Quando l’occhio del giusto vede il perseguitato

Ancora su Yad Vashem e gli ebrei italiani
Il lettore avrà comprensione per questa debolezza, ma mi sono innamorato delle storie narrate nel volume Giusti d’Italia. I non ebrei che salvarono gli ebrei 1943-1945 (Mondadori 2006, pp. 294, euro 20) e ne debbo parlare ancora, per un’ultima volta. In un primo approccio avevo cercato la varietà dei casi e con una seconda puntata avevo guardato all’avvicinamento tra ebrei e cristiani comportato dalle 387 storie di salvataggio. Qui miro a cogliere l’avvio di queste avventure fraterne: lo scatto d’amore, il soprassalto d’umanità che muove i giusti a proteggere i perseguitati.

“Li afferra e li induce a rifugiarsi nel negozio”
Giuseppe Brutti è capostazione ad Amandola, nelle Marche. Una sera del settembre 1943 “nota” otto persone appartenenti a due famiglie, adulti e bambini, scendere da un treno e girarsi intorno smarriti: “Li invita a unirsi alla sua famiglia per la cena”. Non li aveva mai visti prima. Dopo la cena “diede loro delle brande, dei materassi e delle lenzuola per dormire”. Ora sa che sono ebrei e organizza il salvataggio riuscendo a coinvolgere l’intero paese: “Alcuni procurarono cibo, altri letti, coperte e lenzuola, altri ancora vestiti, e poi pentolame, stoviglie, sapone e altro”. Ma tutto viene da quello sguardo iniziale: “Furono notati dal capostazione”. Proprio come nei Vangeli: “Un samaritano che passava di là lo vide e ne ebbe compassione”.
Allo scatto dell’occhio segue a volte quello della mano e l’opera di carità si compie con le movenze dello scippo. E’ il caso di Enrico De Angelis, proprietario della macelleria al Portico d’Ottavia 1, conosciuto come “sor Richetto er macellaro de’ Piazza”: con rapida mossa mette in salvo ben 42 ebrei, la mattina del 16 ottobre 1943, quella del rastrellamento del Ghetto. Ecco come raccontano il “ratto” quattro dei salvati appartenenti alle famiglie Moscato e Di Veroli, che passano davanti alla macelleria “paralizzati” dalla paura: “Con prontezza di spirito li afferra e li induce a rifugiarsi nel negozio”. Poi li smista in vari nascondigli. Alcuni li ospita in un suo garage per sette mesi, fino alla liberazione di Roma. E magari questa carità lunga l’avremmo potuta compiere anche noi, cioè tu ed io, lettore mio, ma quello scatto di rapinatore dove l’avremmo preso? Il Regno dei Cieli appartiene ai violenti.
Non è l’unico caso in cui il soccorso avviene con i gesti di un’aggressione. Sempre durante il rastrellamento del Ghetto, le ss stanno salendo le scale, Mirella e Marina Limentani scappano davanti a loro “quando improvvisamente una porta si apre e due mani forti le afferrano e le tirano dentro”. E’ Fernando Natoni, camicia nera.
Il movimento iniziale che porta alla grande avventura è magari un gesto innocente d’amicizia, spesso compiuto da un figlio o una figlia in soccorso a compagni di scuola. Giovanni e Angela Pescante a Trieste prendono in casa Hemda Dlugacz per un anno e rischiano la vita “dando retta alle suppliche della figlia ventitreenne Anita”. La vedo questa Anita che implora, come ho visto fare ad altre ragazze per un gatto o un cane. Quando la Gestapo sta per arrestarli tutti e Hemda vorrebbe andarsene, per non comprometterli, Giovanni le dice: “Ti prego di restare con noi, perché se te ne vai mi vergognerò per sempre di far parte del genere umano”. Grandi parole, ma venute da un cuore che era stato smosso dal pianto di una figlia.

Di che cosa non sia capace una bambinaia di 15 anni
Dalla spontaneità di una figlia alla generosità di una madre. Ad Ascoli Piceno Elena Salvi, domestica in casa Cingoli, diventa un elemento decisivo per la salvezza di questa famiglia ebrea grazie alla prontezza di spirito che dimostra al momento dell’arresto di Olga Cingoli e dei suoi due bambini: “Lasciata libera, volle ugualmente seguirli nella sorte, dopo aver affidato i propri figli in custodia a un’amica”.
Un ragazzo di 17 anni, Gabriele Garofano, si trova per caso a Genova in un negozio di abbigliamento di proprietà della famiglia Urman, che non conosce e assiste al loro scoramento quando arriva la notizia del rastrellamento degli ebrei: li invita a fuggire a Grognardo e a presentarsi alla propria famiglia che li “avrebbe ospitati” e così avviene!
Tra i ragazzi che attivano la solidarietà, la palma tocca a una bambinaia di 15 anni, Ida Brunelli, di Monselice, Padova, che salva i tre bambini che aveva in cura, rimasti orfani, portandoli in un primo momento dalla propria mamma e riuscendo in seguito a farli accogliere in orfanotrofi cattolici, dove li va a visitare ogni domenica. Finita la guerra prende contatto con la Brigata ebraica e li accompagna a Napoli dove li imbarca sulla nave diretta in Palestina: ora Ida ha 18 anni!
Un’altra Ida – Brunetti di cognome – ha 13 anni quando a Caprarola, Viterbo, vede scendere dal pullman proveniente da Roma una famiglia di cinque ebrei in fuga, disorientati: “Vedendo Cesira Sonnino stanca con il bambino in braccio si offre di portarlo lei stessa e li invita a casa dei suoi genitori per riposare”. I genitori di Ida “impietositi dicono loro che vi è un appartamento vuoto nella loro palazzina” e si attiva il salvataggio, partito da un altro cuore bambino.

“Seduta stante decidono di accoglierli”
La rapidità di decisione magari prelude a un salvamento che poi si realizza su tempi lunghi, o è operato da altri più attrezzati, ma lo rende possibile. Emilia Cabrusà viene a sapere del rastrellamento degli ebrei dalla mamma, tabaccaia al Ghetto e “si precipita in treno” a Velletri, per allertare due famiglie ebree che si erano rifugiate là per precauzione. Quasi non credono al racconto, ma “Emilia letteralmente impone loro di nascondersi immediatamente”. La carità sa essere impositiva!
Il medico Luca Canelli vede ad Arona le ss che portano via una famiglia ebrea: “Corre immediatamente alla villa degli Jarach e li avvisa di lasciare la casa”. Sono undici e se ne vanno in barca attraverso il Lago Maggiore. Ma uno è malato e non riesce a salire sulla barca, il medico lo prende sulla sua automobile e “lo porta fuori da un cancello secondario proprio mentre i tedeschi entrano da quello principale”.
Luigia e Giovanni Cappello, veneziani, ascoltano alla Radio il 30 novembre del 1943 la decisione governativa per l’internamento di tutti gli ebrei, “prendono una barca e si precipitano” dagli amici Rino e Ada d’Angeli “per esortarli a fuggire”. Per due mesi li ospiteranno nella loro casa, dove saranno 14 in tre stanze.
La grande decisione può nascere tra due telefonate: a Milano Bianca Ghelli, segretaria di Marco Cohenca, vede arrivare la polizia alla ricerca dei suoi datori di lavoro rifugiati a Como, li avverte per telefono del pericolo poi chiama il marito Vittorio e “seduta stante decidono insieme di accoglierli nel loro appartamentino di due stanze”.
La telefonata che porta aiuto a volte anticipa quella che lo chiede. Ebe Gerbarena chiama a casa Portaleone e si offre di ospitare il figlio Bruno all’indomani della retata al Ghetto di Roma. Bruno resta dagli ospiti per otto mesi, fino alla liberazione di Roma, condividendo la camera da letto con un figlio della sua età: 13 anni.

Bellissimi quei carcerati che protestano
La carità è anche recidiva: Gennaro Campolmi, antifascista fiorentino di Giustizia e Libertà, si segnala per procurare vie di fuga e documenti falsi agli ebrei e viene “interrogato” per una settimana a Villa Trieste. Rilasciato con le ossa peste “per strada incappa improvvisamente in Graziella Vita completamente indifesa, con due bambini per mano e un terzo nello zaino e si offre immediatamente di aiutarla”. Senza aspettare cioè di riprendersi dalle botte che aveva ricevuto, come io di sicuro avrei ritenuto confacente.
Il soccorso portato a degli sconosciuti e deciso su due piedi ha decine di manifestazioni sorprendenti. La signora Perla Rosenberg Colorni e i due figli Vittorio e Maurizio, sfuggiti alla detenzione, arrivano inattesi a casa del fotografo Ugo Moglia a Settimo Torinese, essendo mancata una segnalazione da parte di un comune amico: “Dopo qualche domanda, decide di occuparsi della famiglia e l’invita alla sua tavola”. Al momento della reclusione a Menaggio i tre avevano ricevuto una “dimostrazione di solidarietà da parte dei carcerati che, battendo con i cucchiai contro le gavette, si misero a inveire contro le guardie che permettevano la carcerazione di una mamma con due bambini piccoli”. Bellissimi quei carcerati che protestano!
Vito Spingi “non ebbe un momento di esitazione” ad accogliere e nascondere nello stabile di cui era portinaio – a Roma – una famiglia ebrea di dieci persone, a lui sconosciute e a lui indirizzate – a sua insaputa – da qualcuno che aveva detto loro: “E’ una brava persona e forse potrà trovare una soluzione”.
Apre la porta e il cuore anche madre Antonia, la superiora delle suore di Nostra Signora di Namur a Roma, quando bussa la famiglia Jacobi e si sente dire: “Siamo ebrei, sareste disposti ad aiutarci?” Li fa entrare e li abbraccia.

21.310 Giusti di 42 paesi
La famiglia Ottolenghi, a Milano, viene accolta da “una generosa coppia mai vista prima”, che fa di tutto “per nutrirli e rassicurarli”. A Montale, Pistoia, i Di Cori “accolgono come un figlio” Alberto Saltiel, a loro sconosciuto, “lo nascondono e lo ospitano gratuitamente per oltre un anno”.
Mi affascina la narrazione di questi movimenti spontanei di fratelli verso i fratelli, che vincono ogni pregiudizio e attestano che una luce abita l’umanità anche nelle stagioni più buie. Accanto ai 387 Giusti italiani ve ne sono tanti di più di altri paesi per un totale – al momento – di 21.310, appartenenti a 42 nazionalità e alle volte mi dico che potrei passare la vita a cercare le loro storie assicurando una gioia a ogni giornata, quella di incontrare persone degne di un’assoluta amicizia.

Luigi Accattoli
Da Il Regno 14/2006

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