Ora sono in pensione – anzi: in albergo

Due o tre consigli a chi si ritira dal lavoro
E’ un anno che sono in pensione dal Corriere della Sera e forse è il momento per una riflessione. Il cambiamento è stato frastornante ma infine mi pare di poter dire che sono contento della nuova condizione.
Era a questo che miravo. “Cerco pensionati felici” scrivevo più di dieci anni a pagina 33 del libretto Io non mi vergogno del Vangelo (EDB 1999) dal quale è nata questa rubrica che ne ripete il titolo. Mi interrogavo sulla mia capacità di restare fedele a questa idea “quando sarà il momento”. Ora posso sciogliere la riserva: sto meglio di prima anche se non ho avuto – come chiedevo – un contratto di collaborazione con il Corriere della Sera. All’attivo ci sono voci più importanti.

Se potevo scegliere
restavo al lavoro
Sono contento di non aver dovuto scegliere: il pensionamento ai 65 anni per i giornalisti del Corriere è automatico e questo automatismo mi ha liberato dall’ansia della decisione. Fosse dipeso da me è verosimile che sarei restato: tre dei cinque figli ancora non sono autosufficienti e la più giovane non è maggiorenne. La crisi economica mondiale fa ballare i lavori degli altri due e in questo momento uno come me non può aspirare ad avere collaborazioni garantite: il calo della pubblicità ha costretto le aziende giornalistiche a tagliare.
Mi è dunque chiaro che se avessi potuto scegliere sarei restato al lavoro. E sarebbe continuata quella vita di trincea che infine mi era venuta a uggia. Da qui viene un consiglio a chi deve prendere delle decisioni: per quanto è possibile conviene optare per meccanismi, contratti, inquadramenti e scivoli che prevedano un’uscita automatica dal lavoro. Si scansano patemi e ci si butta, un po’ come al mare quando l’acqua è fredda.
Continuo con le conferenze, il blog, i libri e la collaborazione a riviste. Il blog mi fa compagnia in questa traversata dal vecchio al nuovo: scrivendo un post al giorno ho l’impressione di esserci ancora da qualche parte. E’ incredibile lo spaesamento che ti provoca non avere più le ore pressate e non avere il pezzo in pagina la mattina dopo, come avveniva da 33 anni.
Per almeno sei mesi ho continuato a sfogliare i giornali con il timore dei “buchi”. Che titolo avrà la concorrenza, come avranno interpretato, che rilievo avranno dato a quella dichiarazione allusiva. Non correvo più dietro alle notizie ma la mia mente continuava a puntarle. Anche adesso quando vedo la Repubblica con un titolone sul papa o sui “vescovi” mi viene caldo.
La nuova condizione ha vantaggi chiari. Lungo il 2009 ho tenuto 59 conferenze contro le 27 del 2008: e questa è l’attività più soddisfacente tra quante ne svolgo. Ho potuto prepararle meglio. Andando nei luoghi mi sono fermato qualche ora in più per vedere il paesaggio, o salutare un amico. Fin dalle prime settimane ho passato una mattinata in Santa Maria delle Grazie a Milano e un’altra nel Duomo di Molfetta. Non avevo fretta, non suonava il cellulare, stavo come in paradiso.

Posso seguire un pensiero
per una giornata
Ora posso seguire un pensiero per una giornata. A casa ceniamo alle 20,30 invece che alle 21,30: avendo una moglie milanese questo è un punto sensibile. Non arrivo in ritardo quando sono invitato a cena. Potrei occuparmi di più dei nipotini che mi chiamano Gigi nonno, ma su questo ne ho da fare di strada.
Faccio la spesa, vado a comprare i giornali e preparo il pranzo. Molti mi chiamano per conferenze mentre pulisco l’insalata. Ho appeso un foglio al frigorifero con gli impegni già presi e ci butto un occhio prima di rispondere in viva voce se posso essere a Milano “venerdì 17”.
Mi viene meglio la ginnastica da camera. Ora faccio mezz’ora di cyclette invece di un quarto d’ora e anche il patetico stretching che eseguo appoggiato al davanzale della finestra mi riesce meglio, per non dire delle magnifiche 100 “torsioni del falciatore” come le chiamo io che le ho inventate. La pressione ci guadagna.
Rispondendo al mio messaggio che segnalava il cambio dell’indirizzo di posta elettronica, un collega spiritoso motteggiava: “Significa che siamo andati in pensione, volevo dire in albergo?” Dico la verità: mi pare di stare in albergo.

Dal giornale più diffuso
a quello meno diffuso
Un altro collega – già in pensione – mi ha scritto: “Ora siamo liberi professionisti”. Certo non tutti hanno la fortuna dei giornalisti con una firma riconoscibile, che gli permette di collaborare qua e là e di fare – da pensionati – una libera professione. Ma io penso che propenderei per un bilancio positivo anche se domani dovesse sfumare ogni possibilità di collaborazione e mi ritrovassi con l’unico vantaggio di guardare il cielo che si vede dalla finestra del corridoio.
Per il Corsera ho scritto una dozzina di articoli in un anno e neanche li hanno pubblicati tutti. “Ci teniamo molto alla presenza della tua firma”: meno male, dico io. C’è la crisi e li capisco. Forse ho sbagliato a compiere i 65 anni proprio ora. Ma c’è anche il fatto che non sono spendibile sul fronte del giornalismo gridato e che non appartengo a nessuna cordata.
Nei momenti di lucidità mi dico che questa crisi è una fortuna per il mio equilibrio emotivo: non oso immaginare come mi sentirei con quei dodici articoli se non ci fosse la scusa coprente del taglio delle collaborazioni. Immagino infatti che un pirla come me l’avrebbero comunque tagliato.
Collaboro con il quotidiano Liberal diretto da Ferdinando Adornato e imparentato all’UDC. E’ leggermente a destra rispetto alla mia posizione che è di centrosinistra pallido, ma l’abitudine alle “torsioni del falciatore” – che dicevo sopra – mi permette di arrivarci senza strappi. Diciamo che i colleghi di Liberal festeggiano l’uscita di Rutelli dal PD e tifano perché esca la Binetti, mentre io mi sono dispiaciuto per quell’uscita e incrocio le dita perché non escano altri: la vicinanza la vedi nel fatto che sia io sia loro abbiamo Rutelli e la Binetti in cima ai nostri pensieri.
Per la scrittura la collaborazione al quotidiano di Adornato è un lavoro felice: non sto sulla graticola e posso dare uno svolgimento sereno a un tema che scelgo io. Gli amici dicono che sono i miei articoli più leggibili e anche mia moglie la pensa così. Ma resta il fatto che sono passato in un colpo solo dal quotidiano più diffuso a quello meno diffuso.
Mi esercito a guardare avanti e sono curioso del domani. Provo a restare senza paura davanti al mistero. Il segreto è di riuscirvi ogni volta per un secondo in più.
“Continuo ad allenarmi tre ore al giorno. Non credo a questo fenomeno della vecchiaia”: ho sentito Philippe Petit, funambolo francese di 59 anni, parlare così una sera dello scorso dicembre, ospite di Fabio Fazio. Condivido l’opinione di Philippe: ho sei anni più di lui e passo metà della giornata a fare progetti. Forse sono anch’io un funambulo.

Mi apparento
al venditore di campanacci
Non ho al momento la fissazione del tempo che fugge irreparabile e del mondo che cambia e non lo riconosci. Per la via romana di Santa Maria Maggiore – dove abito – proprio ora che scrivo un tale annuncia con un megafono: “E’ arrivato l’arrotino”. Ieri era la volta del venditore di campanacci: una volta al mese passa sotto la mia finestra un omino con un sacco in spalla e grappoli di campanacci per mucche alle due mani. Ogni volta mi affaccio per vedere la mandria e resto alla finestra finchè l’omino non gira l’angolo di via Urbana. Ieri era attratto dalle scritte in arabo che sono sulla porta del venditore di Kebab.
Abbiamo già da quattro anni, in questa via, le fibre ottiche che permettono il miglior collegamento a internet e abbiamo ancora il venditore di campanacci. Le costellazioni si succedono con sufficiente lentezza perché io impari le nuove nomenclature. Oltre che al funambulo mi apparento al venditore di campanacci.
“Siamo dei sopravvissuti” mi dice un amico pessimista al quale parlo con fervore delle opportunità della blogsfera: “Non ti accorgi che al nostro mondo non bada più nessuno?” Ma io non vedo nero. Mi avvedo sì che il cristianesimo ricevuto è buttato da un lato e in fretta dai giovani ma so che non l’hanno conosciuto: era troppo avvolto in paramenti e precetti e non siamo stati capaci di provocare un vero contatto. Forse non l’amavamo abbastanza.
Ancora saremmo in grado di far conoscere il Vangelo a tutti, se ci concentrassimo su questo. Ma pensiamo ad altro. La politica ci dilania. Invece di tenere fermo il cuore al Regno che viene ci tormenta la domanda se il cristiano debba stare a destra o a sinistra.
Credo che tra poco il Vangelo suonerà come notizia nuova ai nostri figli e nipoti. E quando risulterà nuova tornerà a infiammarli. Confido di arrivare a vederne dei segni e sto attento ai battesimi degli adulti. Mi adopero a qualche preparativo: la forma conviviale della proposta evangelica e la pedagogia testimoniale attraverso la narrazione dei “fatti di Vangelo”. A queste mi dedico a tempo pieno, felice dell’efficacia della Rete per cercare storie e stabilire contatti.

Metto a frutto l’arte appresa
nella Babilonia delle genti
“Pizza e Vangelo” è un’esperienza di lettura familiare del Vangelo di Luca aperta ai figli e agli amici che dura ormai da sette anni e che timidamente propongo in giro come modalità non ecclesiastica e conviviale di presentazione della figura di Gesù, perché il suo messaggio possa tornare a essere amato dalla nuova generazione. Ne ho già parlato in questa rubrica.
I “fatti di Vangelo” sono le testimonianze cristiane più radicali e trasparenti che mi adopero a narrare in una pagina del blog intitolata “Cerco fatti di Vangelo”. Così metto a frutto l’arte di scovare e narrare storie che ho coltivato per decenni in quella “Babilonia delle genti” che sono i media commerciali.

Luigi Accattoli

da IL REGNO 2/2010

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