Ricordo di mamma Adele

La rivedo che mi dà cose buone da magiare
La mia mamma – Saracini Adele, detta Delina – se ne è andata a 97 anni. “E’ partita serenamente – dice mio fratello Sergio, che l’assisteva – come facendo un sospiro”.
Aveva sempre goduto buona salute, ma da una decina d’anni non camminava e da due era un po’ svanita.
Ero da lei il giorno che compiva 97 anni e faticava a riconoscermi. La salutavo, le dicevo che ero andato a trovarla e lei mi chiedeva “che lavoro fai”, rispondevo “il giornalista” e lei pronta: “Io ho un figlio giornalista, che sta a Roma”. Le dicevo “mamma, sono io” e mi guardava perplessa.
Ricordava ancora le cose lontane, ma dimenticava quello che stava dicendo e un poco – mi avvedo – sto facendo la stessa cosa con la memoria di lei, in queste prime settimane dopo la sua partenza. Sempre più spesso la rivedo com’era un tempo e non nell’immagine tribolata degli ultimi tempi.
La ricordo  con una cesta di vimini in testa, che porta il mangiare pei campi, agli uomini che mietono, o arano, o falciano il fieno. E io piccolino accanto a lei, che porto il brocchetto dell’acqua, o un fiasco di vino.

La povertà era grande
in quell’Italia contadina
Oppure la rivedo con una cesta a quel modo, in bilico sulla testa, con dentro polli e  conigli legati alle gambe, che va al mercato. Faceva anche otto chilometri, con quel peso e i figli dietro, per andare a piedi fino a Recanati, dalla campagna dove eravamo e dove ha finito i suoi giorni. Gli ultimi tempi non sapeva più dove si trovasse, e ogni tanto diceva “portami a casa mia”.
Per ricordare la fatica della vita – e lamentarsene, quando le gambe non la portavano più – tornava a raccontare quelle camminate: “Tu lo sai che cos’era!” Non lo diceva per fare la vittima, ma per segnalare la forza di cui aveva goduto, per tanti anni. E ci insisteva per il timore che nessuno ormai capisse quanto aveva combattuto, lungo la vita.
La rivedo che mi consola, piccolissimo e piangente perché la maestra aveva detto di portare una gomma e io non l’avevo. La povertà era grande, in quell’Italia contadina, ancora senza luce elettrica nelle campagne marchigiane, a cavallo degli anni quaranta e cinquanta. Ed eccola festosa che porta a ognuno dei figli una caramella, al rientro dal mercato.
Alla messa si andava tutti insieme e anche lì era una festa se ci comprava un biscotto. Lo stesso gesto bello di chi dà ai figli una cosa buona – che Gesù loda in Luca 11 – glielo vedo compiere le cento volte, tenendo in mano un fico sbucciato, o una mela , o un grappolo d’uva, o la pizza appena cotta nel forno.
Bisognava accontentarsi di una piccola fetta di salame come merenda e, perché bastasse, ci dovevi mangiare insieme un’intera fetta di pane. “Mangiaci il pane” era la raccomandazione abituale a tavola.
Con quella fame, si dovevano spolpare con grande cura i piccoli ossi del pollo e del coniglio. Maestro in questo era il babbo, che dal femore del lepre – lui era cacciatore – ricavava un bocchino per fumare le sigarette.
I miei figli si divertono a vedere come ripulisco gli ossetti di un piccione, quando capita. Io so da dove viene la mia sobrietà.
La ricordo – la mamma – che viene a Firenze, nel maggio del 1970, al mio giuramento di recluta, nel battaglione dei Lupi di Toscana. Le piacque la parata. Ancora di più il pranzo al sacco, al piazzale Michelangelo.

Il lunedì andava a scuola
e il martedì badava alle pecore
Lei non ha mai guidato nulla e non andava neanche in bicicletta. Ma le piaceva viaggiare, quel poco che ha potuto farlo. Quando venne a Roma per il mio matrimonio, nel 1973, era raggiante e rientrata a casa mi diceva al telefono che quel viaggio di più non avrebbe potuto piacerle: “Sono tornata bella contenta e soddisfatta”. Nel suo dialetto “bella contenta” voleva dire “del tutto contenta”. Tipo: “metti questa maglia che stai bello caldo”.
Della donna che fu e della vita che fece prima che io la vedessi so soltanto quel poco che raccontava. Ma è un poco che una volta fu tantissimo, nel mio bagaglio e forse ha ancora un peso decisivo nel mio giudizio delle cose.
Sapeva leggere e scrivere, quel poco che le serviva, ma con sicurezza. Aveva imparato frequentando a giorni alterni le prime tre classi elementari: un giorno con le pecore e un giorno a scuola, quando alle pecore badava un cuginetto, il quale a scuola ci andava il giorno dopo. Alla sera, in casa, si scambiavano i compiti.
Ha attraversato il secolo senza prestargli attenzione, vivendo le guerre e i cambiamenti politici e le novità d’ogni genere con la distrazione dei semplici, che passavano la vita in mezzo ai campi e avevano sempre qualcosa di più urgente da fare, piuttosto che stare a sentire le chiacchiere di chi tornava dal militare, o di chi passava a vendere il sapone e a comprare le uova, o di chi aveva imparato ad ascoltare la radio a cuffia. Il babbo era tra costoro e già a quel modo ascoltava Radio Londra durante la guerra e le raccontava i fatti. Lei ascoltava con rispetto, ma senza partecipazione, come fossero cose che non la riguardavano veramente.
Ricordo che la morte di Stalin (1953), “è morto Baffone” e quella di De Gasperi (1954), “quello sì che era un galantuomo”, furono commentate la prima volta – ma distaccatamente – con il pollivendolo che passava due volte la settimana.

Quando venne a Recanati
la principessa Maria Josè
Quelle erano notizie da uomini. Lei, come donna, era stata sfiorata dalla grande storia solo una volta, quando la principessa Maria Josè e il principe Umberto erano venuti a Recanati e si erano affacciati al balcone del comune. La mia mamma era là sotto, con un cappello di paglia nuovo e un foulard tricolore. Che anno sarà stato? Nella storia popolare non ci sono date, ma ragguagli fattuali. E’ stato dopo la spagnola (1918-1920), o nell’anno del nevone (1929). Oppure: era l’anno dell’asiatica (1957), o l’anno santo.
Se quella visita dei principi di Casa Savoia a Recanati avvenne nel 1930 (è l’anno del matrimonio di Maria Josè con Umberto), la mia mamma era sui 23 anni: che darei per vederla a quell’età! Mi incanto a pensare come sarà stata bella, mentre gridava “viva l’Italia” sotto il sole.
Aveva conservato un attaccamento emotivo a Maria Josè, sua coetanea, che è morta tre anni prima di lei. Raccontava – un tempo – d’avere gli stessi anni dell’ultima regina d’Italia, ma ultimamente, quando la sua memoria si era arresa, se le dicevo che la televisione stava parlando di “Maria Josè, che ha 93 anni come voi”, mi domandava incredula: “Io ho tutti quegli anni?”
Di anni santi, vivendo tanto, ne ha visti sei, tra ordinari (1925, 1950, 1975, 2000) e straordinari (1933 e 1983). Ma quando diceva “l’anno santo” intendeva quello del 1950, occasione di un memorabile pellegrinaggio, in vista del quale il babbo aveva costruito una cassetta di legno, che doveva servire come valigia e lei aveva fatto venire in casa la nipote Elena alla quale aveva affidato i figli più piccoli. Tra i quali ero io, che avevo sei anni e ancora mi vedo in giro per il campo – con quella cugina – a raccogliere meloni e angurie.
Raccontava d’aver visto le catacombe e di aver fatto la Scala santa, ma di non essere voluta salire sulla cupola di San Pietro, dove invece era andato il babbo, entrando “dentro la palla”. Cosa che non si poteva fare più già nel 1966, quando io salii la prima volta sulla cupola.

Era sveglia
e si interessava a tutto
Migliorati i trasporti, a Roma è tornata per gli anni santi del 1975 e del 1983 e io ero là, le due volte, a guidarla alle catacombe e persino alla Sistina. Era sveglia e si interessava a tutto. Continuava a dire: “Che testa che hai a ricordarti tutte queste cose!”
Ma il vero luogo del suo pellegrinaggio era Loreto, dov’era abituata ad andare a piedi, da ragazza e dove l’attirava la presenza di una sorella suora e dove noi figli abbiamo continuato a portarla, in automobile, finchè è stata in grado di scendere le scale di casa.
Perse il marito quando aveva 54 anni ed è vissuta altri 43 anni da sola. Gran peso della famiglia, nella prima parte della vita, con sette figli da sfamare e vestire. E grande solitudine dopo, ma affrontata con la stessa grinta con cui aveva combattuto la battaglia della fame e dei vestiti.
Perché ho raccontato la storia della mamma?
Perché era la mia.
Perché è morta da cristiana, dopo una lunga vita cristiana, con i sacramenti avuti in un momento di vera lucidità, quasi un regalo inaspettato che le era arrivato con la febbre che l’ha tormentata per due settimane.
Perché cristianamente è stata assistita in casa, per un decennio, da mio fratello Sergio e da mia cognata Anna.
Perché è stata vegliata, in casa, con i parenti e il vicinato di un tempo, oggi disperso, ma allertato grazie ai telefonini e ai manifesti. Un nugolo di gente semplice come lei e cristiana come lei.
Perché sono convinto che ogni vita meriti d’essere narrata. Anche la più nascosta.
Lei – Adele Saracini Accattoli – non aveva mai visto il suo nome stampato e molto si sarebbe meravigliata di vedere le partecipazioni al lutto che sono apparse sul Corriere della Sera di sabato 7 agosto.
Ancora di più, probabilmente, si sarebbe meravigliata a leggere questo mio ricordo, ma forse non le sarebbe dispiaciuto, perché dice la sua forza: sapeva di averla e ne era grata.
Questo ricordo completa un’altra puntata di questa rubrica, che le avevo dedicato nell’aprile del 2001, riferendo la sua lamentazione sul fatto che pregava, ma non era esaudita: “Fammi camminare o fammi morire”.
Nonostante la ribellione, simile a quella di Giobbe, ha continuato a pregare con noi figli, quando prendevamo l’iniziativa. Mi auguro di avere la sua perseveranza.

In lei vedo ogni mamma
che soccorre i figli

L’immagine che vorrei fissare di lei, come in una foto,  è quella che ho detto all’inizio, quando la descrivevo che dava cose buone ai figli. Ognuno – in quell’immagine – può ritrovare la propria mamma. Quando sono in pace, la cerco in quell’atteggiamento. E la riamo in tanti gesti che un poco avevo dimenticato.
Eccola che mi dà una fetta di pane con sopra lo zucchero.
Tutta felice mi mette davanti un piatto di riso, un giorno che avevo mal di pancia e non ero potuto andare a un pranzo di nozze.
Infila nella mia tasca una moneta, di nascosto da tutti, perché possa comprare quella gomma che non avevo e per la quale piangevo.
Viene verso di me con un uovo appena raccolto e me lo dà avendoci fatto un piccolo buco perché io lo possa bere, caldo com’è.
Pulisce sul suo grembiule un cetriolo e me lo dà a magiare, mentre innaffiamo l’orto.
In lei vedo le mamme che danno cose buone ai figli. E altro non cerco.

Luigi Accattoli
Da Il Regno 16/2004

Commento

Lascia un commento