Quanti sono i “Giusti” d’Italia e perché ci sembrano pochi

Colloquio con Nathan Ben Horin commissario di Yad Vashem
I lettori sanno della mia passione per le storie dei “Giusti”: ne ho parlato qui per tre mesi, dopo l’uscita del volume Mondadori I Giusti d’Italia. I non ebrei che salvarono gli ebrei 1943-1945, sempre chiedendomi perché tra i 21.308 riconosciuti da Yad Vashem al gennaio 2006 gli italiani fossero solo 391. Ho infine posto la questione all’uomo che meglio la conosce, Nathan Ben Horin – membro dal 1994 della Commissione di Yad Vashem per il riconoscimento dei Giusti, responsabile delle pratiche italiane – da me già incontrato cinque anni addietro, quando con i colleghi Emilio Vinciguerra e Ciro Fusco progettavo una pubblicazione che non si potè realizzare perché la documentazione conservata a Gerusalemme nella sede di Yad Vashem non era allora consultabile, essendo stata decisa la pubblicazione di un’enciclopedia completa contenente la storia di ciascuno dei Giusti.

Prima è la Polonia e l’Italia viene undicesima
Nathan – che si muove in quest’opera come un Giusto di Israele, amante del nostro paese – mi spiega che i Giusti italiani non sono affatto pochi, ma tali ci appaiono al confronto numerico per la modesta entità della comunità ebraica italiana e perché da noi la persecuzione durò meno che altrove e fu complessivamente meno efficace, mentre la solidarietà verso i perseguitati fu più capillare e destinata anche a essere recepita – sia dai salvati sia dai salvatori – come “quasi normale”.
In testa per numero di riconoscimenti c’è la Polonia, con 5941 Giusti, seguita da Olanda (4726), Francia (2646), Ucraina (2139), Belgio (1414), Ungheria (671), Lituania (630), Bielorussia (564), Slovacchia (460), Germania (427). L’Italia viene undicesima, seguita da Grecia, Serbia, Russia, Repubblica Ceca e Croazia per limitarci ai paesi che superano le cento unità. Vengono poi altri 26 paesi (per un totale di 42 nazioni) che insieme contano 551 Giusti.
Io sono pieno d’ammirazione per il gran numero di polacchi salvatori, ma Nathan mi dimostra che proporzionalmente gli italiani sono “molti” di più: “Alla vigilia dell’invasione tedesca nel settembre del 1943 gli ebrei residenti nella zona che venne occupata erano circa 32 mila, mentre in Polonia ce n’erano più di 3 milioni e 200 mila: cioè cento volte di più. In proporzione all’Italia i giusti polacchi dovrebbero essere circa 37 mila!”
Lo stesso raffronto si può svolgere per tutti i paesi dell’Europa centro-orientale, ottenendo sempre un risultato straordinariamente favorevole all’Italia, mentre il “favore” si conferma, ma senza distanze clamorose, se facciamo il paragone con gli altri paesi occidentali: “In Francia gli ebrei erano circa 320 mila, dieci volte più che in Italia e dunque il numero proporzionale dei Giusti dovrebbe essere di circa 3.600 invece dei 2650 riconosciuti”.
C’è poi da tener conto della durata dell’occupazione. Una cosa è che si abbiano quattrocento salvataggi in un anno e un’altra che si abbia lo stesso numero – poniamo – in due anni. “La Polonia resta sotto l’occupazione per più di cinque anni e la Francia per più di quattro, mentre l’occupazione dell’Italia va dagli otto mesi di Roma ai quasi 20 mesi delle regioni settentrionali”.

Si vide che la carità non era una parola vuota
Alla domanda se si possa dire che da noi vi sia stata “meno persecuzione”, Nathan risponde che “in confronto con l’Est europeo, dove una parte non trascurabile della popolazione ne fu parte attiva, in Italia essa fu meno accanita”. Ma arrivando più tardi, rispetto ad altri paesi, fu anche “più repentina” e “colse gli ebrei italiani di sorpresa, mentre in altri paesi ci fu una gradualità nell’attuazione delle misure persecutorie che permise l’organizzazione di sistemi di salvataggio”.
Nathan afferma che nel soccorso agli ebrei “la popolazione italiana si è dimostrata una delle più umane d’Europa” e basa questa affermazione “sulle testimonianze che giungono a Yad Vashem dai sopravvissuti dei diversi paesi”. A interpretazione di questo primato dice forse le parole più importanti del nostro colloquio: “Si tratta, a mio parere, di un clima etico largamente diffuso, di un umanesimo ancorato in una semplice e solida fede religiosa, nella quale principi come carità e amore del prossimo non sono parole vuote. In molti casi i soccorritori operavano, soprattutto nei piccoli paesi, in un clima di generale complicità. Ma anche in una città grande come Roma ci fu, la mattina del rastrellamento nel Ghetto, una mobilitazione massiccia di solidarietà e di aiuto spontaneo, tale da lasciare incredulo il famigerato capo delle SS Herbert Kappler, che in un rapporto ai superiori si lamentava dell’atteggiamento popolare ‘caratterizzato da palesi sintomi di resistenza, tradotta in molti casi in aiuto attivo… mentre la parte antisemita della popolazione non fu percepita durante l’operazione’. Dopo l’8 settembre gli italiani da alleati erano diventati in gran parte loro stessi dei perseguitati, portati dunque a una spontanea solidarietà contro la barbarie nazista”.

Non mancarono italiani delatori e corresponsabili della persecuzione
Sugli italiani che si fecero corresponsabili della persecuzione Nathan non si diffonde, ma non tace: “Se quasi novemila ebrei sono stati deportati e non hanno fatto ritorno, salvo pochissimi, ciò non è stato possibile senza la collaborazione di politici, funzionari, poliziotti, carabinieri, guardie di campi di concentramento come Fossoli o la Risiera di San Saba a Trieste. Senza parlare dei delatori spinti da odio antisemita, da motivi di vendetta, o da squallidi motivi di lucro”.
Chiedo se la pressione per le conversioni sia stata più forte in Italia che altrove, stante l’alto tasso di religiosi tra i soccorritori. “Lo escludo assolutamente” è la risposta: “E’ vero che in Italia era vasta la partecipazione al soccorso delle varie comunità cristiane, soprattutto quella cattolica, ma non manca l’apporto di denominazioni minoritarie, come valdesi e avventisti. Questa mobilitazione, secondo me, era spontanea, generalmente individuale, salvo nel caso delle reti di Genova, Torino, Firenze e Assisi, costituite per iniziativa dei vescovi locali. Una mobilitazione mossa da motivazioni religiose, ma senza intenzioni di proselitismo. Se ci sono stati casi di pressione per la conversione – e lei ne ha ricordati alcuni nei suoi articoli – si trattava di iniziative sporadiche e personali. Sono invece numerose le testimonianze che segnalano un profondo rispetto per la religione dei protetti, spesso incoraggiati a restare fedeli alle proprie usanze e tradizioni”.

“Giusto tra le nazioni” un concetto che viene dal Talmud
“Giusto tra le nazioni” è concetto di origine talmudica (trattato Baba Batra, 15,2) che in epoca medievale viene applicato – dalle comunità ebraiche perseguitate – “ai non ebrei che si comportano nei loro confronti in modo equo e umano”. Esso fu adottato dalla legge costitutiva del Memoriale di Yad Vashen (approvata dal Parlamento israeliano nel 1953), che tra i compiti di questa istituzione pone anche quello di “onorare i Giusti tra le nazioni che rischiarono la vita per salvare gli ebrei”.
La Commissione per il riconoscimento dei Giusti – costituita agli inizi degli anni sessanta – conta 39 membri, che lavorano divisi in tre sottocommissioni con sedi a Gerusalemme, Tel Aviv e Haifa. Nathan Ben Horin, che oggi ha 86 anni, entra a farne parte dopo un lungo servizio presso l’Ambasciata di Israele in Italia come consulente per i rapporti con la Santa Sede (prepara le relazioni diplomatiche, stabilite nel 1994).
“Tengo molto – dice Nathan – a rendere onore ai Giusti italiani. Conobbi l’umanità degli italiani verso gli ebrei nella primavera del 1943, quand’ero ricercato dalle autorità francesi di Vichy come disertore da un campo di internamento e potei rifugiarmi a Grenoble, nella zona di occupazione italiana. Un’idea più chiara del buon comportamento degli italiani l’ebbi anni più tardi, quando giunsi in Italia in missione diplomatica e dall’incontro con Mirjam Viterbi, che divenne mia sposa e che mi narrò come fosse sopravvissuta alla persecuzione ad Assisi, con i genitori e una sorella, grazie all’aiuto della rete di salvataggio costituita dal clero locale”.

Mirjam salvata ad Assisi e oggi protagonista del dialogo
A sostegno di una pratica di riconoscimento dev’esservi l’attestazione della persona salvata, o di testimoni oculari, o una risultanza documentale. Ma la pratica può essere avviata anche per iniziativa di terzi. Nathan Ben Horin conduce di persona “una ricerca capillare” di salvati e salvatori: “In questo momento mi sto occupando di sei o sette appartenenti alla Guardia di Finanza delle cui azioni di salvataggio non c’è ancora una documentazione piena”. Tre i criteri essenziali per l’attribuzione del titolo: che il soccorritore fosse a conoscenza dell’identità ebraica del perseguitato, che la sua azione l’esponesse al rischio della vita, che non vi fosse compenso.
Al colloquio con Nathan è presente Mirjam, nella loro casa romana ai Parioli, dove mi hanno accolto come un fratello: vivono alcuni mesi a Gerusalemme e alcuni in Italia, al modo del cardinale Martini di cui sono amici. Mirjam assicura che nei mesi in cui fu a contatto, ad Assisi, con i salvatori della sua famiglia – il vescovo Nicolini, il canonico Brunacci, il francescano Nicacci, i tipografi Brizi: tutti nell’elenco dei Giusti – mai ebbe a subire pressioni perché si convertisse. Sostiene anzi che deve “a quell’esperienza di religiosità autentica e di aiuto dato con il cuore” se è diventata “quello che è attualmente” e cioè un’interlocutrice attiva del dialogo ebraico-cristiano, come attesta il volume che ha pubblicato nel 2005 con la EDB, Verso l’Uno. Una lettura ebraica della fede. Raccoglie i suoi interventi ai “colloqui” di Montegiove (Pesaro), condotti con don Benedetto Calati dal 1990 al 1995, alla ricerca appassionata di una religiosità senza frontiere.

Luigi Accattoli
Da Il Regno 2/2007

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