IL CRISTIANO AFFERMA LA SUA IDENTITA’ NEL DIALOGO CON LA COMUNITA’ DEGLI UOMINI

Relazione di Luigi Accattoli
al Convegno nazionale- Assemblea generale
delle Comunità di vita cristiana sul tema
LAICI IN DIALOGO. L’ORIGINALITA’ CRISTIANA

Frascati domenica 29 aprile 2007

Parte prima

La mia opzione – come appare dal titolo che ho dato alla relazione – è per una identità dialogante. Come a individuare una via di mezzo tra chi – poniamo – dialoghi senza cura dell’identità e chi si mostri geloso dell’identità ma trascuri il dialogo.
Già con la scelta di questo linguaggio uno mostra di ispirarsi al Concilio Vaticano II e a Paolo VI, al dialogo con tutta l’umanità di Giovanni Paolo II, ma anche a Benedetto XVI che da cardinale dialogava con Habermas, Adornato, Pera, Flores d’Arcais e da papa ha ricevuto Hans Kueng e Oriana Fallaci.
Ma chiarisco subito che io intendo riferirmi – come a fonte – anche al cardinale Camillo Ruini, che una volta – era il 2 dicembre del 2005 e palava al VII Forum del Progetto culturale della Chiesa italiana – avanzò una “proposta” sdrammatizzante alla controparte “laica” in merito alla polemica sugli interventi della Chiesa nella vita pubblica, proposta che potremmo definire come “dialogo e competizione nella reciproca accettazione democratica”: “Affidarsi al libero confronto delle idee, rispettandone gli esiti democratici pure quando non possiamo condividerli. I fautori del relativismo continueranno a pensare che in certi casi siano stati violati i ‘diritti di libertà’, mentre i sostenitori di un approccio collegato all’essere dell’uomo continueranno a ritenere che in altri casi siano stati violati diritti fondati sulla natura, ma non vi sarà motivo di accusarsi reciprocamente di oltranzismo antidemocratico”.
In coda a questa premessa, per fissare in un’immagine quanto detto fino a qui, citerò il solo titolo di un volume su Benedetto Calati appena pubblicato dalla EDB, scritto da Grazia Paris, che è intitolato “Uomo di Dio / amico degli uomini”. Ecco, quello sarebbe il mio ideale.
Tratterò il tema narrativamente, riferendo della mia esperienza di cristiano che lavora da più di trent’anni nei giornali laici. Per questa via proverò a precisare la mia posizione. Dedicherò poi il secondo momento della conversazione alle questioni di attualità: applicherò cioè la mia regola di comportamento all’attuale dibattito italiano sulla laicità, sulla presunta interferenza della Chiesa nella lotta politica e sulla responsabilità dei politici cattolici.
Parto da una battuta del padre Livio di Radio Maria: “Quando sfoglio al mattino la Repubblica e il Corriere della Sera a ogni pagina che giro sento il sibilo del serpente”. Eppure io in quei due giornali ho vissuto e vivo la mia intera attività professionale. Si direbbe dunque che il padre Livio sia per l’identità mentre io sarei per il dialogo.
Altro spunto descrittivo. Pippo Corigliano, il portavoce dell’Opus Dei in Italia, quand’eravamo ambedue giovani mi chiedeva “Spiegami come fa un cristiano a lavorare alla Repubblica”. Ed ecco Joaquin Navarro-Valls, anche lui dell’Opus Dei, che oggi collabora alla Repubblica e mi dice: “So bene che vi sono amici che vorrebbero che i cristiani stessero inquadrati tutti in un posto e vestiti possibilmente tutti allo stesso modo”.
Assegneremo dunque Pippo Corigliano alla squadra dell’identità e Navarro-Valls a quella del dialogo? Dobbiamo stare noi cristiani tutti da una parte, o dobbiamo mescolarci come lievito alla pasta? Dobbiamo difendere a ogni costo il crocifisso nei luoghi pubblici, muovere ogni possibile opposizione all’Islam, fare quadrato contro le coppie di fatto; o dovremmo andare incontro e venire a patti, cercare la convivenza e la collaborazione con ogni diverso?
Vorrei sparigliare i giochi proponendo – sulla base della mia esperienza – un atteggiamento che sia insieme libero e fedele, geloso dell’identità e dei simboli, ma insieme disponibile ad abitare ogni ambiente e a convivere con ogni interlocutore.
Faccio subito un esempio di questo sparigliamento: il cristiano dovrà allearsi con i teocon – tipo Oriana Fallaci, o Giuliano Ferrara, o Marcello Pera – che difendono l’identità cristiana senza essere cristiani, o devono rifuggirli e cercare magari un’alleanza pragmatica con chi rifiuta le radici cristiane ma compie opzioni sociali naturaliter cristiane, come i sindacati dei lavoratori o il movimento per la pace?
Io dico che possiamo stare con gli uni e con gli altri! Possiamo allearci con i teocon per difendere il crocifisso e con i pacifisti per predicare la pace. Ma in nessun caso – io credo – dovrebbe esserci lecito il nascondimento, a meno che non ci veniamo a trovare in una situazione di persecuzione.
Oggi in Italia si parla abusivamente di persecuzione dei cristiani. Magari sarà dileggio, ma non è persecuzione. La tentazione del nascondimento la vedo invece crescente, lungo i decenni della mia esperienza professionale, tant’è che negli ultimi anni ho deciso – come risposta mia personale alla disputa sul crocifisso nei luoghi pubblici – di appendere un crocifisso alla parete dietro la mia scrivania al Corriere della Sera.
Io sono per la presenza del crocifisso tutte le volte che essa è convintamente richiesta dalla maggioranza dei viventi in quel luogo. Sono contrario a che siano i cristiani stessi a farsi promotori della rimozione. Sono per l’appello alla regola della maggioranza nelle decisioni in materia. Vorrei che i singoli cristiani si impegnassero nell’opera di convincimento di colleghi e amici quando si deve prendere quella decisione.
Il modello per l’atteggiamento fedele e libero che sto proponendo io lo vedo in Giovanni Paolo II: egli ebbe a lodare pubblicamente il movimento per la pace e a felicitarsi con i non credenti che si univano alle giornate di “digiuno e di preghiera” che indiceva a tale scopo; allo stesso modo era un tenace avvocato delle organizzazioni sindacali e spronava – per esempio – i sindacati italiani, che trovava troppo moderati, a battersi per la piena occupazione; dunque non aveva alcuna difficoltà a imparentare la sua azione a quella dei liberals e della sinistra; ma contemporaneamente svolgeva una predicazione altrettanto tenace sui temi “eticamente sensibili” e si mostrava riconoscente a chi faceva valere sul piano politico quelle preoccupazioni. Non ebbe remore a lodare il presidente Bush per le posizioni sull’aborto, dopo averlo tanto criticato per quelle sulla guerra. Si appoggiava alla politica francese per il Medio Oriente, ma era severissimo riguardo alla posizione del presidente Chirac contraria all’inserimento della menzione delle “radici cristiane” nella costituzione europea.
Termino la prima parte della mia parlata con l’immagine di Giovanni Paolo II appoggiato al bastone che fa visita al nostro Parlamento riunito in seduta comune a Montecitorio il 14 novembre 2002: egli parla di pace, giustizia e gesto di clemenza nelle carceri e gli batte le mani la sinistra; poi parla di vita, famiglia, libertà educativa e gli applausi vengono dalla destra. Ebbene è fedele e libero e spariglia i giochi chi le mani le batte sempre.

Parte seconda

Ad apertura della seconda parte della mia relazione vorrei richiamare alcuni testi del Vaticano II che contengono indicazioni illuminanti per la nostra materia. Il primo riguarda la legittimità del pluralismo politico dei credenti, che non solo è di fatto realizzato nella vita delle comunità cattoliche e di fatto normalmente accettato dalle autorità della Chiesa, ma è anche formalmente affermato nei documenti conciliari.
Leggiamo per esempio al paragrafo 75 della Gaudium et Spes: “In ciò che concerne l’organizzazione delle cose terrene, i cristiani devono ammettere la legittima molteplicità e diversità delle opzioni temporali e rispettare i cittadini che, anche in gruppo, difendono in maniera onesta il loro punto di vista”.
Ma insieme al legittimo pluralismo, il Concilio afferma anche il diritto della Chiesa a proporre il proprio insegnamento. Ecco un brano del paragrafo 76 della stessa Gaudium et Spes che potrebbe essere usato per respingere l’accusa di interferenza in politica che oggi viene mossa ai nostri vescovi o allo stesso Benedetto XVI: “Sempre e dovunque, e con vera libertà, è diritto della Chiesa predicare la fede e insegnare la propria dottrina sociale, esercitare senza ostacoli la propria missione tra gli uomini e dare il proprio giudizio morale, anche su cose che riguardano l’ordine politico, quando ciò sia richiesto dai diritti fondamentali della persona e dalla salvezza delle anime”.
In un altro paragrafo della Lumen Gentium, il 36, troviamo affermato un diritto dei laici impegnati in politica che è ora di bruciante attualità, nel mezzo della disputa su Dico e famiglia che tanto ci occupa in questi mesi, e si tratta del diritto dei politici cattolici a esercitare la loro specifica responsabilità in base al principio dell’autonomia delle realtà terrene: “Come infatti si deve riconoscere che la città terrena, legittimamente dedicata alle cure secolari, è retta da propri principi, così a ragione è rigettata l’infausta dottrina che pretende di costruire la società senza alcuna considerazione per la religione e impugna ed elimina la libertà religiosa dei cittadini”.
Autonomia dunque senza negazione del momento religioso e del suo apporto alla convivenza civile. Appare ben chiaro come il magistero conciliare ci inviti alla difesa dell’autonomia della politica senza farne una realtà a sé, incomunicabile e nemica rispetto alla vocazione religiosa dell’uomo. Un altro brano dello stesso paragrafo ci aiuta a guardare con serenità ai rapporti interni alla comunità cattolica dove pure va difesa la responsabile autonomia dei politici: “I pastori considerino attentamente e con paterno affetto in Cristo le iniziative, le richieste e i desideri proposti dai laici e, infine, rispettino e riconoscano quella giusta libertà che a tutti compete nella città terrestre”.
Venendo ora all’applicazione di questi principi all’attuale dibattito italiano su fede e politica dirò qualcosa del referendum sulla fecondazione assistita, che si tenne nella primavera del 2005 e poi qualcosa anche sulla tempesta di queste settimane riguardante il disegno di legge sulle convivenze, denominato Dico.
Al referendum sulla legge 40 ho scelto il “non voto”. La mia scelta è venuta dunque a coincidere con l’indicazione dell’episcopato che era motivata da un’intenzione di prudenza su una frontiera difficile: la legge 40 non è “nostra” ed ha aspetti che non condividiamo, ma essa ha posto un freno all’arbitrario “fai da te” ed appena entrata in vigore, è bene dunque attendere che sia messa alla prova prima di valutare un’eventuale sua revisione in qualsiasi direzione.
Ho scelto come voleva l’episcopato ma avrei preferito che non ci fosse un’indicazione magisteriale che arrivava a indicare addirittura lo strumento tecnico per l’affermazione di una scelta “politica”. Allora come oggi all’episcopato io chiedo il richiamo ai principi, l’indicazione valoriale Richiamo e indicazione certamente concreti, ma restando sul piano dei valori, senza scendere su quello politico e tecnico. Per intenderci: va difesa la vita e al momento ciò comporta che si difenda questa legge, o meglio la linea di compromesso su cui ci si è attestati con la sua approvazione. Se poi ciò si debba fare con un ritocco in Parlamento, o andando al referendum, scegliendo in esso il “non voto” o votando “no”, ecco tutto questo dovrebbe essere lasciato alla responsabile autonomia dei cattolici impegnati in politica e degli elettori cattolici.
Lo stesso mi sento di affermare oggi sui Dico. “Difendo Rosy Bindi ma non difendo i Dico” ho scritto all’inizio di questo mese nel mio blog, scatenando un gran dibattito tra i visitatori. Difendo cioè la sua responsabilità di ministro di valutare laicamente e autonomamente le esigenze del bene comune, secondo una conoscenza delle questioni e una percezione delle opportunità politiche che solo lei può avere, ma rivendico insieme la mia responsabilità di giornalista e di padre di famiglia nei confronti della spinosa e grave materia delle convivenze.
Mi era piaciuta l’idea formulata nel programma dell’Unione di riconoscere i diritti dei conviventi senza creare l’istituto delle convivenze. Ma poi si è andati a un disegno di legge del Governo che forse di fatto quelle convivenze le riconosce: era necessario questo passo? Magari un parlamentare dell’Ulivo dirà che era “politicamente” necessario e io rispetto questa opinione, in forza della responsabilità propria del politico che si esercita nella mediazione. Ma io non sono un politico e da giornalista dico che in tale delicatissima materia sarebbe stato preferibile – direi anzi obbligante – che si cercasse una più larga convergenza. Il presidente Romano Prodi oggi afferma che in materia di legge elettorale una maggioranza non può fare e disfare senza tener conto dell’opposizione e allora io dico: il destino della famiglia e dei conviventi non è altrettanto importante?
Magari poteva risultare che anche andando a una larga intesa si arrivasse a formulare una legge che “comunque” un vescovo – come ogni cittadino timoroso dell’indebolimento della famiglia – avrebbe giudicato “inaccettabile e pericolosa”, ma almeno in qual caso sarebbe risultato lampante lo stato di necessità politica in cui quella soluzione era stata adottata. Ora invece si può dire che ogni tentativo per trovare un’alternativa sia stato fatto? Io credo di no, non essendo stata esperita la via dell’intesa con l’opposizione. Una via che a mio parere si può e si deve ancora tentare nella Commissione Giustizia del Senato, dove si stanno discutendo le dieci proposte giacenti e in ogni sede.
La mia conclusione è un invito a una lettura positiva e sapienziale della situazione ecclesial-politica che stiamo vivendo. Il passaggio dall’unità politica dei cattolici nella Dc all’attuale pluralismo conclamato è recente – appena un tredici-quattordici anni – ed è avvenuto, mi pare, senza grandi traumi e senza che nessuno si sia arrogato la pretesa di una rappresentanza globale dei cattolici. Anche da parte dei pastori vi è stata saggezza e nessuno di loro mette in discussione la legittimità della presenza cattolica in ambedue gli schieramenti.
Occorre crescere in questa esperienza, acquisendo una sempre maggiore capacità di penetrazione a mo’ di lievito negli schieramenti in cui si opera e – via via – una migliore attitudine al confronto sulle scelte politiche all’interno alla comunità ecclesiale.
I papi – da Paolo VI a oggi – ci esortano a realizzare una migliore e maggiore presenza cristiana sulla scena pubblica, anche politica. Di volta in volta gli interpreti e gli esecutori di tale richiamo propongono aggiustamenti e formule che ci possono piacere o anche dispiacere, ma la linea è coerente e chiara, da Benelli e Bartoletti a Ballestrero e Caporello, a Poletti e Ruini, a Bertone e Bagnasco.
Un giorno la distinzione dei ruoli tra pastori e laici impegnati in politica sarà più chiara. Possiamo affrettarne la chiarificazione assumendo senza timidezze e per intero la nostra responsabilità laicale e aiutando – se necessario – la Gerarchia a fare un passo indietro rispetto all’attuale frequente pronunciamento. Ciò sarà possibile quando il passo indietro non vorrà dire latitanza, ma spazio al protagonismo laicale.

Luigi Accattoli

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