Domenico Del Rio: “Ora Janja è da te, Signore amala più di me”

Muore una persona cara (la persona più cara che si ha) e un vento di dolore ti invade dentro. Anche il cuore ha la sua morte. Oh, certo, nel mondo ci sono dolori anche più grandi, sofferenze più atroci, solitudini più strazianti. Ecco, allora, diciamo che il lungo dolore della sua sofferenza fisica è stato uno della immensa moltitudine dei dolori del mondo. E in quella moltitudine adesso c’è anche il dolore di chi, teneramente accanto, l’ha contemplata a lungo mentre lentamente, dolcemente, serenamente, andava scivolando in Dio.
“Si muore sempre come un fanciullo”, dice il profeta Isaia. E il sorriso del fanciullo è fiorito per tutti sul suo volto di dolore fino al momento estremo, e la tenerezza e la mansuetudine dell’agnello.
Anche per questo, ora, io posso parlarti, Signore? Tu hai visto la sua paziente agonia (lei ha sofferto più a lungo di te sulla croce). Ti abbiamo pregato, Signore, e tu non hai voluto ascoltarci. Anche noi ti chiedevamo di tenere lontano questo calice.
Non ci hai esaudito, Signore. Pazienza, pazienza!
Forse perché anche per lei, in una partecipazione di redenzione, avvenisse quello che è accaduto per te qui sulla terra, senza che il Padre ascoltasse: agonia nel Getsemani e morte sulla croce. Ma io, lo so, ora non oso, non sono degno di gridare: “Dio mio, Dio mio, perché ci hai abbandonato?”
Ma posso farti una raccomandazione, Signore? Lei era la persona che più amavo. Ora, lei è da te. Ora tocca a te amarla. Io sono triste, Signore, ma ho fiducia perché so che tu puoi amarla anche più di me.
Domenico Del Rio

Venerdì 1° settembre 2000 c’era riunita a Roma – nella chiesa dei Santi Gioacchino e Anna al Tuscolano – una piccola folla familiare: i parenti e gli amici di Janja Raguz, di origine croato-erzegovina, sposa del giornalista Domenico Del Rio. Alla fine della celebrazione, il parroco ha detto che avrebbe letto una preghiera scritta da Domenico, ma che lui non aveva la forza di pronunciare. E’ la preghiera che riportiamo qui accanto.
Ero con la mia sposa tra quei pochi, perché amico da più di vent’anni di Domenico e Janja. La preghiera mi parve bella, davvero cristiana e – dopo la messa – andando ad abbracciare Domenico gliene chiesi una copia. Mi disse: la trovi sulla “Stampa” di oggi.
E sulla “Stampa” (una delle testate alle quali Domenico allora collaborava) l’ho trovata, a pagina 22, con il titoletto “Una preghiera” e un distico che annunciava la morte di Janja e l’”abbraccio” a Domenico dei colleghi del quotidiano.
Ora non parlerò della preghiera, che basta leggerla per capirla tutta. Ma voglio dire qualcosa del semplice coraggio che ha avuto Domenico di pubblicarla su un giornale laico.
Mi sono ricordato di una circostanza simile, in cui Domenico aveva osato parlare della morte su un altro quotidiano, la “Repubblica”, in occasione della partenza di due comuni amici una decina di anni fa. Propose al direttore Eugenio Scalfari quella sua “meditazione” in morte dei due e Scalfari gliela pubblicò.
Sono stato collega di Domenico a “Repubblica” per sei anni. Ho scritto con lui un libro a quattro mani sul Papa (“Wojtyla il nuovo Mosè”, Mondadori 1988). E’ stato recensore di miei libri e io di suoi. Era padrino di uno dei miei figli. Vicino a morire (se ne è andato tre anni dopo la morte di Janja)  mi affidò il compito di riferire a Giovanni Paolo II un suo “ringraziamento” per l’aiuto a credere che gli era venuto dalla testimonianza di fede del papa (vedi nella pagina PREFAZIONI E CAPITOLI elencata sotto la mia foto la mia introduzione al suo volume Karol il grande, Paoline 2003). Egli era dunque per me come un fratello. So l’importanza che ha avuto il suo lavoro di cronista e commentatore dei fatti di fede sui giornali. Ma oso affermare che quella meditazione sulla morte e questa ultima preghiera per la sposa sono i suoi testi migliori: quelli che ci danno per intero l’anima del cristiano e la l’esperienza del giornalista.
Voglio anche dire una parola a ricordo della dolce Janja. Sono stato tante volte a casa sua e qualche volta l’ho avuta a casa mia, sempre in compagnia di Domenico. Era di spirito vivace e critico. Cristiana semplice e seria, non si impressionava per nessun “evento” religioso esteriore con il quale eravamo alle prese noi due colleghi giornalisti. E del quale magari parlavamo con qualche esclamazione. Andava – con una facilità che spesso mi colpisce nelle donne – al cuore delle questioni e solo quello l’interessava. Questa facilità ho sentito che manteneva nel turbamento della malattia.
Forse Domenico ha potuto fare tanta strada verso l’essenziale, in questa difficile impresa di parlare di Dio sui giornali, anche per il sostegno – direi quasi il pungolo – che gli veniva da lei. Ed è stato bello vedere che la sua morte non l’ha bloccato. Che nel nome di lei questo caro collega è riuscito ad affidare a un giornale la sua preghiera più intima e più impegnativa.

[Testo pubblicato dalla rivista Eco di San Gabriele nell’ottobre 2000, aggiornato nell’ottobre 2009]

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