Compio sessant’anni con una certa incoscienza

Compio sessant’anni e lo faccio con una certa incoscienza, forse la stessa di quando ne compivo venti. E’ bella la voglia di vivere che ci accompagna in ogni età. Non dobbiamo contristarla. E’ la risorsa d’ognuno e certo viene da Dio.
Dedico questa divagazione alla memoria di mio padre, ora che ho raggiunto la sua età e finalmente (a quarant’anni da quando ci lasciò) mi sento di dargli del tu. Ma la dedico anche agli amici che hanno ora la mia età.
Un primo movimento è di gratitudine: in questa lunga avventura, ho conservato la fede e il gusto della vita. E sì che di bazzecole me ne sono capitate.
Per secondo viene l’apprezzamento dell’età in cui sto entrando, che è la vecchiaia: come nome non è un granchè – l’ammetto – ma come stagione della vita, al momento mi piace più d’ogni altra perché mi aiuta al distacco – che è libertà – e mi fa gustare un sentimento che somiglia alla serenità, o alla pace.
Per terza metto una scommessa, che non so affatto come andrà a finire: di accettare per intero la sfida del distacco, ma avendo cura che esso non abbia a intaccare la speranza, anzi le faccia uno spazio ogni giorno più grande.

Proiettato in avanti come sempre
Entro dunque nei territori della terza età ripetendo con il salmo 89 l’invocazione che da tempo accompagna i miei compleanni: Insegnaci a contare i nostri giorni / e giungeremo alla sapienza del cuore.
Contare i giorni lo interpreto come non sprecarli. Gli do lo stesso senso della raccomandazione che faccio a un figlio, quando gli lascio dei soldi che non ha guadagnato: contali bene, falli durare!
Perché in verità i nostri giorni non sono pochi, imparassimo a viverli per intero. Capita invece che essi ci sfuggano da ogni parte e che noi li attraversiamo come in sogno.
Chiedo allo Spirito di insegnarmi a stare attento al tempo che passa, mentre di mio sono proiettato in avanti come sempre. L’agenda piena di conferenze da tenere, gli editori che chiedono libri, il rapporto di lavoro con il Corriere della Sera destinato a durare a lungo perché la più giovane dei figli, Miriam, ha solo dieci anni.
Questa è l’ordinaria amministrazione, che non occupa neanche la metà della mia anima. Su di essa turbinano idee nuove e nuovissime, che non so se mai prenderanno corpo: una lettura familiare del Vangelo di Luca, appena avviata, alla quale invitiamo fidanzati, cugini e amici dei ragazzi, denominata “pizza e Vangelo”; una storia per bambini in cui ho molto investito e che non riesco a portare a termine; il lancio di una rete e una scuola per la raccolta – sul territorio – di “fatti di Vangelo”…
Non mancano i segni dell’età. Quando torno dai viaggi, chiamo a casa perché qualcuno dei ragazzi venga a prendermi la borsa e il computer che mi pesano sulle scale.
La memoria fa i primi scherzi. Avevo pensato di rileggere Le età della vita di Romano Guardini e non mi veniva il nome di questo autore, che ha dato forma – con il volume Il Signore – alla mia passione per la figura di Gesù. Mi sono fatto un appunto che diceva: rileggere il libretto sulle età del teologo tedesco di origine italiana e subito mi è venuto di scrivere Romano Guardini.

Provo a staccarmi dal dizionario Battaglia
So di che si tratta: tra qualche anno, invece di un minuto il nome di Guardini impiegherà un giorno a tornare, altri non torneranno e alcuni libri non ricorderò d’averli letti. La memoria lascia cadere qualcuno degli ingombri di cui l’avevo caricata, proprio come in casa siamo costretti – ogni anno – a regalare o buttare dei libri, perché ne arrivano continuamente di nuovi e nelle stanze non c’è altro posto. La vita semplifica se stessa.
Lo festeggio, questo compleanno, esercitandomi al distacco, che non è affatto – per me e al momento – un’operazione triste.
Dicevo che la memoria provvede da sola a ridurre il carico. Ma altri pesi dovremmo dare una mano noi ad alleggerirli.
A una figlia che se ne è andata da casa, ho già affidato la mia piccola biblioteca di letterature straniere. Quando mi serve un libro, glielo chiedo al telefono e lei me lo porta.
A un’altra figlia, che è ancora con me, ho destinato i 21 volumi del Battaglia, che hanno appena finito di uscire e ai quali sono attaccatissimo. Quando li consulto è come se lei me li prestasse e mi piace vedere che si appassiona a usarli, così un giorno me li leggerà al telefono, quando l’avrà portati con sé e mi verrà curiosità di una parola.
A un centro di documentazione sto regalando la raccolta di storie di vita, che mi riempiva la casa. Mi accorgo che non riesco a leggere una parte delle riviste cui sono abbonato e credo che quest’anno ridurrò la spesa.
Mi sono fatto l’idea che per invecchiare bene occorre esercitarsi al distacco, in modo da essere pronti quando impegnative operazioni di sganciamento ci verranno imposte dal calo delle forze.
Sto realizzando che quello del distacco da una posizione, o dalla proprietà di qualcosa è un esercizio che chiede lo stesso impegno che un giorno fu necessario per l’acquisto di quell’oggetto, o per la conquista di quel posto.
Perché è così difficile l’arte della vecchiaia? Forse proprio perché richiede l’accettazione del limite e progressivi arretramenti. Ciò non è spontaneo.

Il distacco libera l’anima per nuove avventure
Spontanea è la conquista degli anni che salgono, non la separazione imposta da quelli che scendono.
Ma se uno si azzarda al distacco, io penso che gli anni che vengono dopo i sessanta possano essere avventurosi come quelli prima dei venti.
Capita che il passare degli anni ci attacchi sempre di più a tutto ciò che si vede e che si tocca, e questo è pure comprensibile. Già Sofocle scriveva che nessuno ama tanto la vita come l’uomo che sta invecchiando: mi ritrovo in quel frammento acuminato (Acrisio, 63),
L’attaccamento alla vita lo capisco, perché non mi attendo che essa mi venga tolta, ma mutata in vita eterna. Avviene però che il passare degli anni ci incolli ogni giorno di più agli oggetti della vita: ai libri, alle case, al denaro. E questa credo sia una trappola.
Conosco pensionati che fanno due lavori per comprare case che non sapranno a chi lasciare. Ho considerato un’altra vanità sotto il sole: uno è solo, senza eredi, non ha un figlio, non un fratello. Eppure non smette mai di faticare, né il suo occhio è sazio di ricchezza (Qoèlet 4, 7-8).
Tra le stoltezze umane c’è il collezionismo. Una mania che raddoppia quando uno arriva alla pensione. E anche questo è vanità, direbbe Qoèlet.
La mania del collezionismo mi ha sfiorato con i volumi del Battaglia: che goduria aspettare che quei tomi color paglierino, con le scritte in oro, riempissero gli scaffali, arrivando con bella regolarità uno ogni tre anni! E c’era un collega del Corsera, Carlo Galimberti, appassionato come me a quel meraviglioso dizionario della lingua italiana, che una volta mi disse con grande serietà: “Pensa che sfiga, se uno muore prima che sia completato il Battaglia!”
Ho già detto il distacco simbolico che sto prendendo da quel dizionario. Mi piacerebbe trovare la forza di dar via tutto per restare, l’ultimo giorno, senza più nulla; come nulla avevo il primo giorno.
Il distacco libera l’anima per nuove avventure. Ma se non parte dalle cose materiali, resta una chiacchiera.

“Finalmente serena” diceva Hanna Arendt
Platone affermava che nella vecchiaia uno è “finalmente libero” dalla violenza delle passioni. Mi convince di più Hanna Arendt, che proprio in occasione del sessantesimo compleanno confessava a Karl Jaspers di esserne “molto contenta”, perché avvertiva di sentirsi “finalmente serena”, come nei compleanni che festeggiava da bambina le capitava di sentirsi “finalmente cresciuta”.
In una conversazione a tavola, il vescovo Renato Corti mi parlava un anno e mezzo fa di “contentezza e tranquillità”, come suoi sentimenti per l’età che piega in avanti.
Prima matrice della serenità – io credo – è l’accettazione del fatto: occorre riconoscere l’autunno che trapassa nell’inverno, per accoglierne i doni.
Se impari a riconoscerla mentre si avvicina, la vecchiaia non ti coglierà all’improvviso, com’è suo costume.
Conosco una coetanea che chiama ancora “bimbe” le figlie che hanno trent’anni e qualcosa.
I miei cinque figli mi sono ingegnato a chiamarli ragazzi prima che finissero le elementari e a considerarli miei dirimpettai alla maggiore età. Questo non vuol dire che io non debba combattere con me stesso, più volte al giorno, per non pretendere di “decidere tutto”, come dicono in coro.
Frequento coetanei che si tingono i capelli da quando avevano meno di quarant’anni e li hanno ancora nerissimi. I miei sono diventati bianchi prestissimo. Credo di non aver avvertito la tentazione di combattere con il tempo che passava. Mi veniva spontaneo accettarlo. Ora chiedo – come preghiera per questo compleanno maiuscolo – di vincere l’invidia della giovinezza, che si dice rispunti alla mia età e di vedere infine oltre l’inganno delle apparenze.

Sono pieno di attese come a vent’anni
Con l’età le apparenze retrocedono. Si vede di meno e si impara a guardare dietro la facciata. Mi adopero a ridimensionare il visibile nei confronti dell’invisibile, abituandomi a pensare che quello che vedo e so è un nulla rispetto a quanto ignoro. Che l’aldiquà è solo un simbolo dell’aldilà.
Anche con i figli faccio questo esercizio, compiacendomi ogni giorno di scoprire che – lontano da me – imparano cose che io non saprò mai.
A sessant’anni, sono pieno di attese come a venti. Felice di avvertire che ora la mia vita pende decisamente verso il mistero, che è a fondamento del tutto. Lo aspetto e mi addestro a riconoscerlo.

Luigi Accattoli

Da Il Regno 20/2003

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