Il regista De Sica gira un film con ebrei e perseguitati

La porta del Cielo è un film di Vittorio De Sica girato all’interno dell’Abbazia di San Paolo fuori le Mura durante l’occupazione nazista di Roma e uscito all’indomani della sua liberazione. La lavorazione servì anche a nascondere la presenza nell’Abbazia di ebrei e perseguitati politici, con il consenso dell’abate e del Vaticano. Così Christian De Sica narra tra lo scherzo e la commozione quella pagina straordinaria della vita di suo padre nel volume autobiografico Figlio di papà, Mondadori 2008, alle pagine 122-123, in un capitolo intitolato Il miracolo:

Le riprese della Porta del cielo iniziarono il 1° marzo del 1944. Dentro la Basilica di San Paolo. A Roma e all’estero. Vi sventola la bandiera bianca e gialla del Vaticano. Che non è in guerra con nessuno. Lì fu girata l’ambientazione della chiesa di Loreto. Lì fu costruito il set con il treno che trasporta i malati.
“Ma io non posso mica accettare la sceneggiatura di nessuno. Io scrivo con Cesare Zavattini, faccio film solo con Zavattini”. Papà era riuscito a imporre anche la riscrittura della sceneggiatura da parte di Cesare. Aveva appena scritto un film andato malissimo: I bambini ci guardano, e poi Zavattini, un ateo, quasi un rivoluzionario, quasi, e grazie a quel quasi papà insomma li ha convinti. E poi ha dovuto convincere Cesare. Che assolutamente non voleva scrivere un film su un miracolo. Ostiava e smadonnava. Ma accettò. La sceneggiatura della Porta del cielo fu scritta all’hotel Boston da Zavattini, Adolfo Franci e Diego Fabbri, quello cattolico, ben introdotto nella Curia, che doveva garantire l’ortodossia. Nonostante la presenza vigile del garante Fabbri, le gerarchie cattoliche ricevettero parecchie delusioni. Prevalse l’irruenza delle idee di Zavattini sostenute da papà. Nel copione il miracolo non c’era. I malati infatti si convincevano che il miracolo non dovevano aspettarselo dalla Madonna ma da loro stessi. Trovando dentro di loro la volontà e l’energia di vivere e guarire. Non fuori nelle forze soprannaturali. E di chi poteva essere questa idea, se non di Cesare? Ma il vero miracolo fu un altro.
Quella notte in cui papà lo ha convinto a fare quella sceneggiatura. Zavattini faceva tardissimo: lavorava di notte, mangiando baccalà fritto all’alba, e in una friggitoria del Ghetto lui e mio padre hanno assistito a una deportazione di ebrei romani. Due camion, uno con i bambini e le donne e l’altro con gli uomini. Tornati a Cinecittà, hanno cominciato a scritturare partigiani, ebrei, amici di intellettuali e si sono chiusi dentro la Basilica di San Paolo e alla fine erano più di quattrocento persone. Che vivevano lì dentro. Tutti i componenti della troupe ebbero uno speciale permesso di circolazione. Un’assicurazione sulla vita, almeno a Roma. Ci fu chi se ne servì per fare il mercato nero, chi per partecipare alla Resistenza. La gente di cinema, inoltre, è spregiudicata, godereccia. Facevano l’amore dentro i confessionali, alcove verticali scomode ma adatte al godimento veloce. Li usavano come vespasiani. Ci dormivano. Toccava ai frati raccogliere i preservativi abbandonati. Il clima di guerra, la persecuzione contro gli ebrei, l’attesa della liberazione, la finzione del film e l’extraterritorialità garantita da quella Basilica trasformavano quel luogo sacro in uno scenario da film di Buñuel. Ma quando papà ordinava il “si gira” quella sorta di sabba infernale di quel popolo di finti preti, suore, feriti, sciancati, mutilati cessava e solo nella finzione del film la chiesa tornava a essere tale.
E un giorno, mentre giravano, comparve un uomo con un abito talare cremisi. Urlò: «Questa è la casa di Dio!». Fu deriso, scambiato per una comparsa appena vestita dalla costumista. Era monsignor Montini. Soltanto papà se ne rese conto e si inginocchiò davanti a lui. Tutti tacquero e si sentì Montini dirgli: «De Sica guardi che noi sappiamo, stia attento, stia attento, non tiri troppo la corda». C’erano un sacco di ebrei dentro. Piperno, Lattes, Levi, Modena. E di partigiani.
Il 5 giugno le riprese continuavano. Roma era ferma. Le lampade erano alimentate dai generatori sottratti alle Ferrovie dello Stato. Falsi sacerdoti celebravano finte messe, finti malati pregavano, finti familiari piangevano. Papà continuava a girare. Senza pellicola. Ormai finita. Anche lui faceva finta.
Finché si sentì il rumore dei tanks e qualcuno gridò: «Gli americani».
«Com’è venuto il film?»
«Bene».
«Ah sì? E il miracolo ce l’hai messo?»
«No».

Christian il burlone confonde la Basilica con l’Abbazia di San Paolo: il film viene “prodotto” negli ambienti dell’Abbazia e non nella Basilica. I preservativi nei confessionali ovviamente sono una sua invenzione. Chiama “frati” i monaci benedettini. Quel Montini che “urla” in “abito talare cremisi” è del tutto inverosimile. Ma la sostanza del fatto è vera. Per un inquadramento storico di quanto avvenne nell’Abbazia a protezione di ebrei e altri perseguitati, vedi Andrea Riccardi, L’inverno più lungo. 1943-44: Pio XII, gli ebrei e i nazisti a Roma, Laterza 2008, pp. 179- 187.
Qui una scheda del film La porta del Cielo.
Qui una recensione di Ennio Flaiano apparsa il 6 maggio 1945 nel settimanale Domenica. Eccone un brano:
La porta del cielo narra di miracoli. Il primo miracolo – mi sembra – è lo stesso film, portato a termine dopo sette mesi di lavorazione attraverso incredibili difficoltà. Non si legge il diario di produzione di questo film senza restare sbalorditi per la serie di incidenti drammatici che ne rallentarono il corso. Basterà ricordare che il 3 giugno scorso, mentre a pochi chilometri di distanza si decideva la battaglia per Roma, ottocento persone tra comparse e tecnici vari erano agli ordini del regista nell’interno della basilica di S. Paolo, intenti a girare, mostrando un disprezzo per la guerra che soltanto Archimede avrebbe condiviso. “Li avevo chiusi a chiave — racconta De Sica — altrimenti qualcuno scappava”. E ride come di uno scherzo riuscito. Il film è stato girato a Roma durante i mesi dell’occupazione tedesca. Probabilmente sarebbe rimasto incompiuto se non fosse stato di proposito una risposta a quell’occupazione, agli atti che la caratterizzarono, e addirittura alla filosofia che l’aveva fatalmente provocata come episodio di una guerra diretta più contro l’Uomo che contro determinate nazioni”.

[Aprile 2010]

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