Sulle orme di Paolo in Grecia e in Siria

QUANDO IL PAPA SI FA TUTTO A TUTTI
CON GLI ORTODOSSI E CON L’ISLAM

Il terzo pellegrinaggio giubilare del papa, che lo ha portato con qualche mese di ritardo – rispetto alla chiusura della porta santa – sulle orme dell’apostolo Paolo (Atene-Damasco-Malta, 4-9 maggio), è stato occasione per due acquisizioni di rilievo nel rapporto con l’Ortodossia e con l’Islam:
– il disgelo con la chiesa ortodossa greca, favorito dalla “richiesta di perdono” del papa con riferimento al sacco crociato di Costantinopoli del 1204 e culminato nella “preghiera comune” con l’arcivescovo Christodoulos (4 maggio);
– la prima visita di un papa a una moschea, quella degli Omayyadi a Damasco, con sosta di preghiera al memoriale di Giovanni il Battista, invito del papa al “reciproco perdono” e iniziale riconoscimento di errori storici da parte del gran Muftì.

Chiede perdono agli ortodossi
La sua richiesta di perdono il papa l’ha formulata poco dopo il mezzogiorno del 4 maggio, durante l’incontro con Christodoulos, nella sede dell’arcivescovo ortodosso “di Atene e di tutta la Grecia”.
Christodoulos – che è stato criticato dai suoi per la disponibilità ad accogliere il “desiderio” di Giovanni Paolo II di venire “pellegrino” ad Atene – aveva promesso al “santo sinodo” che avrebbe posto al papa tutte le questioni bilaterali che “rattristano” gli ortodossi e ha mantenuto la promessa. Ha definito “comprensibile” l’opposizione di una “larga parte” della Chiesa di Grecia nei confronti della visita papale, che personalmente ha qualificato come “evento portatore di gioia”.
Facendosi portavoce degli oppositori, l’arcivescovo ha detto che gli ortodossi attendono “una condanna ufficiale delle ingiustizie commesse dai cristiani dell’occidente contro di loro “. E ha precisato che l’ortodossia greca è più “sensibile” a tali ingiustizie, rispetto ad altre chiese ortodosse, per aver sperimentato la “mania distruttiva dei crociati” e il “proselitismo – contrario ai canoni – condotto dagli uniati”. La conclusione è stata perentoria: “Fino a oggi, non abbiamo ascoltato una sola richiesta di perdono”. Ha pure sollevato la questione di Cipro: “L’isola apostolica, vittima di una barbara spartizione e di una brutale pulizia etnica, non ha potuto mai udire una parola di simpatia da parte di vostra santità”.
Quanto alla richiesta di perdono, il papa l’ha subito accontentato, ponendo al centro della sua risposta il “fardello del passato” e le “persistenti incomprensioni” che ne derivano e che rendono necessario “un processo liberatorio di purificazione della memoria”:
“Per le occasioni passate e presenti, nelle quali figli e figlie della Chiesa cattolica hanno peccato con azioni o omissioni contro i loro fratelli e loro sorelle ortodossi, che il Signore ci conceda il perdono che imploriamo da lui! Alcuni eventi del lontano passato hanno lasciato ferite profonde nella mente e nel cuore delle persone di oggi. Penso al saccheggio disastroso della città imperiale di Costantinopoli, che è stata per tanto tempo bastione del cristianesimo in Oriente. E’ tragico che i saccheggiatori, che si erano impegnati a garantire ai cristiani libero accesso alla Terra Santa, si siano rivoltati contro i propri fratelli nella fede. Il fatto che erano cristiani latini riempie i cattolici di profondo rincrescimento. Come possiamo non vedervi il mysterium iniquitatis all’opera nel cuore umano?”
Netto sull’assalto crociato a Costantinopoli, il papa è stato più sfumato sull’uniatismo, ma non ha mancato – in due passaggi – di dare un’indicazione per il suo superamento storico: quando ha invitato a mirare a una “comunione piena che non è né assorbimento né fusione” e quando ha riconosciuto che “alcuni modelli di riunione del passato non corrispondono più all’impulso verso l’unità che lo Spirito Santo ha risvegliato nei cristiani ovunque in tempi recenti”. E dunque “dobbiamo essere tutti più aperti e attenti a quanto lo Spirito dice ora alle chiese”. Tutti: cioè gli uniati, non pretendendo di porsi come modello per la futura “unione” e gli ortodossi, evitando di mirare alla soppressione delle comunità uniate. Nulla ha detto il papa, neanche stavolta, su Cipro.

La sorpresa della preghiera comune
La preghiera comune avviene nella nunziatura di Atene, alle 21 del 4 maggio, al termine della restituzione – da parte di Christodoulos – della “visita di cortesia” che il papa gli aveva fatto il pomeriggio e nella quale aveva pronunciato la richiesta di perdono.
Christodoulos – che era stato il primo ad applaudire il “mea culpa” papale – ringrazia Giovanni Paolo, gli dice di essere “fiero della visita in Grecia compiuta dalla Santità vostra” e afferma la convinzione che grazie a essa “i rapporti tra le due chiese entrano in una nuova epoca”.
Il papa l’ascolta commosso. Cinque ore prima, lasciando la residenza dell’arcivescovo aveva scritto in francese nel registro degli ospiti: “Con grande emozione, Giovanni Paolo II”.
Ma ora il clima è più familiare. C’è stato anche l’incontro all’Areopago (con la lettura di una “dichiarazione comune” di scarso interesse, ma importante come fatto: è la prima nella storia), dove l’arcivescovo ha dovuto dare una mano al papa perché non incespicasse salendo i gradini della piccola tribuna e mentre lo accompagnava al bacio dell’icona dell’apostolo Paolo.
In questo clima più familiare il papa dice: “Non potremmo pregare il Padre nostro in greco?“. L’arcivescovo intona la preghiera e le sette persone del seguito ortodosso e le altre sette del seguito papale gli vanno dietro.
E’ così che sono salite a tre contro due le chiese ortodosse che hanno accettato – ad oggi – di pregare con il papa in visita: l’hanno fatto i patriarcati di Costantinopoli e di Romania e la chiesa di Grecia, mentre hanno detto “no” il patriarcato di Georgia e la chiesa del Sinai.
E’ nota la posizione rigida – nel confronto ecumenico – tenuta fino a oggi dall’importante chiesa di Grecia: la terza per numero di fedeli dopo i patriarcati di Mosca e di Romania, con un forte influsso culturale presso altre comunità ortodosse. Le sue riserve sull’evoluzione della chiesa di Roma e sull’uniatismo sono le più drastiche di tutta l’ortodossia. Non mandò osservatori al Vaticano II, si oppose negli anni ’80 alle relazioni diplomatiche tra la Santa Sede e la Grecia, non partecipa alle sessioni sull’uniatismo della commissione mista di dialogo tra le chiese ortodosse e la chiesa cattolica. Ciò che è avvenuto ad Atene dunque è di grande rilievo.

La prima volta di un papa in moschea
Il papa che era entrato per primo in una sinagoga è stato anche il primo a entrare in una moschea. La spinta che l’ha portato domenica 6 maggio nell’incantevole moschea degli Omayyadi, a sognare la pace tra i credenti di ogni fede e a pregare per essa, veniva certamente da lontano (forse da quando, nel 1985, parlò a una folla di giovani islamici, a Casablanca), ma la maturazione della decisione è stata occasionale: nessuno fino a tre mesi fa l’aveva invitato a visitare una moschea, appena invitato ha accettato. Ce l’ha assicurato – in una conversazione nel cortile della moschea degli Omayyadi, durante la visita papale – il cardinale Roberto Tucci, organizzatore fino a oggi dei viaggi papali.
La questione dunque non si era mai posta in precedenza, neanche per la moschea Al Aqsa di Gerusalemme, nel marzo del 2000, o durante la visita del mese precedente al Cairo, per citare le circostanze di maggiore avvicinamento all’area delle moschee, in tempi recenti e in zone di dialogo.
L’invito è venuto dagli ambienti islamici e del governo ed è stato appoggiato dagli ambienti ecclesiali ed ecumenici: a Damasco tutti sono convinti che non si può visitare la capitale senza vedere la “grande moschea”. I fatto che nella moschea vi fosse il memoriale di Giovanni il Battista ha favorito, ma non originato l’accordo sulla visita.
Nessuno ha posto – nelle trattative – la questione della preghiera comune: una fonte della chiesa cattolica locale ha annunciato che vi sarebbe stata, sono venute proteste da altri paesi arabi e gli organizzatori siriani della visita hanno smentito la notizia prima che da Roma si avesse il tempo di chiedere chiarimenti.
I media hanno mostrato e descritto Giovanni Paolo II a piedi scalzi, con la destra appoggiata a una colonna e la sinistra sul bastone, che resta in silenzio per cinque minuti e prega davanti al memoriale di Giovanni il Battista.
E ancora il Papa e il Gran Mufti della Repubblica Araba di Siria, Sheikh Ahmad Kuftaro (86 anni), che escono dalla moschea, si siedono su due sedie accostate, sorridono e si danno la mano. Prima di sedersi, Giovanni Paolo aveva battuto due volte il bastone a terra, con una mossa di soddisfazione in viso, accennando di “sì” con il capo in direzione del Mufti, come a dirgli: ce l’abbiamo fatta!
Appena entrato nel recinto della moschea, alle 18, Giovanni Paolo viene condotto a togliersi le scarpe in una sala che si trova sulla sinistra del complesso. Il Mufti è lì accanto. Anche lui si toglie le scarpe e intanto dice al Papa che “ricorda bene” le due visite che gli ha fatto a Roma (è venuto più di una volta agli incontri interreligiosi organizzati dalla Comunità di Sant’Egidio), ma “non avrei mai immaginato di accoglierla un giorno in questa nostra moschea: è un fatto che va oltre la storia cui siamo abituati e che porterà frutti di pace“.
Nella “sala della preghiera”, la meta del papa è il “memoriale di Giovanni il Battista”, cui era dedicata la chiesa cristiana abbattuta per costruire la moschea: essendo il “precursore” di Cristo venerato anche dai musulmani, ne è stata mantenuta la memoria nel luogo dove si ritiene fosse custodito il suo teschio.
Terminata la presentazione del memoriale, la guida dice al papa: “Ora noi lo lasciamo solo perché possa pregare Dio”. Tutti fanno un passo indietro e Giovanni Paolo si raccoglie in preghiera, con una mano sulla base di una colonna e l’altra che trema sul bastone.
Usciti dalla moschea e seduti a un lato del cortile, sotto il “Minareto di Gesù”, viene cantato un brano del Corano, preso dalla sura di Hashr , che parla dei “nomi di Dio” e c’è lo scambio dei discorsi. Il Mufti chiede che “la chiesa cattolica e i governi cristiani aiutino a far trionfare la giustizia e a cancellare l’oppressione esercitata da Israele sui palestinesi”. Ma ha pure un accenno autocritico: dopo aver ricordato la “tolleranza” con cui l’Islam ha trattato nella storia i “fratelli cristiani”, aggiunge che “non possiamo passare sotto silenzio gli errori compiuti nel passato da persone che pure si richiamavano agli insegnamenti della religione”.
Il papa ovviamente dice di più: “Per tutte le volte che i musulmani e i cristiani si sono offesi reciprocamente, dobbiamo cercare il perdono dell’Onnipotente e offrire il perdono gli uni agli altri. Gesù ci insegna che dobbiamo perdonare le offese altrui, se vogliamo che Dio perdoni i nostri peccati“.
Giovanni Paolo ha detto anche che bisogna fare ogni sforzo per “presentare le nostre due religioni non in opposizione, come è accaduto fin troppo nel passato, ma in collaborazione”. E che nel condurre il dialogo “non si dovrebbe permettere alle esperienze negative di minare la speranza della pace”.

Ecumenismo damasceno
Qui i cristiani sono pochi – appena il 7% della popolazione – ma le Chiese, come spesso capita in Medio Oriente, numerosissime. A Damasco hanno sede tre patriarcati: siro ortodossi, greco ortodosso e greco cattolico. Ma vi si incontrano ramificazioni e propaggini di altri patriarcati e altre chiese. Nella capitale per esempio vi sono 14 parrocchie cattoliche: sette greco-melchite, due sire, una maronita, una armena e una caldea.
L’ecumene damascena vive da anni una grande esperienza di ospitalità liturgica e sinodale. Quando si riuniscono i sinodi, è consuetudine l’invito reciproco a prendervi parte. Questa esperienza si è manifestata nella visita papale con il fatto che i tre patriarchi insieme hanno ricevuto il papa all’aeroporto, tutti e tre sono entrati a far parte del suo seguito e insieme l’hanno accompagnato nei vari appuntamenti. Comuni sono stati anche gli incontri del papa con il clero e i giovani delle tre chiese, nella cattedrale ortodossa e in quella melchita.
L’appuntamento ecumenico più importante è stato quello avvenuto il 6 maggio nella cattedrale greco-ortodossa, essendo il papa e tutti gli altri ospiti del patriarca Ignace IV Hazim, che ha accompagnato il Papa nello spostamento dal palazzo presidenziale alla cattedrale, prendendo posto accanto a lui nella papamobile (come già aveva fatto in Romania, nel maggio del 1999, il patriarca Teoctist).
Noi accettiamo – ha detto Ignace IV Hazim – che la chiesa di Roma possa presiedere alla carità nella ritrovata unità, certamente alla carità tra i fratelli che i nostri peccati hanno separato, ma anche alla carità di ogni uomo in questo oriente così caro a Dio e nel mondo intero, e ciò affinchè il mondo creda“.
Belle parole, ma da leggere insieme a questa severa messa a punto che l’ha precedute: “Nessuna sede apostolica dovrebbe considerare se stessa come unica garante dell’ortodossia“.
Il Papa ha esortato i tre patriarcati della Siria a porsi come laboratorio di dialogo al servizio dell’intera ecumene, impegnandosi in particolare a lavorare per una data unica della pasqua e a “ritrovare le vie più adatte a condurli alla piena comunione”.

Luigi Accattoli
da Il Regno 12/2001

VIAGGIO DI PAPA WOJTYLA
IN TERRA SANTA – APRILE 2000

Il “pellegrinaggio giubilare” del Papa in Terra Santa (20-26 marzo) ha avuto tre fuochi principali, in rispondenza tra loro:
– lo sguardo dal Monte Nebo verso Gerusalemme, come patria comune ad ebrei, cristiani e musulmani (lunedì 20),
– il bacio alla terra palestinese di Betlemme, che riassume l’appoggio papale alla rivendicazione del “diritto a una patria” per questo popolo (mercoledì 22),
– il recapito ai “fratelli maggiori” del “mea culpa” del 12 marzo per l’antigiudaismo, realizzato collocandone il rescritto al Muro del pianto (domenica 26).
I tre fuochi configurano – nel loro insieme – uno degli atti maggiori del pontificato. Si pongono in continuità con l’accordo di base” con l’OLP firmato il 15 febbraio, con il pellegrinaggio al Monte Sinai del 26 febbraio e con la “giornata del perdono” del 12 marzo. Coronano la lunga opera di Giovanni Paolo per l’avvicinamento all’ebraismo e l’impegno della Santa Sede per affrettare la costituzione dello stato palestinese.

Monte Nebo. “Guardando verso Gerusalemme, eleviamo una preghiera a Dio onnipotente per tutti i popoli che abitano la Terra Promessa, ebrei, musulmani e cristiani”: così prega il papa dal Monte Nebo (Giordania), il pomeriggio del 20 marzo. E ancora: “Guarda Signore ai popoli che oggi abitano questa terra e concedi loro il dono della vera pace, della giustizia e della fraternità».
Il giovane re di Giordania Abdallah II (che aveva due anni quando suo padre Hussein riceveva ad Amman Paolo VI, diretto anch’egli verso la Terrasanta) aveva dato al Papa un caloroso benvenuto: «Noi vi salutiamo come un simbolo di quanto vi è di puro e di nobile in questa vita: la fede, la preghiera all’Onnipotente e il perdono reciproco». Vedremo che anche altri interlocutori del viaggio citeranno in modi impegnativi la «giornata del perdono».

Arrivo in Israele. «Signor presidente, la ringrazio per la calorosa accoglienza e attraverso lei saluto tutte le persone dello Stato di Israele»: così Giovanni Paolo parla al presidente Weizman, arrivando il 21 marzo sera a Tel Aviv, proveniente da Amman e segnalando – già con la scelta delle parole – la gran differenza di situazione rispetto a quando – 36 anni prima – era venuto in Israele Papa Montini, che non nominò mai lo «stato» di Israele. Da allora – precisa Giovanni Paolo – «sono cambiate molte cose fra la Santa Sede e lo Stato di Israele», ma la meta non è ancora raggiunta: sono ancora necessari “sforzi coraggiosi per rimuovere tutte le forme di pregiudizio” ed occorre realizzare nella regione “una pace duratura, con giustizia per tutti”. Conclusione: “Prego affinché la mia visita contribuisca ad accrescere il dialogo interreligioso che porterà gli ebrei, i cristiani e i musulmani a individuare nelle reciproche credenze e nella fraternità universale, che unisce tutti i membri della famiglia umana, la motivazione e la perseveranza per operare a favore di quella pace e di quella giustizia che i popoli della Terrasanta non possiedono ancora e alle quali anelano tanto profondamente».

Betlemme. Il papa bacia la terra della Palestina, come fa quando arriva in un paese sovrano, prega nella grotta della Natività e visita un campo profughi: sono i tre gesti forti della giornata di mercoledì 22, passata a Betlemme, che Arafat ha scelto come residenza dell’autorità palestinese.
Il bacio alla terra della Palestina – come il messaggio inviato il giorno prima ad Arafat, sorvolando il territorio palestinese – è considerato una forzatura, in anticipo sui tempi, ma già in qualche modo compresa nell’«accordo di base» che il Vaticano ha firmato con l’OLP il 15 febbraio. E’ evidente l’intenzione del papa di affrettare – anche con quel gesto – la costituzione dello Stato palestinese.
Salutando il papa, Arafat riafferma la volontà del suo popolo di riavere Gerusalemme «come capitale eterna». E’ in risposta ad Arafat che Giovanni Paolo – pur evitando di nominare Gerusalemme – pronuncia le parole più impegnative: «Pace per il popolo palestinese! Pace per tutti i popoli della regione! Nessuno può ignorare quanto il popolo palestinese ha dovuto soffrire negli ultimi decenni. Il vostro tormento è davanti agli occhi del mondo. Ed è andato avanti troppo a lungo!» Più tardi, visitando il campo profughi di Deheisheh, paragona i palestinesi sfollati a Cristo «nato in una stalla» e chiede al mondo «un’ azione decisiva» in loro favore.

Yad Vashem . «In questo luogo della memoria, la mente, il cuore e l’ anima provano un estremo bisogno di silenzio. Silenzio, perché non vi sono parole abbastanza forti per deplorare la terribile tragedia della Shoah»: così parla il papa il giovedì 23 marzo, durante la visita al memoriale della Shoah (Yad Vashem).
Questa visita – con le parole e i gesti che la rendono memorabile – appartiene alla serie maggiore dei passi compiuti da Giovanni Paolo verso Israele, li riassume e forse li supera: non perché qui il papa abbia detto parole più forti che mai (il settembre scorso era arrivato a deplorare i «silenzi» sulla persecuzione degli ebrei), ma perché ha raccolto in un saluto – che ha il valore di un abbraccio – quanto era venuto elaborando in più di vent’anni.
Ricorda «gli amici e vicini ebrei» che vide morire «quando i nazisti occuparono la Polonia» e gli «abissi dell’orrore» che ne seguirono per «milioni di uomini donne bambini». «Noi vogliamo ricordare», ha detto facendo suo il motto di Yad Vashem.
Riformula il recente mea culpa: «Come vescovo di Roma e successore dell’apostolo Pietro, assicuro il popolo ebraico che la Chiesa cattolica, motivata dalla legge evangelica della verità e dell’amore e non da considerazioni politiche, è profondamente rattristata per l’odio, gli atti di persecuzione e le manifestazioni di antisemitismo dirette contro gli ebrei da cristiani, in ogni tempo e in ogni luogo».
E infine l’impegno a fare in modo che «il nostro dolore per la tragedia sofferta dal popolo ebraico nel XX Secolo conduca a un nuovo rapporto tra cristiani ed ebrei», che escluda la stessa possibilità di «sentimenti antiebraici fra i cristiani e di sentimenti anticristiani tra gli ebrei».
Rispondendo a Giovanni Paolo, il premier Barak dà atto al papa di «aver fatto più di ogni altro» per l’avvicinamento della Chiesa all’ebraismo e gli riconosce d’aver «alzato al punto più alto la bandiera della fraternità», con il mea culpa per la persecuzione degli ebrei. Mai un’autorità israeliana aveva detto parole di tanto riconoscimento verso un papa.

Dal Cenacolo al Santo Sepolcro. La visita del papa è stata anche – anzi, innanzitutto – un “pellegrinaggio personale” e “un viaggio spirituale del vescovo di Roma alle origini della nostra fede”. Abbiamo accennato alla visita del giorno 22 alla grotta della natività, a Betlemme e ora vogliamo segnalare la celebrazione del 23 mattina nella Cappella del Cenacolo: era dal 1573 che lì non era consentito celebrare l’Eucarestia. Il 24 Giovanni Paolo celebra a Korazim, sul Monte delle beatitudini, in vista del lago di Tiberiade, davanti a cinquantamila giovani venuti da vari paesi. Lo stesso giorno visita privatamente la chiesa della moltiplicazione dei pani e quella del primato di Pietro a Tabgha, la casa di Pietro a Cafarnao. Il 25 celebra nella basilica dell’Annunciazione a Nazaret. Il pomeriggio del 25 visita la basilica dell’Orto del Getsemani a Gerusalemme. E infine e soprattutto, il 26 mattina celebra nella basilica del Santo Sepolcro, dove torna privatamente a pregare in solitudine, il primo pomeriggio, con il fuori programma più audace dell’intero viaggio.
Alla dimensione ad intra del viaggio appartiene anche l’incontro ecumenico del 25 pomeriggio, presso il patriarcato greco-ortodosso, segnato da questo forte appello per una «unità più piena»: «In Terrasanta, dove i cristiani vivono accanto ai seguaci dell’ ebraismo e dell’ Islam, dove vi sono quasi ogni giorno tensioni e conflitti, è essenziale superare la scandalosa impressione suscitata dai nostri dissensi e dalle nostre controversie».

Spianata della Moschea. Sulla spianata della Moschea il Papa sale la mattina del 26, subito prima della visita al Muro del pianto. Lo riceve il Gran Mufti Sheikh Akram Sabri, la massima autorità islamica della città, che lo ringrazia per la «storica visita» e rivendica Gerusalemme come «capitale dei palestinesi». Il Papa risponde qualcosa che può aiutare la rivendicazione islamica (si sa che il Vaticano considera la Gerusalemme araba «illegalmente occupata» da Israele), ma senza sbilanciarsi: «Gerusalemme è stata sempre venerata da ebrei, cristiani e musulmani. Gerusalemme è la città santa per eccellenza. E’ parte del comune patrimonio delle nostre religioni e di tutta l’umanità».

Al Muro del pianto. Il rabbino Michael Malchior saluta l’ospite rievocando il mea culpa papale: «Le diamo il benvenuto come a colui che viene qui per realizzare l’impegno della Chiesa cattolica a mettere fine alle epoche dell’odio, dell’umiliazione e della persecuzione nei confronti del popolo ebraico». Prima il rabbino in ebraico eppoi il papa in latino leggono il Salmo 121: «Che gioia quando mi dissero: andiamo nella casa del Signore». In quel salmo ci sono anche le parole: «Invocate la pace su Gerusalemme».
Il forte rabbino e il debole papa con il bastone attraversano il piazzale e raggiungono il Muro. Per un minuto Giovanni Paolo resta solo davanti alle grandi pietre. Mormora una preghiera, poi legge a bassa voce da un foglietto. Alza gli occhi al muro e posa quel foglio in una fenditura della muraglia. Il foglio contiene il quarto dei sette mea culpa del 12 marzo, quello riguardante la persecuzione degli ebrei: «Dio dei nostri padri, tu hai scelto Abramo e i suoi discendenti per portare il tuo nome alle genti: noi siamo profondamente addolorati dal comportamento di quanti nel corso della storia hanno fatto soffrire questi tuoi figli, e mentre chiediamo il tuo perdono, ci impegniamo a realizzare un’autentica fraternità con il popolo dell’Alleanza».
Dove piangono gli ebrei è andato a piangere il papa. Non ha chiesto perdono ai fratelli maggiori, ma ha consegnato loro la sua richiesta di perdono a Dio. E infine gli ebrei hanno inteso quel gesto e la fraternità che lo dettava.

Luigi Accattoli
da Il Regno 8/2000

Lascia un commento