La grande avventura dei Giusti d’Italia

387 gesti creativi per salvare gli ebrei dalla persecuzione
Finalmente un libro con le storie dei 387 “giusti” italiani riconosciuti da Yad Vashem fino al maggio 2005: I giusti d’Italia. I non ebrei che salvarono gli ebrei 1943-1945 (Mondadori, pp. 294, Euro 20). Una lettura che riconcilia con l’umanità. E’ l’edizione italiana, curata dalla storica della Shoah Liliana Picciotto, delle voci riguardanti i “giusti” del nostro paese contenute in The Enciclopedia of the Righteous among the Nations, pubblicata da Yad Vashem nel 2004.
Ne do qui un primo assaggio mirato alla varietà dei casi e al paradossale rovesciamento dei metri di giudizio a cui i salvatori di ebrei erano costretti in quel tempo di persecuzione. Si mostrò allora come sia possibile, nell’imbroglio della vita, fare opera di giustizia giurando il falso, ponendo domande false e provocando falsissime risposte, falsificando documenti e rendendo falsa testimonianza. Fu un tempo quello in cui finte infermiere curarono finti malati, cui venivano intestate fasulle cartelle cliniche. La fantasiosa imbroglieria umana visse una rara stagione innocente.

“Non parlate italiano? Fingete di essere sordomuti”
Molto si esercita in questo benefico travisamento Angelo De Fiore, all’Ufficio stranieri della Questura di Roma. Quando gli si presentano titubanti dei profughi ebrei, chiede: “Siete francesi, cattolici, ariani, non è vero?” e firma documenti di residenza e tessere annonarie. Lo stesso fanno, su più ampia scala, Giovanni Palatucci alla Questura di Fiume e Giorgio Perlasca in un falso ufficio consolare spagnolo a Budapest, da lui inventato.
Ma c’è anche lo scrupolo di non incrementare la menzogna senza necessità. Tullio Vinay, giovane pastore evangelico di Firenze, suggerisce a Hulda Campagnano – che si trova a dover sistemare sei bambini, due suoi e quattro di un fratello – di individuare una famiglia cristiana che si faccia carico di uno dei più piccoli: “così non avrebbero dovuto insegnargli a mentire”. La scelta cade su Reuven che ha non ha ancora due anni e viene preso in casa da Letizia e Amato Billour.
Ognuno si ingegna a ben fare secondo le risorse dell’età. Ed ecco Jozsef Ciccutti, giovanissimo, che convince la nonna di 84 anni a elemosinare nei negozi di Budapest (sono ungheresi di origine italiana) qualsiasi cosa commestibile, piselli, fagioli, cipolle, per sfamare la famiglia ebrea Halasz costretta ad alloggiare in una casa segnata con la stella gialla.
Tedeschi e fascisti irrompono all’ospedale Fatebenefratelli dell’Isola Tiberina, dove molti ebrei sono ricoverati con la diagnosi “Morbo di K”, che è un modo convenzionale per dire “morbo di Kesserling”, il comandante delle forze tedesche: così anche ci si diverte, come si può. La mamma ebrea Ajò Tedesco rifugiata nell’ospedale indossa una divisa e finge di essere un’infermiera, mentre ai suoi bambini, Luciana e Claudio, dice di tossire con forza, dato che i tedeschi temono di contrarre delle malattie. Quei terribili tedeschi dovevano essere dei veri salutisti, se Leone Passigli – nella Firenze dell’autunno del 1943 – evitò il saccheggio del proprio calzificio attaccando un cartello con la scritta “Lazzaretto”.
Quando gli ebrei da nascondere non parlano italiano vengono fatti passare per sordomuti, come capita a Esther e Wolf Fullenbaum, di origine polacca, rifugiati a Secchiano di Cagli, sull’Appennino pesarese. O per malati di mente, come succede a Rosalia Zimet, che arriva dalla Germania e viene nascosta dai Della Nave a San Bello, sopra Morbegno. Il professore Giuseppe Baronia, direttore della clinica di malattie infettive al Policlinico di Roma, salva Aldo Di Castro dandogli un camice, una provetta per raccogliere sangue e uno stetoscopio, facendolo cioè passare per medico.

Gli manda un prete che lo minaccia di scomunica
Giulia Afan de Rivera Costaguti, che ha nel suo palazzo romano quattro famiglie ebree per un totale di 16 persone, corrompe con denaro i tre tedeschi che si presentano per arrestarli. Giuseppina Aceti, moglie di un macellaio a Gignese, sul Lago Maggiore, ubriaca le ss venute ad arrestare la famiglia Manasse loro ospite: “Almeno prendete prima un bicchiere di vino”. Michelina Saracco, proprietaria di un autobus a Govone, Cuneo, distoglie l’attenzione dei tedeschi dalla soffitta in cui nasconde Enrichetta Segre “dando loro da mangiare e portandoli in giro con l’autobus, comodità assai rara verso la fine della guerra”.
La necessità di mentire porta a dire verità più profonde, che oggi appaiono luminose. Madre Antonia Antoniazzi salva nel convento di Santa Maria di Namur, a Roma, quattro Jacobi provenienti da Berlino, ma il custode “fascista” del convento è tentato di denunciarli e la suora “gli manda un prete che lo minaccia di scomunica”.
I nascondigli sono case estive, soffitte, retrobottega, guardaroba e sottoscala, legnaie e depositi per attrezzi, porcili vuoti e persino cisterne dell’acqua, doppi muri e stanze segrete realizzate ad arte. Ma anche soffittoni di chiese, sagrestie, conventi e monasteri, capannoni e cinema vuoti, mulini e cimiteri, capanni da cacciatori, grotte, caverne.

Nascosti in una fossa coperta da frasche
Quanto si scava in quegli anni, a fini di giustizia! Antonio Dalla Valle, cantoniere a Bagnocavallo, Ravenna, ricava un locale sull’argine del fiume Senio e lo collega con un tunnel alla sua casa per rifugiarvi – durante i rastrellamenti – gli ebrei che ospitava.
Dodici tra donne e bambini vivono a lungo in una grotta sotterranea scavata sotto il monastero dello Spirito Santo a Varlungo, Firenze, lì condotti dal prete trevigiano don Giovanni Simoni.
Sem Perugini scava “una fossa profonda nel terreno di famiglia”, a Pitigliano, per nascondervi durante il giorno la famiglia Paggi Sadun con i bambini Ariel e Roberto. Il figlio del padrone di casa passa ad Ariel il libro e i compiti perché continui a studiare. Emidio Iezzi scava a Guardiagrele, Chieti, “un posto sicuro coperto da frasche” per nascondervi Adolf Weintraub e un altro ebreo di nome Max.
Luciana Boldetti di Firenze ha la casa distrutta da un bombardamento e sotto le rovine realizza un rifugio per Anna Ottolenghi, facendola arrivare là per un passaggio sotterraneo.
Un capanno da cacciatore può significare la salvezza: così è per Aldo e Tullio Melauri, di 17 e 18 anni, scappati attraverso i campi mentre i genitori venivano arrestati e salvati da due famiglie contadine di Figline Valdarno, Soffici di cognome. Dante e Giulia costruiscono per loro una capanna vicino a una sorgente d’acqua. Oreste e Marianna gli fanno visita ogni giorno con i loro bambini, per portargli da mangiare. Quando inizia a nevicare li prendono in casa in attesa della primavera.
Fortunato Sonno rifugia la famiglia Servi in una caverna, a Pitigliano, per tre mesi e gli fa visita ogni giorno, portando acqua, cibo e tutto. La famiglia Horowitz viene ospitata in una stalla, a Borgo San Dalmazzo, da Andreina Marabutto, che un giorno manda alla stalla un prete – don Francesco Brondello – con una macchina fotografica per le indispensabili fototessera.

Un sacco di farina ogni dieci giorni
Fernando Talamonti è il custode del cimitero di Offida, Ascoli Piceno e nasconde tra le tombe, per sei mesi, la famiglia di Marco Ventura. Adelino Talamonti, mugnaio del paese, fornisce ai rifugiati un sacco di farina ogni dieci giorni: una decima biblica che li salva dalla fame.
L’ingegneria abitativa più fantasiosa assembla in spazi ristretti ebrei fuggiaschi e loro salvatori. Un divisorio di barili crea uno spazio per la famiglia Padovani, che vive sotto il tetto dei Bizzi, a Imola, per un anno. Una barriera di sacchi di carbone salva a Genova la famiglia del rabbino Riccardo Pacifici, rifugiata nella cantina dell’edificio a opera del custode Enrico Sergiani.
A Pugliano Vecchio, sull’Appennino tra Marche e Romagna, sono tutti gli abitanti del piccolo paese, organizzati dal tabaccaio Gabrielli, che si impegnano a liberare ciascuno una stanza a casa propria, a imbiancarla e a metterla a disposizione di un gruppo di 38 ebrei provenienti dalla Jugoslavia: “Una casa viene completamente liberata e adibita a cucina e sala da pranzo”.
In viale delle Medaglie d’oro, a Roma, l’intera famiglia Costanzi dorme per otto mesi nella sola camera da letto mentre i cinque Anav la sera spostano il tavolo da pranzo per far posto a un letto dove di infilavano tutti insieme: Attilio e Tina, con i bambini Lello, Marco e Mirella. A Riano Romano Teresa e Pietro Antonini lasciano la camera matrimoniale al rabbino Marco Vivanti e alla moglie Silvia, e dormono per terra vicino alla stufa per nove mesi.
Angelo Cerioli dipendente di una fabbrica di minuterie metalliche ricava una stanza segreta nel magazzino della fabbrica per ricoverarvi la famiglia Molho, cioè i suoi datori di lavoro: prima di alzare le pareti vi sistema letti, un tavolo e una cucina a legna. Pietro Lestini costruisce un muro che chiude l’entrata ai soffittoni della chiesa di San Gioacchino in via Pompeo Magno a Roma, dove nasconde una ventina di ebrei. Alberto Moscati, sofferente di claustrofobia, lascia la soffitta prima che venga murata e viene ricoverato in una clinica per malattie mentali.

Nella stanza del figlio prigioniero in Germania
La fantasia abitativa parte sempre dal cuore e qualche volta da un cuore ferito. La famiglia Pugi salva la vita a Graziella Vita Passigli, a Firenze, alloggiandola “nella stanza del figlio Luigi, prigioniero in Germania”. Leo Terracina viene salvato dalla famiglia Costantini, a Roma: “La signora Amalia avendo un figlio combattente in Grecia soleva dire che si prendeva cura di Leo sperando che in caso di bisogno ci sarebbe stata una donna greca che avrebbe fatto lo stesso per suo figlio”.
Ho nominato una quarantina di “giusti”, ma non mi bastano. Riferirò altre storie il prossimo mese, per dire dell’incontro ecumenico – nei rifugi – tra cristiani ed ebrei.

Luigi Accattoli
Da Il Regno 10/2006

Lascia un commento