Stanislao Loffreda: «Nella vecchiaia non abbandonarmi»

Il padre francescano Stanislao Loffreda – Lao per gli amici – ormai posso dire che lo conosco bene: l’ho intervistato per telefono nei giorni di Natale del 1996 e l’ho “risentito” per e-mail tredici anni dopo, per chiedergli che ne era del tumore che un tempo l’assediava e quale fosse il sentimento di sé ora che i suoi anni si avvicinano agli ottanta. In ambedue i casi mi ha risposto con parole di ottimo sapore francescano. Riporto prima l’intervista e poi la e-mail di aggiornamento.

Stanislao Loffreda è malato: ha un tumore, anzi l’aveva e teme che possa tornare. A essere precisi, pensa che possa tornare ma non «teme», cioè non ha paura. E’ sereno. Dice d’aver ricevuto come un dono questa serenità che non era sua e d’averla avuta per contagio, da una suora egiziana che incontrò quand’era ricoverato.
Stanislao è un padre francescano che vive a Gerusalemme da 36 anni e io lo invidio perchè la sua casa è sulla «Via dolorosa», presso lo Studio Biblico dei Frati Minori. Pochi luoghi al mondo possono fare più compagnia a un cristiano di quella via che Gesù fece con la croce sulle spalle. Ecco la telefonata con cui gli ho fatto gli auguri di Natale. E approfitto di questa occasione per dire che è bello prendere il telefono e chiamare qualcuno che sta a Gerusalemme.

Padre Stanislao buon giorno, sono Accattoli e volevo ringraziarti per la lettera che mi hai mandato.
«Niente, sono anzi io che ringrazio te per quel libro che hai scritto,“Cerco fatti di Vangelo”. E’ un libro che mi ha dissetato: “Avevo sete e mi avete dato da bere”. Anch’io mi ritrovo fra quelle tue righe a cantare le meraviglie del Signore insieme a tanti fratelli segnati dal dolore e che hanno nella carne il “responsum mortis”, la sentenza di morte. Anche a me hanno trovato un tumore».
Di che si tratta, me lo puoi dire?
«Un tumore al colon».
Come quello del Papa…
«Non proprio, il mio era maligno e con metastasi plurime. Ma grazie a Dio le ultime analisi, a un anno di distanza, dicono che al momento è fermo».
Per il resto come stai? Lavori?
«Sto bene. Quando è suonato il telefono ero a innaffiare il giardino».
Che lavoro stai facendo? Tu sei archeologo, vero?
«Sì, prima ho fatto studi biblici, poi mi sono specializzato in archeologia a Chicago. Sto sistemando i reperti archelogici di Cafarnao, quelli del cantiere della “casa di Pietro”».
Come stai dentro?
«Sereno. Lascio ai medici il compito di allungarmi la vita o… le gambe. Non faccio tragedie e questo mio atteggiamento è stato contagioso. Lo dimostra una frase innocente che mi ha rivolto un nipotino di quattro anni nel darmi il buon viaggio: “Zio, ti voglio bene anche se muori”. Ci ho riso un mondo».
E’ bello quello che mi dici. Te l’aspettavi questa serenità?
«Nient’affatto. E’ una sorpresa. Ho fatto cinquanta giorni all’ospedale italiano di Haifa scrivendo poesie. Quei cinquanta giorni sono stati davvero una Pentecoste per me e ancora non riesco a capire fino in fondo la trasformazione operata in me dalla Grazia. Ripeto spesso al Signore: “Andiamoci piano con questi voli mistici perchè in vita mia sono stato sempre un uccello da pagliaio (una gallina, un’oca) e mai un’aquila. Non vorrei andarci di muso duro proprio ora che sto all’ite missa est”».
Mi mandi una di quelle poesie?
«No, non te la mando. Come poesie non valgono niente. Io non sono mica matto da una parte sola!»
Hai paura di perdere quella serenità che dicevi?
«Chiedo al Signore che me la mantenga. Una cosa è pacifica: essa non è stata una mia conquista ma un suo dono».
Qualcuno ti ha aiutato a scoprirlo, questo dono?
«Sì, una suorina egiziana che incontrai in quell’ospedale: suor Bernardetta Nagib. Il buon Dio mi ha contagiato attraverso di lei, attaccandomi la sua serenità. Anche lei era ricoverata per un tumore, di cui poi è morta e passava il tempo a ricamare. Un giorno le dissi: “Quella tua serenità è fatalismo orientale. Perchè ridi sempre?” Essa mi rispose con un sorriso ancora più aperto e – alla mia domanda su che cosa dovessi fare per essere sereno come lei – mi disse: “Niente. Fai il morto nelle braccia di Gesù e starai sempre a galla”».
Funziona?
«Fare il morto! Mi esercito a farlo il più a lungo possibile. Quando suor Bernardetta mi vide con gli occhi lucidi, mi fece un altro sorriso quasi per dirmi: queste cose tu sacerdote le sai meglio di me, povera cuoca! Tornato in camera meditai a lungo su quella rispostina del vecchio catechismo che suona così: “Dio ha cura e provvidenza delle cose create e le conserva e le dirige tutte al proprio fine con potenza, sapienza e bontà infinita”».
Come guardi al domani?
«Mi piacerebbe portare a termine il lavoro di Cafarnao. Ma sono pronto anche a lasciarlo. Dicono che noi, malati di tumore, moriamo con gli occhi aperti, coscienti cioè fino all’ultimo momento. Anche questa è una grazia».
Sono parole coraggiose…
«Il Signore è vicino a tutti gli ammalati e vuole comunicare la sua pace a tutti gli uomini. Cerco di tenermi a questo. E credo che non vi sia persona al mondo che non trattenga il fiato ogni volta che vede qualcuno che affronta con serenità la sua ora. Non siamo spavaldi, noi cristiani, quando parliamo con speranza della morte, ma umili e sereni testimoni della risurrezione di Gesù».
Tutto qui?
«Tutto qui».

Ripresa in mano quell’intervista dopo tanti anni mi sono chiesto se il padre Stanislao fosse ancora nella Gerusalemme terrena o fosse passato a quella celeste. Ho posto la domanda al padre Claudio Bottini, decano dello Studio biblico, che mi ha dato l’indirizzo e-mail del confratello. Così il padre Stanislao ha risposto alla mia domanda di un aggiornamento:

Caro Luigi, a distanza di tanti anni ti ricordo con grande stima e rispondo subito alla tua e-mail. Se ben ricordo, ti dissi che i 50 giorni passati all’ospedale italiano di Caifa nel 1995 per un tumore maligno, fu per me una vera pentecoste. Ora ho 78 anni e rotti, ma ancora mi accompagna il ricordo di quella suora francescana egiziana (RIP) la quale mi disse che nella vita bisogna “fare il morto” nelle braccia del buon Dio per stare a  galla.
Da un pezzo non faccio più le chemioterapie contro il tumore e per fortuna non le debbo fare neppure contro la vecchiaia… Vivo sereno e alle mie preghiere ho aggiunto un versetto preso dal Salmo 70: “Non gettarmi via nel tempo della vecchiaia, / non abbandonarmi quando declinano le mie forze”.
Credo fermamente nel Salmista quando afferma che il buon Dio “libererà Israele da tutte le sue colpe”. Ogni giorno faccio un’ora di adorazione e prego il buon Dio che nessuno si perda di quelli che Gesù ha redento col suo sangue.
Ora sono un professore a riposo (gli inglesi direbbero “retired”, da non confondere con “retarded”), ma “scrivo e scrivo e ho molte altre virtù” (Carducci). Il mio best-seller è un libretto di poesie in dialetto ascolano, intitolato “Fresche e Bennelle” (titolo intraducibile che sta per la parola “zibaldone”).
Salute e pace. Fai un po’ di bene anche per me. Grazie. Tuo amico Stanislao Loffreda ofm – Gerusalemme 14 febbraio 2010

Qui si può vedere una foto del padre Stanislao.
Qui viene festeggiato.
Qui è la sua bibliografia.

[Intervista pubblicata dall’Eco di San Gabriele nel gennaio del 1997, con aggiornamento del febbraio 2010]

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