Luigi Padovese: “Seguire Cristo anche nell’offerta del sangue”

Forse nessuno quanto il patrologo e vescovo Luigi Padovese aveva meditato sulla Turchia come terra martiriale e sulla vocazione al dono della vita che tende a caratterizzare i portatori di responsabilità ecclesiali – specie cattolici e protestanti – nelle regioni dell’attuale risveglio islamico. La rivista Anatolia ieri e oggi e il sito internet Anadolu katolik kilisesi che aveva creato appena nominato vicario apostolico dell’Anatolia (2004) hanno questa vocazione tra i temi dominanti. Riascoltata ora, l’intervista del febbraio scorso alla Radio Vaticana, nel quarto anniversario dell’uccisione di Andrea Santoro, suona come previsione del proprio martirio: “Si è voluto colpire il simbolo che la persona rappresentava” e quel suo destino “ricorda a tutti noi che la sequela di Cristo può arrivare anche all’offerta del sangue”.
Era uno studioso severo ma anche un uomo mite e accessibile, portato a dare credito al prossimo fino a rischiare di apparire ingenuo. Chi l’ha frequentato – come il padre Paolo Grasselli, cappuccino come lui e provinciale dei cappuccini dell’Emilia Romagna, che si occupano dei “santuari” che sono in Turchia – non ha difficoltà a immaginare che possa essersi “fidato troppo” dell’autista che l’ha ucciso.
Si accalorava nel sostenere sia il diritto alla visibilità del cristianesimo turco, sia l’ingresso della Turchia nell’Unione Europea. Di questi argomenti ebbi occasione di parlare con lui in alcune interviste telefoniche e una sera a Istanbul, durante la visita in Turchia di Benedetto XVI nel novembre del 2006.
Lo intervistai per il Corriere della sera il 21 dicembre del 2004 sull’ingresso della Turchia nell’Unione europea. Dava per ovvio il favore “di tutti i cristiani che sono in Turchia” – “forse centomila” era la sua stima – a quell’ingresso: “Non potrebbe che essere vantaggioso per noi, perché siano riconosciute le nostre strutture e perché i cristiani di qui possano accedere a tutte le professioni”. All’obiezione che la Turchia avrebbe portato in Europa l’islamismo politico rispondeva così: “E’ un’idea dettata dalla paura: la minaccia islamista viene dal mondo arabo, non dalla Turchia”.
Riconosceva con rammarico che “i cristiani in Turchia sono restati in pochi e sono dispersi qua e là” proprio a motivo del contesto “discriminatorio” in cui si trovano a vivere, ma era convinto che avrebbe potuto anche esservi “una qualche rinascita”, perché “proprio qui sono le radici del cristianesimo: Paolo e Luca sono nati qui, buona parte del Nuovo Testamento è stata scritta qui, o per comunità che qui vivevano; qui si sono tenuti i primi sette concili della Chiesa indivisa e qui ha preso forma il Credo che cantiamo la domenica nelle chiese”. Le ragioni dello studioso e quelle vocazionali facevano un tutt’uno nella sua perorazione: “Sono 27 anni che faccio la spola tra l’Italia e la Turchia per studiare quelle radici cristiane. Ho organizzato convegni internazionali sugli apostoli Pietro, Paolo e Giovanni a Efeso, a Tarso e ad Antiochia. In questi anni ho visto un grande cambiamento e ho sperimentato la crescita di un clima culturale sempre più europeo”.
Si diceva “amico e innamorato della Turchia”. Quanto all’Islam riteneva “impossibile” un “dialogo a livello teologico”, ma possibile e anzi necessario “uno sforzo comune per un maggior rispetto, frutto di una chiarificazione e conoscenza reciproca”. Convinto che la visibilità fosse essenziale alla Chiesa organizzò un “simposio islamo-cristiano” con la partecipazione delle autorità statali e l’aprì con queste parole coraggiose: “Non posso dimenticare che alla base di questa nostra iniziativa c’è la figura del sacerdote cattolico Don Andrea Santoro che di questo dialogo ha voluto essere un testimone sia ad Urfa che a Trabzon. Ora più di prima ritengo indispensabile che ricerchiamo con tutte le forze il dialogo interreligioso impedendo qualsiasi strumentalizzazione delle religioni. E’ attraverso il dialogo che si combatte il fanatismo che non è vera fede, ma una sua perversione” (Anatolia ieri e oggi, 5, giugno 2007, editoriale).
Sul dialogo con l’islam le parole più vive le ha scritte nella Lettera della Conferenza episcopale della Turchia in occasione dell’Anno paolino 2008-2009 che è firmata dai sette vescovi cattolici del paese ma fu scritta da lui, che nel 2007 era stato eletto presidente della Conferenza: “Si dialoga veramente quando ciascuno rimane se stesso, mantenendo intatta la propria identità di fede, non tacendo mai, per nessuna ragione, quanto potrebbe apparire difficile da capire per chi non è cristiano”. Quella lettera a mio parere è il suo capolavoro di vescovo.
Ispirate all’esigenza di una prudente visibilità erano le sue iniziative innovatrici, di cui dava conto la pagina Notizie del sito internet del Vicariato: campi scuola e feste della gioventù, persino un “Incontro nazionale dei giovani turchi”; proiezioni di film a tematica cristiana; conferenze e celebrazioni ecumeniche, convegni culturali. La rivista e il sito internet hanno foto e didascalie audaci per il contesto turco: “Uno dei 26 battesimi per adulti amministrati nel 2005” si legge sotto a un’immagine riportata a p. 21 del fascicolo 3, giugno 2003, della rivista.
Nell’editoriale del secondo numero della rivista (dicembre 2005), intitolato “Vivere e pensare da cristiani in un mondo non cristiano”, abborda il tema dei temi: “Tra tutti i paesi di antica tradizione cristiana, nessuno ha avuto tanti martiri come la Turchia. La terra che noi calpestiamo é stata lavata con il sangue di tanti martiri che hanno scelto di morire per Cristo anziché rinnegarlo. Sappiamo tutti che nel nostro paese non é sempre facile manifestare la nostra identità cristiana. Siamo condizionati dall’ambiente: a volte abbiamo addirittura paura di dire quello che siamo per le conseguenze sociali che potrebbero derivarne (…). Noi tutti viviamo qui in una situazione di minoranza rispetto ai nostri fratelli musulmani. Io vi invito a guardare a questa situazione come un’occasione per diventare sempre più coscienti della nostra fede. In altri paesi dove la maggioranza è cristiana, é più grande il rischio di dirsi cristiani senza esserlo. Qui da noi dobbiamo esserlo e mostrare di esserlo. Il nostro impegno non é di convertire altri alla nostra fede, ma di mostrare semplicemente che è bello essere cristiani”.
L’editoriale del numero 3 (giugno 2006) tira le conseguenze di quell’impostazione: “La nostra terra, un tempo così ricca di sacerdoti e monaci e religiose, ora deve servirsi di personale che viene dall’estero. Spero che arrivi il tempo in cui si potrà parlare di sacerdoti, di religiose/i e anche di vescovi turchi. Per arrivare a tanto bisogna pregare e offrire ai giovani nelle loro famiglie un’atmosfera di fede. Non si raccoglie se non si semina. Con un po’ di sforzo economico stiamo sistemando anche la nostra casa d’Iskenderun perché possa ospitare convegni di studio sul cristianesimo e l’islam. Nella mia breve permanenza in Turchia mi sono reso conto che i nostri fratelli musulmani hanno poche idee sulla nostra fede e spesso cariche di pregiudizi. Tra le novità del vicariato voglio ricordare, inoltre, la nascita di un website: www.anadolukatolikkilisesi.org. Per chi entra in internet sarà questo lo strumento per farci conoscere”.
Come del sito – aperto “con forte desiderio”, si legge nell’home page – egli era orgoglioso della rivista: “L’abbiamo intitolata Anatolia ieri ed oggi con una chiara intenzione. Anzitutto quella di fare conoscere meglio le ricchezze storiche della terra su cui camminiamo e, in particolare, quelle cristiane” e poi perché “ravvivare la memoria del passato serve a rafforzare la nostra identità” (editoriale del primo numero, dicembre 2004).
In un’intervista al Regno attualità 2/2008, 25-26 lamentava la “mancata inculturazione” del cristianesimo in Turchia: “Fino a qualche anno fa, se non si conosceva il francese o l’italiano era impossibile divenire cristiani. Ci si sta muovendo lentamente attraverso pubblicazioni in lingua turca: catechismi, traduzioni di libri, breviari, CD. Questo mutamento si riflette anche nell’accoglienza di quei turchi musulmani che sono in ricerca e che chiedono di diventare cristiani”.
Dopo l’uccisione di don Andrea la riflessione martiriale si fa cogente. La lettera pastorale del 2006 è intitolata Siate sempre pronti a testimoniare la speranza che è in voi: “Avete tutti saputo delle difficoltà che la nostra Chiesa di Anatolia ha vissuto quest’anno: l’assassinio di Don Andrea Santoro a Trabzon, il ferimento di P. Pierre Brunissen a Samsun, le minacce ai Padri di Mersin, la chiusura della Chiesa di Adana, il persistente atteggiamento ostile nei nostri confronti in certa stampa locale. Dinanzi a queste situazioni, la tentazione é quella di chiudersi nell’anonimato, di confondersi tra gli altri per paura, per opportunismo, spesso – purtroppo – soltanto per necessità di sopravvivenza economica. E’ abbastanza normale in questa situazione cedere allo scoraggiamento e alla rassegnazione e vi confesso che pure io ho avvertito questa tentazione. Ma (…) che cosa ci dice il Signore con la morte di Don Andrea? Ci ricorda che essere discepoli di Gesù in questo mondo non é facile, anzi, può essere addirittura rischioso (…). Il sacrificio di questo sacerdote é pertanto un invito a ravvivare la nostra identità di cristiani”.
Nella lettera pastorale del 2007, Siamo successori di Paolo e dei primi cristiani, torna sulla tentazione del nascondimento: “Ormai sono quasi tre anni da quando la Provvidenza mi ha inviato tra di voi. Tante preoccupazioni e problemi mi hanno spesso tolto la tranquillità e come Pietro in mezzo al mare, ho chiesto al Signore: “Aiutami, perché sto affondando” (…). Da fratello che parla ad altri fratelli, permettete che richiami una difficoltà che a volte mi crea tristezza: l’impressione che la nostra fede sia convenzionale, manchi di un approfondimento e si esprima in una partecipazione ridotta alla preghiera comunitaria, soprattutto la domenica. Molti di voi appartengono a famiglie che hanno avuto il coraggio di rimanere cristiane, nonostante le pressioni esterne contrarie. Sapete bene che nel secolo scorso in questa nostra Turchia, diversi cristiani per necessità o per convenienza, ma certo non volentieri, hanno rinunciato alla loro fede o l’hanno nascosta. Sono ancora centinaia di migliaia i discendenti di queste famiglie antico-cristiane e con piacere noto che, di tanto in tanto, qualcuno occasionalmente si richiama alla fede dei propri genitori o nonni. Dico queste cose non per giudicare chi ha abbandonato la propria identità cristiana, ma per dire a voi che la fede trasmessa da quanti ci hanno preceduto non è come un quadro antico che conserviamo nelle nostre case, ma è un dono di Dio che non vive senza la nostra collaborazione”.
Il martirio come visibilità e semina torna nell’omelia che tiene a Trabzon, il 5 febbraio scorso, nell’anniversario del martirio di don Andrea: “Sono passati quattro anni da quando don Andrea è stato ucciso in questa Chiesa. Perché? (…) Certamente nel colpire don Andrea era il sacerdote cattolico che si voleva colpire. Il suo sacerdozio è stata perciò la causa del suo martirio. Attraverso il suo sangue don Andrea ha celebrato con Cristo l’unica eucaristia: Questo è il mio sangue versato per voi e per tutti per il perdono dei peccati’ (…). Cari fratelli, il sangue che don Andrea ha versato in questa Chiesa non è stato inutile. Pensiamo a quanti fratelli e sorelle in tutto il mondo hanno conosciuto il suo sacrificio e sono stati confermati nella volontà di vivere per Cristo e, se necessario, di morire per Lui. Questo umile sacerdote, conosciuto da pochi, con la sua morte è divenuto testimone per molti. Chi voleva farlo scomparire, in realtà ha prodotto l’effetto contrario. Ora, per molti, in tutto il mondo il nome di Trebisonda è legato a quello di don Andrea”.
Nonostante le difficoltà si era mantenuto fiducioso nel prevedere un miglioramento della situazione dei cristiani e giusto una settimana prima della morte aveva accolto con “grande festa” la notizia che le autorità turche avevano tolto l’obbligo di pagare il biglietto per i pellegrini che volevano pregare nella chiesa di San Paolo a Tarso. Sperava di poter ottenere che quell’edificio – che ora è un museo – fosse “affidato stabilmente ai cristiani”.
In un testo scritto per AsiaNews in occasione dell’Anno Paolino e pubblicato l’8 aprile 2009 accennava con fiducia alle conversioni che forse sono all’origine della sua uccisione:  “Nonostante tutto, il nostro atteggiamento è molto positivo anche nei riguardi dell’islam. Qui io trovo tanta gente di buona volontà, coscienziosa (…).Devo però aggiungere che per alcuni miei cristiani la Via Crucis è un fatto di oggi, non una cosa del passato. All’interno del vicariato di Anatolia ci sono davvero situazioni difficili (…). Ci sono ancora cristiani vicini alla sofferenza di Gesù. Ma vi sono anche musulmani che si avvicinano al cristianesimo proprio attraverso le sofferenze di Gesù. Un piccolo numero sono divenuti cristiani. La loro è stata una scelta sofferta e meditata per le conseguenze, i rischi, le fatiche che porta nella loro vita”.

[Testo pubblicato da Il Regno attualità, 12/2010]

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