“Non dimentico quella preghiera in un carcere di Al Ain”

Ho vissuto per quattro anni negli Emirati Arabi e il ricordo più vivo è di un carcere, di una ragazza indiana in esso e di me che prego con lei e le altre prigioniere, in ginocchio sul pavimento. Nel 2001, dopo la Guerra del Golfo, sono partita dall’Italia con i quattro figli per raggiungere il marito che aveva un contratto di lavoro in Al Ain. Per il tempo che vi restammo la St. Mary’s Church è stata la nostra parrocchia, fonte di molte amicizie. Lì il terzo figlio fece la prima comunione.
Nel carcere ci capitai con il parroco. Solo un quinto della popolazione che vive negli Emirati Arabi Uniti è formato da residenti o nativi. Gli altri sono immigrati che vengono dalla Thailandia, dall’India, dal Pakistan, dallo Sri Lanka e dal Bangladesh e guadagnano, per turni che raggiungono le 14 ore, un massimo di 300 dollari al mese. Vivono in condizioni disumane in campi-dormitorio lontani dal centro delle città, non hanno assistenza sanitaria. Per uno stipendio da fame fanno i lavori più umili e spesso i datori di lavoro si sentono padroni della loro vita. Amnesty International e Human Rights Watch ciclicamente denunciano abusi sessuali e violenze fisiche dei “padroni” sui dipendenti, ai quali abitualmente vengono sequestrati i documenti.
Nel 2002 il parroco era padre Francis Jamieson, oggi vicario delegato del Vicariato Apostolico di Arabia, che organizzava delle visite mensili alle recluse del carcere femminile di Al Ain. La maggioranza delle detenute è giovanissima e scontano la pena per essere rimaste incinte dei loro padroni! Dopo il parto vengono rimpatriate e il bambino viene ‘adottato’ dalla famiglia del padrone e spesso addestrato – già a 6-7 anni – a fare il fantino che guida i cammelli nelle corse che sono la passione degli sceicchi: più sono piccoli e leggeri meglio è. Il catechista di mio figlio – che lavorava in ospedale – raccontava che quei bimbi venivano spesso ricoverati con le ossa rotte.
Durante una visita al carcere conobbi la giovane Mohini: 18 anni, al sesto mese di gravidanza. Quel giorno ero andata con due signore di Goa e a ognuna di noi fu affidata una cella. Nella mia c’erano sei indiane, con solo tre brandine: erano costrette a dormire a turno, o in due su una brandina. Consegnai loro le saponette, i detersivi, gli shampoo, i prodotti per la pulizia della cella e qualche semplice libro in inglese. Era proibito portare del cibo. La loro prima preoccupazione riguardava il bambino che stava per nascere e come spiegare l’accaduto alla propria famiglia e dove trovare un lavoro ed essere di nuovo accolte nei loro paesi.
Mohini, l’unica cattolica, voleva un contatto con il padre Jamieson ma gli uomini non potevano entrare nelle celle. Ricordo la sua felicità quando le dissi che il padre era fuori che aspettava e che la benediceva e mi aveva dato un messaggio per lei sulla Comunione spirituale e mi aveva detto che lei poteva battezzare il suo piccolo appena nato. Mi chiese di inginocchiarmi insieme a lei per ringraziare il Signore e anche le altre cinque ragazze si sono inginocchiate e per dieci minuti hanno pregato con noi in quella piccola, grigia e triste cella. Dove sarà Mohini oggi? E il suo bambino?

Gabriella visitatrice di questo blog – vedi il suo blog – mi aveva detto di quelle visite al carcere femminile e io le avevo chiesto di raccontare l’esperienza più viva. Lei ha scelto Mohini.

[Gennaio 2010]

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