina Provvidenza mi ha concesso di compiere, quasi alla fine del mio viaggio, un gesto inizialmente non previsto, e che si è rivelato assai significativo: la visita alla celebre Moschea Blu di Istanbul. Sostando qualche minuto in raccoglimento in quel luogo di preghiera, mi sono rivolto all’unico Signore del cielo e della terra, Padre misericordioso dell’intera umanità. Possano tutti i credenti riconoscersi sue creature e dare testimonianza di vera fraternità!

L’abbraccio con Bartolomeo
Obiettivo primo della visita era originariamente l’incontro con il patriarca Bartolomeo, passato in secondo piano – sui media – a motivo delle polemiche islamiste che l’hanno preceduta ma anche a causa della mancanza di sostanziali novità nella dichiarazione comune sottoscritta al Fanar il 30 novembre.
Se la visita alla Moschea Blu ha posto Papa Ratzinger sulla scia di papa Wojtyla, che il 5 maggio del 2001 aveva visitato a Damasco la moschea degli Omayyadi, altrettanto evidente è apparso il legame con il predecessore al termine della celebrazione della «divina liturgia» nella «Chiesa patriarcale di san Giorgio», quando Benedetto XVI ha «rinnovato» l’invito alle altre Chiese cristiane a discutere del papato: «Il Papa Giovanni Paolo II fece l’invito a entrare in dialogo fraterno con lo scopo di identificare vie nelle quali il ministero petrino potrebbe essere oggi esercitato, pur rispettandone la natura e l’ essenza, così da realizzare un servizio di amore riconosciuto dagli uni e dagli altri. È mio desiderio oggi richiamare e rinnovare tale invito».
Il riferimento è all’enciclica Ut unum sint (1995), pubblicata nel 1995, che al paragrafo 95 faceva quella proposta, ripetuta poi più volte da Wojtyla. Il cardinale Ratzinger per incarico del papa polacco aveva poi presieduto un simposio teologico internazionale e una commissione curiale chiamati a studiare la questione, mostrando un buon coinvolgimento personale in tale lavoro. Ma da papa non ne aveva mai parlato pubblicamente.
La dichiarazione comune è decisa nel rilanciare l’impegno delle due Chiese sorelle «nel cammino verso la piena unità», ma riflette la situazione di stallo seguita alla sospensione – durata sei anni – del «dialogo teologico» con l’insieme dell’Ortodossia, che era iniziato con la venuta a Istanbul di Papa Wojtyla nel 1979 e che è ripreso ultimamente con la sessione di Belgrado (Serbia) su Conciliarità e autorità nella Chiesa.
La dichiarazione comune ha pure una parte rivolta al mondo, con parole solenni contro ogni giustificazione religiosa della violenza: «Innanzitutto vogliamo affermare che l’uccisione di innocenti nel nome di Dio è un’offesa a Lui e alla dignità umana. Tutti dobbiamo impegnarci per un rinnovato servizio all’uomo e per la difesa della vita umana, di ogni vita umana». Un altro passaggio della dichiarazione riguarda il futuro dell’Europa: «Abbiamo valutato positivamente il cammino verso la formazione dell’Unione Europea. Gli attori di questa grande iniziativa non mancheranno di prendere in considerazione tutti gli aspetti che riguardano la persona umana e i suoi inalienabili diritti, soprattutto la libertà religiosa, testimone e garante del rispetto di ogni altra libertà». Qui oltre che alla Turchia è da leggere un riferimento alla Grecia, dove la Chiesa cattolica non trova ancora un pieno riconoscimento giuridico.

Incontro con la comunità cattolica
«Con questa visita ho voluto far sentire l’amore e la vicinanza spirituale non solo miei, ma della Chiesa universale alla comunità cristiana che qui, in Turchia, è davvero una piccola minoranza e affronta ogni giorno non poche sfide e difficoltà, come attesta la bella testimonianza del sacerdote romano don Andrea Santoro, che mi piace ricordare anche in questa nostra celebrazione»: così papa Ratzinger parla durante la messa celebrata al santuario della Casa di Maria, a Efeso, il 29 novembre, presenti un migliaio di persone, duecento delle quali musulmane.
La seconda e ultima celebrazione in terra turca avviene nella chiesa di Santo Spirito, a Istanbul, davanti a 1.200 persone, presente il patriarca ortodosso Bartolomeo. All’omelia il papa ricorda la consegna data da Cristo ai suoi seguaci di «annunciare il Vangelo fino ai confini della terra» e l’applica alla situazione dei pochi cattolici che vivono in Turchia (30.000 su 70 milioni), dicendo che talora è necessario compiere «un umile cammino di accompagnamento» con quelli che «non condividono la nostra fede ma che dichiarano di avere la fede di Abramo e che adorano con noi il Dio uno e misericordioso». Parole che sembravano descrivere l’atteggiamento «umile» con cui egli stesso, il papa, aveva accettato nella moschea l’invito del mufti a un momento di «raccoglimento».

Luigi Accattoli
da Il Regno 22/2006

BENEDETTO IN TERRA SANTA “DA AMICO DEGLI ISRAELIANI
E DEL POPOLO PALESTINESE” – MAGGIO 2009

E’ riuscito a presentarsi come un interlocutore credibile sia in Israele sia in Palestina: è questo il capolavoro compiuto da Benedetto XVI con il viaggio in Terra Santa dell’8-15 maggio 2009. “Sono venuto a visitare questo Paese da amico degli israeliani, così come sono amico del popolo palestinese” ha detto all’aeroporto di Tel Aviv ripartendo per Roma.
Come amico degli israeliani aveva ricordato – arrivando in Israele dalla Giordania, l’11 maggio – i “sei milioni di Ebrei vittime della Shoah” e a Yad Vashem sei ore più tardi aveva detto che quelle sofferenze non devono mai essere “negate, sminuite o dimenticate”. Parlando il 12 maggio al Rabbinato di Gerusalemme aveva riaffermato “l’impegno irrevocabile della Chiesa cattolica per una autentica e durevole riconciliazione tra ebrei e cristiani”. Nel saluto finale all’aeroporto di Tel Aviv ha avuto questa espressione, più forte che mai, in memoria di “così tanti ebrei ” che “furono brutalmente sterminati sotto un regime senza Dio che propagava un’ideologia di antisemitismo e di odio”.
E c’era stata – sempre il 12 – la preghiera al Muro del Pianto, dove prima un rabbino in ebraico e poi Benedetto in latino avevano recitato il Salmo 122 che dice: “Sia pace su Gerusalemme”. Facendosi ebreo con gli ebrei – sull’esempio dato dal Papa polacco il 26 marzo dell’anno 2000 – aveva lasciato una preghiera tra le fessure di quel Muro. In essa vi erano queste parole di fratellanza con i credenti dell’ebraismo: “Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe, ascolta il grido degli afflitti, degli impauriti, dei disperati, manda la Tua pace su questa Terra Santa, sul Medio Oriente, sull’intera famiglia umana“.
Come amico dei palestinesi, Benedetto ha visitato il 13 maggio Betlemme, la loro capitale provvisoria e ha onorato il presidente dell’Autorità Palestinese Abu Mazen e la bandiera palestinese come fossero già espressione dello Stato che non c’è ancora ma per la cui realizzazione ha alzato la sua voce almeno cinque volte in quegli otto giorni. Queste forti parole le ha dette visitando un campo profughi localizzato  a ridosso del “muro” di separazione: “Incombente su di noi è la dura consapevolezza del punto morto a cui sembrano essere giunti i contatti tra Israeliani e Palestinesi: il muro. In un mondo in cui le frontiere vengono sempre più aperte, è tragico vedere che vengono tuttora eretti dei muri.
Nel discorso di congedo dai Territori palestinesi il Papa ha espresso una richiesta esplicita di abbattimento del muro: “Anche se i muri possono essere facilmente costruiti, noi tutti sappiamo che non durano per sempre. Essi possono essere abbattuti“. Con altrettanta chiarezza, nel discorso al campo profughi aveva affermato che la sua richiesta di superamento del muro non era fatta contro gli israeliani: “Quanto ardentemente preghiamo perché finiscano le ostilità che hanno causato l’erezione di questo muro!
Possiamo concludere che il coraggio del Papa – di andare pellegrino di pace tra popoli in guerra – è stato premiato e gli otto giorni che ha passato tra Giordania, Israele e Territori palestinesi, con i gesti generosi e le parole calcolate che li hanno contrassegnati, costituiscono ora una risorsa a disposizione dei costruttori di pace. Ha trattato i due popoli rivali con pari rispetto e si è chinato con trepidazione sui cristiani di quella terra, dilaniati dal conflitto altrui.
Non sono mancate le polemiche. Per esempio alcuni giornali israeliani l’hanno rimproverato perché nel discorso a Yad Vashem non ha nominato il nazismo e non ha chiesto “perdono”. Ma chi ha detto che il Papa deve esprimere “rammarico” a ogni cerimonia, o deve dare conto – come in una scheda storiografica – dello svolgimento della Shoah tutte le volte che la nomina? Dopo la visita ad Auschwitz – 28 maggio 2006 – erano già risuonate analoghe proteste eppure quel gesto è cresciuto da allora a oggi nella memoria collettiva come uno dei momenti maggiori del riavvicinamento tra cristiani ed ebrei. Quanto alla richiesta di perdono per il maltrattamento degli ebrei nella storia, Papa Benedetto l’aveva ripetuta – nel testo formulato da Giovanni Paolo nell’anno 2000 – il 12 marzo scorso, ricevendo una delegazione ebraica e proprio in vista del pellegrinaggio in Terra Santa.
La tappa giordana con la visita a una moschea sabato 9 maggio è stata significativa per il dialogo con l’islam: lo scambio di discorsi che con il principe Ghazi resterà come il più impegnativo che un Papa abbia mai avuto con un esponente musulmano.
Per la prima volta a questa mano tesa di un Vescovo di Roma – e ciò avviene dai tempi di Paolo VI – ha risposto un interlocutore animato da altrettanta convinzione di pace. Il principe Ghazi, cugino del re di Giordania Abdallah II – e principale promotore della lettera dei 138 leader musulmani ai leaders cristiani – ha ringraziato il Papa per la visita alla moschea, “voluta per onorare i musulmani”. “In questa visita – ha detto con parole insolite in bocca a un uomo di fede islamica – vediamo un chiaro messaggio della necessità di armonia interreligiosa e mutuo rispetto nel mondo contemporaneo e anche la prova visibile della volontà di Sua Santità di assumere personalmente un ruolo guida a questo proposito”.
Il principe Ghazi – con riferimento alle polemiche seguite alla lectio tenuta da Benedetto a Regensburg nel settembre del 2006 – ha lodato il Papa per il “rincrescimento” espresso in merito al “danno” che da quelle polemiche vennero ai musulmani e ha affermato l’urgenza che “i musulmani illustrino l’esempio del Profeta con opere virtuose, carità, pietà e buona volontà”.
Questo prezioso interlocutore – che ha poco più della metà degli anni del Papa: 42 contro 82 – ha fatto infine un riconoscimento della schiettezza della predicazione papale che sarebbe gran cosa se fosse colta dai commentatori dei nostri giornali: “Il suo Pontificato è caratterizzato dal coraggio morale di agire e di parlare secondo la propria coscienza, indipendentemente dalle mode del momento”.
Vorrei anche dire qualcosa dell’aspetto spirituale del “pellegrinaggio”, quale si è manifestato soprattutto nelle omelie tenute da Benedetto ad Amman, nella Valle di Josafat, a Betlemme e a Nazaret. Valga uno spunto, che prendo dalla seconda di queste omelie, quando per incoraggiare i cristiani di Terra Santa a non emigrare (come Giovanni Paolo II faceva con i polacchi degli anni difficili), ha usato questo argomento: “Qui vi è concessa l’opportunità di ‘toccare’ le realtà storiche che stanno alla base della nostra confessione di fede nel Figlio di Dio“.
Quanto al gradimento degli interlocutori, converrà lasciare da parte le voci polemiche e attenersi agli uomini rivestiti di responsabilità: i presidenti Peres e Abu Mazen, nonché il rabbino Rosen hanno ringraziato il Papa per i suoi gesti e le sue parole. Come messaggio d’insieme ai due popoli può infine valere questo passaggio del discorso di saluto al momento di ripartire per Roma: “Non più spargimento di sangue! Non più scontri! Non più terrorismo! Non più guerra! Rompiamo il circolo vizioso della violenza. Sia universalmente riconosciuto che lo Stato di Israele ha il diritto di esistere e di godere pace e sicurezza entro confini internazionalmente riconosciuti. Sia ugualmente riconosciuto che il Popolo palestinese ha il diritto a una patria indipendente sovrana, a vivere con dignità e a viaggiare liberamente“.

Luigi Accattoli

Possibile box:
Una preghiera mano nella mano
Tra i gesti e i simboli della settimana vissuta dal Papa in Tetta Santa non è mancato l’elemento sorpresa della preghiera comune per la pace cantata da Benedetto e da tutti al termine dell’incontro con i “capi religiosi della Galilea”, giovedì 14 maggio a Nazaret. Benedetto che prende per mano i suoi vicini, un rabbino e un imam e si unisce al canto “Shalom Salam”, pace pace, resta come un’icona festosa di questo viaggio.

da Milizia Mariana – luglio 2009

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