Marta e Marco dal Ciad alla periferia di Milano

Grazie di aver voluto vivere come noi. Grazie di aver abitato nelle nostre case, di aver mandato i vostri figli a scuola con i nostri, grazie di essere venuta con me al dispensario per le visite prenatali”: così una mamma africana morente di Aids saluta Marta Ragaini, missionaria con il marito Marco in Ciad per sei anni (1995-2001) e oggi collaboratori di un parroco nella periferia milanese.
Le parole di quella mamma sono “il dono più prezioso” che questa coppia ha riportato dagli anni passati in missione, insieme a un “mandato” ricevuto durante la celebrazione di addio nella chiesa parrocchiale di Sao, a N’Djamena, capitale del Ciad. Dopo la predica salutano con riconoscenza i cristiani che li hanno “accolti e fatti crescere nella fede” e in risposta va al microfono il responsabile di una comunità di base che li ringrazia «non tanto per quello che avete fatto, ma per il modo in cui vi siete inseriti tra noi, condividendo la nostra vita». E fino qui siamo sulla stessa corda della mamma morente, ma al ringraziamento segue un inaspettato “mandato di ritorno”: «Sappiamo che siete venuti nel Ciad mandati dalla vostra Chiesa di Milano e portando le ricchezze dei cristiani del vostro paese. Ora vorremmo che il vostro rientro in Italia avvenisse con un invio della Chiesa di N’Djamena: andate a portare alla vostra gente le belle cose che il Vangelo ha operato in mezzo a noi».
“Per noi – dicono oggi Marta e Marco – quel saluto è stato determinante per aiutarci a concepire il rientro non solo come un ritorno a casa, ma come una nuova partenza e un nuovo mandato missionario”. E infatti la loro avventura di famiglia in missione non è cessata con il rimpatrio.
A N’Djamena erano arrivati nel gennaio 1995, in collegamento con il “Centro fraternità missionarie di Piombino”: un gruppo spontaneo che coordina le coppie missionarie che partono da varie città italiane. Laggiù incontrano don Aldo Farina, prete milanese con il quale avevano già abbozzato – durante un suo rientro in Italia – un “progetto di vita”: un appunto scritto sulle modalità della loro presenza in missione, tendente alla formazione di una piccola ma reale “fraternità corresponsabile”, che “spende tempo nella preghiera, nella lectio e nel confronto comunitari” e che “vive sobriamente in mezzo alla gente del posto”, facendosi accogliere senza la fretta dei risultati.
Dopo alcuni mesi di ambientazione la “fraternità” prende la responsabilità di una parrocchia nascente e negli anni successivi si allarga, con l’arrivo di un’altra coppia – Emanuela e Paolo Simone, entrambi medici, con il figlio Giovanni – e di due preti. Cresce anche la loro famiglia, con la nascita di Irene (1996) e di Luca (1998). Al momento del rientro in Italia Marta sarà incinta di un terzo figlio, Francesco (2001).
La “fraternità” irrobustita dai nuovi arrivi si prende cura di una seconda parrocchia confinante con la prima. Paolo ed Emanuela svolgono attività medico-professionali con i bambini e i malati di Aids. Così i due descrivono l’esperienza lì maturata: “Le scelte individuali si fanno stile comunitario; le sensibilità maschili e femminili, di celibi e di sposati, di laici e di preti, non restano ‘pallini’ personali ma danno maggiore completezza alla riflessione”.
Tornati a Milano i due custodiscono nel cuore “un’esperienza di Chiesa viva, coraggiosa, fresca”, che vorrebbero trasmettere alla comunità di provenienza. Ne parlano al vicario generale della diocesi, Giovanni Giudici – ora vescovo di Pavia – che li aveva visitati più volte in Ciad e si dicono disponibili a continuare un’esperienza di vita comune a servizio di una parrocchia. Il vicario propone loro la parrocchia della Pentecoste, nel quartiere Quarto Oggiaro, alla periferia nord-ovest di Milano, dove il parroco sta cercando una famiglia con cui iniziare un’esperienza di vita comunitaria. Dal settembre 2001 abitano nella canonica di quella piccola parrocchia, provvisoriamente ospitata all’interno di un ex asilo comunale preso in affitto. Fanno vita e lavori normali: lui in una casa editrice, lei in una cooperativa sociale. Si occupano dei figli e per quanto possibile tengono “la porta aperta” alle persone che passano in parrocchia. Con il parroco si vedono al mattino per le Lodi e la sera per la cena. Una volta alla settimana si trovano per la lectio divina e un sabato mattina al mese per un incontro “più approfondito”. In parrocchia si occupano delle famiglie che chiedono il battesimo per i figli.
Tra l’Africa e la periferia di Milano la loro “vita comune con dei preti” dura ormai da 14 anni. “Il frutto che ci pare di cogliere – confidano all’intervistatore – è la scoperta di come queste due vocazioni, matrimoniale e sacerdotale, possano arricchirsi a vicenda, senza confusioni e clericalizzazioni. Sempre più cogliamo quanti luoghi di sequela e di annuncio vi siano nella nostra vita quotidiana di coppia, di famiglia, di cittadini. In questo ci sentiamo aiutati dall’esperienza africana di piccole comunità cristiane che non sono preoccupate di essere minoranza, non cedono al lamento o allo scoraggiamento per le difficoltà in cui vivono ma cercano di farsi ‘lievito nella pasta’. Ci sembra in questo modo di onorare, almeno un poco, il mandato ricevuto a N’Djamena: di portare in Italia qualcosa di quella ‘Chiesa-famiglia’ che è l’immagine scelta dal Sinodo Africano del 1994 per definire il volto della comunità cristiana”.

(Ottobre 2009)

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