Gianni Grassi: “Spero di riuscire a morire vivo”

Gianni Grassi (Parma 1939 – Roma 2007) sociologo e giornalista ha fatto della sua morte un capolavoro di comunicazione e un esperimento – dettagliatamente narrato – di rapporto con i medici. Così parla della sua decisione di “morire vivo” in un documentario televisivo di Francesca Catarci, Intorno alle ultime cose, trasmesso da Raitre il 12 giugno 2008:

Sono ricoverato in questo luogo che si chiama Hospice, sono malato di cancro, prima alla vescica dal 1997 poi alla prostata dal 2000. Se resisto e se ancora ho qualche chance di farla diventare da una disavventura un’opportunità, lo devo al fatto di essere qui. Penso, spero, in questa situazione di riuscire a morire vivo, non di arrivare premorto alla fine, ma di arrivarci vivo. E questa è una speranza che posso alimentare solo qui. Hospice ce n’è pochi in Italia, ma sono quei luoghi dove si coltiva una cultura diversa, che è la cultura dell’assistenza, del prendersi cura dei malati – sempre di più – dichiarati inguaribili (…).
Rimangono due tabù rispetto a questa realtà: da una parte il tabù degli errori, che è un tabù eccezionale – perché i medici hanno così paura di affrontare il discorso degli errori? – l’altro è la morte. Questo della morte, che poi è il più grande errore che fanno, secondo loro, quello di lasciarci morire – come se non dovessimo tutti morire: è un dovere biologico, sociale. Perché c’è chi chiede l’eutanasia? Non è la morte in sé che fa paura, normalmente. Non è la paura del dolore, quella che copre tutte le altre. No, perché oggi si può essere curati anche dal dolore (…), qual è la vera paura? La paura della solitudine, l’abbandono. Allora, sono sempre più convinto che ognuno muore come ha vissuto: se hai seminato molto, raccogli molto. E cosa raccogli? Relazioni. Sono convinto sempre di più che la vita è relazione, che la cura è relazione, che il 75 per cento delle cure terapeutiche sono fatte di relazioni terapeutiche, il 25 per cento poi è biologia, tecnologia, farmacologia, statistiche.
Perché se tu medicina, tu medico, sai – o dovresti sapere – tutto sulla malattia, su come io la vivo e la soffro sono io l’unico competente, o no? Allora o è un confronto, una trattativa, uno scontro tra due competenze, o l’una riconosce l’altra, oppure non è scienza la medicina. Una paura – quella della solitudine – che non ho, fin da adesso. E’ che – nonostante la pesantezza del male – io penso, spero, di avere garantita una tale rete di rapporti, di relazioni, di affetto che mi aiuterà a morire come spero io. Silvia mi chiedeva prima: ‘Allora dettami se non riesci a scrivere’. Bene, io vorrei morire scrivendo (…).
Voglio essere lucido, però non voglio essere lucido al punto tale da prevedere tutto. No, qualcosa deve rimanere misterioso. Che cosa significa avvicinarsi alla morte, avere la consapevolezza di questo percorso? Da una parte tutte le mattine sempre più mi chiedo: che giornata sarà oggi? Varrà la pena di essere vissuta? Sento subito questa stanchezza preventiva, la stanchezza di vivere, che mi condiziona e mi lascia un po’ in sospeso; dall’altra parte, però, contemporaneamente – e a volte, poi, subentra e mi fa vivere molto meglio – sorge una domanda e una sensazione di questo tipo: sarà un altro momento di ‘soddisfazione’, di pienezza, che andrà a riempire la mia vita?(…) In questo tempo, che sento piano piano restringersi, vorrei salvare un progetto. È un progetto bello, vero, vivificante ed è quello di riraccontare la mia vita alle nipotine. Essere capace di rivedere tutta la mia vita nei suoi tre grumi – infanzia, maturità, malattia – raccontandola però a loro. E sarebbe anche il modo migliore da una parte di essere semplice e vero, perché con i bambini non puoi che essere autentico e se non ti capiscono te lo dicono e se dici una bugia a maggior ragione; dall’altra di aiutarle, di aiutarmi a perdermi, a lasciarmi andare.
L’altro polo è quello, paradossale, del rapporto con la persona più anziana che oggi esiste nella mia vita, cioè mia madre che ha quasi 93 anni. Il bello è che l’altro giorno se n’è uscita in questi termini, dice: ‘Gianni tu non preghi, non hai Chiesa, non ci credi a Dio però non sei cattivo, sei buono, sei tanto buono che secondo me andrai in Paradiso’. Ho detto: ‘Vabbè mamma se vuoi, anche se preferirei l’Inferno dove c’è gente più interessante’. A parte gli scherzi, la cosa importante invece è questa. A un certo punto se n’è uscita dicendo: ‘Tu andrai in Paradiso, ne sono convinta. Tanto è vero che quando poi morirò ti verrò a cercare in Paradiso perché tu mi faccia da guida’.
Non so se mia madre se ne è resa conto sino in fondo, ma praticamente questo è stato un bellissimo segnale che mi ha dato, nel quale mi ha già detto che ha colto il mio stato ed è disponibile ad accettare che io muoia prima di lei, togliendomi da una prospettiva di sofferenza: “Come faccio a dirglielo? Come faccio a morire prima di lei? A farle vivere questa vergogna di sopravvivere ai propri figli?” Ecco: adesso sono molto più sereno.

Per un’informazione completa su Gianni Grassi, la sua biografia, gli scritti, l’attività politica – è stato tra i fondatori nel 1970 di Avanguardia Operaia – e soprattutto la riflessione sul rapporto medico-paziente degli ultimi dieci anni, quelli della “carriera oncologica” come la chiamava, vedi il sito che era venuto sistemando e che ora è aggiornato dai familiari: www.giannigrassi.it.

Dalle poesie riprendo questa alla moglie, che dice bene la gratitudine alla vita con cui ha saputo affrontare l’avvicinamento alla morte :

A Silvia
Temi le rughe
della decadenza
e le ferite
della sofferenza.
Fuggi la mia morte
e la tua.
Ma stanotte
ti ho sognata:
volevo fare l’amore
con te.

(26 giugno 2006)

Ho conosciuto Gianni Grassi dall’intervista della collega Francesca Catarci  che mi mandò in anteprima il DVD del quale parlai nel mio blog alla data 11 giugno 2008. Ho completato l’informazione nell’ottimo sito personale di Gianni.

[Dicembre 2009]

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