Agostino Marchetto quand’era un “vescovo in malattia”

Agostino Marchetto è vicentino, ha 69 anni ed è segretario del Consiglio vaticano per i Migranti e gli Itineranti. E’ divenuto famoso per due ragioni apparentemente divergenti: perché difende a spada tratta i diritti dei migranti e perché – sempre di sciabola e di fioretto – combatte contro “l’ermeneutica della discontinuità” applicata al Vaticano II: cioè contro chi interpreta quel Concilio come marcante uno stacco netto rispetto alla “tradizione cattolica”. A chi mi chiede come mai una volta egli appaia di sinistra e l’altra di destra, io dico che è un uomo libero da ogni “correttezza” e che quella libertà gli è venuta dall’esperienza della malattia. Ora sta bene e la salute l’assiste nelle molte battaglie, ma tre lustri addietro, quand’era nunzio, sperimentò una grave malattia di cui così parla in un libretto intitolato Nel tunnel della speranza. La chemioterapia antitumorale (Edizioni Camilliane, Torino 1997, pp. 62):

La chemioterapia non può separarci dall’amore di Dio. Te lo auguro, amico lettore, se a tale trattamento dovessi sottoporti. Che esso, anzi, ti giovi non solo per il corpo ma anche per lo spirito (…)
Uno dei risvolti positivi della malattia può essere il dono di uno sguardo nuovo e più profondo su persone e cose, che definirei quasi contemplativo (per cui “osservo con amore”), atto a riconciliare con la vita e a far scoprire in noi una lunghezza d’onda ammirativa verso il creato e l’opera delle mani dell’uomo. In una parola si scopre, per un po’ almeno, una vicinanza insospettata e “complice” (dolce) con tutto, forse proprio quando tutto potrebbe sfuggirci o, meglio, nel momento in cui potremmo lasciarlo. E’ forse proprio questa nostalgia a farci del bene. Mi diceva il giovane Delfo, conosciuto in ospedale: “Vedo spesso la vita in altro modo per cui, quando uscirò, la imposterò in una maniera differente da quella finora seguita, non ricercherò affannosamente il denaro e il successo, la riuscita, ma amerò la vita nel suo lato di semplicità, di contatto con la natura, di gioia vera, di amicizia autentica con gli altri”. Com’è bello e buono questo sfogo! (…)
Il nostro Dio sa trarre il bene dal male, per cui possiamo giungere a dire felice perfino la colpa (nel Preconio pasquale) “che meritò un così grande Salvatore”, Gesù Cristo. Su questo cammino sicuro anch’io mi sono avviato. Pure la mia malattia, finanche la mia morte, il Signore potrà trasformarle in bene per me, per gli altri, per la sua Chiesa.

Marchetto ha rappresentato il Papa in Tanzania, in Madagascar e infine in Bielorussia: una delle repubbliche nate dalla dissoluzione dell’Unione sovietica. Era appunto a Minsk, capitale della Bielorussia, quando lo sorpresero violenti dolori. In un’intervista ad «Avvenire» del 25 novembre 1998 ha raccontato così l’avvio della sua avventura: «Eccomi quindi in malattia, mi sono detto. Ho avvertito il desiderio di utilizzare quest’esperienza, negativa in sè (anche per il cristiano), cercando di trarne un beneficio. Ho pensato di cercare di viverla in maniera cristiana».
E qual è questa maniera guidata dalla fede? «La fede in Dio fa sì che siamo sicuri che il Signore ci è vicino, ci accompagna, ci porta in braccio ed è capace di trasformare in bene quel male di cui stiamo soffrendo. In più ci mette in una condizione volitiva e combattiva, che rende meno gravoso quanto dobbiamo sopportare, a volte con durezza, in vista della guarigione».
Ovviamente la fede non toglie la paura, che a volte – anche per un vescovo – può diventare «paura di non farcela». Ed ecco la sua reazione alla paura: «L’ho offerta, insieme ai dolori e alla fatica, cercando all’inizio di ogni giornata di dare a Dio tutto quello che doveva capitare. E tutto si è trasformato in supplica, intercessione, preghiera, offerta, domanda, apostolato».
Tutto il libretto da cui siamo partiti – e nel quale si firma “vescovo in malattia” – è una «confessione» da fratello a fratello: magari i nostri vescovi sapessero parlare sempre così, senza salire in cattedra. Ma due passi ho condiviso di più, oltre a quelli già riportati.
Uno in cui critica il linguaggio religioso tradizionale che attribuisce le malattie alla «volontà di Dio» e un altro in cui confessa di non aver mai pregato per la propria guarigione, per chiedere forza sì, ma non per guarire lui: «Come del resto avrei potuto farlo, guardandomi attorno e vedendo tutti quelli che stavano peggio, o erano più giovani di me, o avevano famiglia e figli? Perchè dunque io dovrei guarire e non essi?» Mi ritrovo in questo atteggiamento, perchè così parlava una persona che mi era cara, ogni volta che l’invitavo a pregare con la formula «liberaci dal male».
Anche la questione del linguaggio è importante. Dimentichiamo sempre l’insegnamento biblico che non è stato il Signore a volere il male e la morte, ma è il «nemico» che li ha introdotti nella creazione. Ma per fortuna ci sono i sofferenti che ci aiutano a rendercene conto. E’ un dono alla Chiesa d’oggi che siano sempre più frequenti i cristiani che parlano della loro malattia, mettendo la propria esperienza al servizio di tutti.

Nota. Il volumetto Nel tunnel della speranza ha avuto una seconda edizione nel 2000, presso lo stesso editore. L’opera di critica storiografica sull’ultimo concilio, Il Concilio ecumenico Vaticano II. Contrappunto per la sua storia, è stata pubblicata nel 2005 dalla Libreria editrice vaticana.

[Da un articolo pubblicato sull’Eco di San Gabriele nel marzo del 1999, aggiornato nel novembre del 2009]

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