Gertrude che sorride a tutti nella guerra dell’Angola

Gertrude è una trappista di Valserena, Pisa, trapiantata per amore del Vangelo dalla Toscana all’Africa: faceva parte del primo nucleo di 22 “sorelle” che diede vita alla fondazione di Valserena, e le fu chiesto in seguito di partire per Huambo, in Angola, nel 1980. E’ rientrata a Valserena nel 2009. Più che una trappista la diresti un marine, o un Paolo dei nostri giorni che attraversa “pericoli di fiumi, di briganti, nella città, nel deserto, sul mare, fatica e travaglio, veglie senza numero, fame e sete” (2 Corinti 11). Ma è una donna e ha sempre un sorriso per tutti, offerto “come un segno di speranza in un inferno di guerra”.
Quando la guerriglia divampa nella regione di Huambo, Gertrude viene dislocata a Luanda per “proteggere” dalla capitale le attività del monastero e per otto anni – tra il 1987 e il 1995 – vive separata dalla comunità. Si accampa e accasa come può a Luanda, convive con la guerra dormendo quattro ore per notte e facendo ogni mestiere. Soprattutto fa la spola tra la capitale e il monastero di Huambo, per mille chilometri, con aerei e camion, tra mine e banditi, trasportando container con gli aiuti che gli “amici” delle trappiste mandano dall’Italia. Quando i guerriglieri dell’Unita conquistano Huambo resta per quattro mesi isolata, ignorando se “le sue sorelle”sono vive o morte. Credo che la nostra Chiesa le dovrebbe fare un monumento, se si usasse. Ma quantomeno dovremmo adoperarci a narrare la sua storia, che invece nessuno conosce. Eccone qualche squarcio sulla base di una sua memoria scritta, fino a oggi inedita.
Quand’ero a Luanda il mio era un lavoro delicato e difficile, sempre faticoso. Solo un grande amore a Cristo e alla sua Chiesa, per me incarnata nella mia comunità di Huambo e in tutto il popolo martirizzato di Angola, mi dava vigore per una disponibilità totale a questo tipo di cose. É Dio che mi ha aperto le porte e il cuore della gente. Dovendo contattare tutte le compagnie aeree di Luanda, a un certo punto conoscevo tutti gli aerei, i piloti e tutte le persone di responsabilità dalle quali dipendeva il buon esito del mio lavoro (…). Portavo loro verdure, legumi e frutta del nostro orto che apprezzavano molto perché genuina e di qualità. Dappertutto ho trovato accoglienza; a volte ottenevo anche l’impossibile, come quando un comandante delle forze armate angolane ha messo a mia disposizione un Boeing grazie al quale ho trasportato 30 tonnellate di viveri in una sola volta a Huambo. Aver a che fare con il mondo militare richiedeva molta vigilanza e coraggio (…) e sorridere a tutti come un segno di speranza in un inferno di guerra. Spesso ho viaggiato con aerei militari che trasportavano armi: bombe, carri armati, combustibile, esplosivi. Chiedevo di poter accompagnare la merce io stessa per evitare che la merce fosse rubata, soprattutto all’arrivo nell’aeroporto di Huambo dove ci attendeva un mondo militare indisciplinato e corrotto a causa della fame. Negli aerei militari ho sempre viaggiato nella stiva, seduta sui sacchi della merce, ben conscia dei pericoli che correvo per via del materiale esplosivo con cui viaggiavo. Ogni istante era come una preparazione alla morte (…).
Tutta la Chiesa di Huambo era compatta nell’opera eroica di caritàche si svolgeva in ogni angolo del territorio: seppellire almeno alcuni fra le migliaia di morti che giacevano sulle strade, raccogliere le ossa di tanti scheletri umani che i cani randagi si erano presi cura di pulire, lavare e curare le piaghe piene di vermi dii feriti militari e civili, consolare e nutrire quelli che morivano di fame. In tutte le vicende della guerra in Angola con i suoi orrori, la Trappa di Huambo é stata una forte testimonianza per la sua continua vita di preghiera e di sacrificio, per la sua fedeltà nel restare al suo posto in mezzo ai pericoli, come una sentinella di speranza; per la sua accoglienza e condivisione di vita dando asilo a membri di numerose comunità religiose, e per due anni anche a 250 persone circa ricercate per essere condannate a morte.
L’Unita dunque domina a Huambo e Gertrude non resiste più al bisogno di vedere le consorelle e di consegnare la gran quantità di cibo e di medicinali giunti dall’Italia. L’informano che imbarcarsi su un aereo senza un “lasciapassare dell’Unita” sarebbe suicida, ma ci vuol altro per fermarla: “Dissi che non sarei scesa dall’aereo e che Dio mi avrebbe aiutato”. Parte dunque all’avventura e negli annali dell’evangelizzazione dell’Africa va messo anche un suo sorriso accattivante dal portellone dell’aereo:
Una volta aperta la porta dell’aereo mi affacciai per vedere. Tutto intorno c’erano militari dell’Unita con le armi spianate che mi guardavano con una faccia severa. Salutai con un sorriso ma non ebbi alcun cenno di risposta. Allora presi il coraggio a quattro mani e dopo essere scesa con molta attenzione e lentezza dalla scaletta di metallo, salutai tutti in bundo e vidi avanzare verso di me un capo militare disarmato. Riconobbi in lui un vecchio amico della Trappa di Huambo. Mi chiese i documenti e l’autorizzazione di entrata a Huambo! Lo chiamai per nome: «Signor Zimbabwe, lei mi conosce, sa cosa ho fatto per 12 anni a Huambo e cosa fa la mia comunità da sempre per i poveri». Lui mi risponde: «Sì, ti conosco, ma… i documenti!» Allora spiegai che avevo azzardato a venire per portare il mio aiuto. I militari intorno avevano sentito il mio discorso. Il mio atteggiamento naturale disinvolto li aveva sorpresi e le loro facce si mostrarono meno severe, ma nessuno osava dire. Il Signor Zimbabwe mi presentò a un Generale dell’Unita a cui dissi tutta la verità.
Il Generale diede ordini al Signor Zimbabwe di far entrare Antonia e Martinha [da me avvertite attraverso Radio Caritas] che attendevano fuori dell’aeroporto. Vi lascio immaginare l’incontro con le mie consorelle: un’esplosione di meraviglia e di gioia! Erano salti, abbracci a non finire, un parlare in tutte le lingue: bundu, portoghese e italiano! Il tutto davanti ai militari esterrefatti. Consegnai a Madre Antonia e a Martinha quanto avevo portato e che loro subito caricarono sul Toyota, mentre tutto veniva controllato dai militari (…).
La quarta volta che feci il mio trasporto a Huambo non avevo potuto avvisare Madre Antonia via radio, e in aeroporto chiesi all’Unita di fare un salto fino a casa per avvisare del carico e per salutare le consorelle. Sarei rientrata nel giro di 15 minuti, il tempo che impiegava l’aereo a scaricare la merce. Due militari mi accompagnarono con un carro sgangherato fino a casa. Fuori dal portone del monastero c’era una folla di rifugiati che attendevano. Molti mi riconobbero gridando di gioia e i militari guardavano ammirati. Mentre io visitavo il Tabernacolo in Cappella, qualche sorella aveva suonato a distesa la campana e fu così che in un attimo ci trovammo tutte riunite nel piccolo chiostro (…).
Dopo i primi contatti con i militari dell’Unita, ho continuato a viaggiare settimane e mesi per portare a Huambo quintali su quintali di merci, anche 10 tonnellate alla volta! Erano generi alimentari, medicine e vestiario destinati alla nostra comunità, ma che servivano per aiutare tutti, ma anche un intero container da 20 tonnellate arrivato dalla Spagna per la comunità dei padri Trappisti che viveva a Kuando. Siccome a Huambo non c’era energia elettrica e mancava il combustibile per le macchine, ho sempre provveduto io ad acquistare a Luanda e poi a trasportare a Huambo migliaia di litri di gasolio in grandi bidoni di ferro. Per richiesta del Vescovo di Huambo avevo fatto degli acquisti di farina e altri viveri a Luanda, destinati ad Seminario maggiore e minore di Huambo, e tutto avevo trasportato a destinazione.
Gertrude realizza la sua maggiore impresa con la sistemazione della “base” di Kikolo, alla periferia di Luanda: un’area cintata dove parcheggiare gli “aiuti” e una casa dove ospitare persone di passaggio. Senza quella base lei era raminga nella capitale, costretta a fare “anche 30 chilometri al giorno a piedi” per fare la spola tra gli alloggi occasionali, le istituzioni governative e le ambasciate con le quali doveva trattare. Nel 1991 la nostra “donna forte” mette gli occhi su un “angolo di terra”che acquista e intesta alla comunità di Huambo, che l’incarica di cintarlo e di costruirvi un edificio:
Kikolo era un terreno aperto, senza acqua: esisteva solo una casetta malandata, composta di tre stanzette, abitata da rifugiati che coltivavano nel tempo delle piogge, ma questi ragazzi erano drogati e non potevano offrirmi un grande aiuto. Ho cominciato a comprare il materiale per la costruzione: cemento, ghiaia, sabbia, acqua etc. Tra i rifugiati avevo scoperto persone capaci di costruire. Così avevo dato lavoro a 25-30 operai. I lavori ebbero inizio nel giugno 1992 e andarono avanti fino al 1995, creando una struttura completa, perché la nostra comunità di Huambo avesse la possibilità di essere a casa propria ogni volta che si veniva a Luanda per visite mediche, periodi di cure, transiti verso l’Europa, acquisti vari e per corsi di studio (…). Luanda era un caos e io vivevo e lavoravo in questo caos. Il mio rapporto con gli operai era di molto rispetto, fraterno, amico. Tutti mi hanno aiutato, e anch’io aiutavo tutti nei loro bisogni. Kikolo era come una famiglia religiosa, si pregava insieme e regnava la pace.
E’ appena ultimato il muro di cinta “con due bei portoni di ferro” quando si interrompe la tregua del 1992 e riprende la guerra: “La nostra auto correva in mezzo a una pioggia di pallottole”.
Sbarriamo tutto e ci chiudiamo dentro, ringraziando il Signore per quel po’ d’acqua che avevamo nella grande cisterna sotterranea che da poco avevamo finito di costruire (…). Gli scoppi delle esplosioni e dei colpi di armi pesanti erano assordanti e ininterrotti. Tutti erano chiamati alla guerra. Nel giro di poche ore il Governo aveva armato persino i detenuti delle carceri tra i quali molti assassini. Non si sapeva più chi era il nemico, erano tutti armati e drogati. Si uccideva per uccidere (…). Sulle strade più di 3.000 morti, di cui molti a pezzi, altri bruciati (…). Per evitare un’epidemia vennero scavate delle grandi fosse dove poi la stessa pala meccanica gettava i morti. Erano scene strazianti, l’uomo era eliminato con orrore e disprezzo (…).
Una sera sei poliziotti battono alla porta gridando: «Apri! Spariamo!» e sparavano colpi di fucile in aria. Allora mi vestii e risposi: «Aspetta, apro subito!». Uscita fuori mi presento: «Sono una suora della Chiesa Cattolica, cosa cercate? Cosa volete?» Subito mi puntano le armi in faccia, ai lati, alle spalle: ero tutta circondata di fucili e mi gridano: «Braccia in alto!» Per 15 minuti rimasi in quella posizione sotto le loro minacce: «Consegna i dollari! E se no ti uccidiamo!» (…). Albino e Luis avevano una tremenda paura: non si poteva stare più a Kikolo, era troppo pericoloso. Li ascoltai, ho riflettuto, ho pensato alla Chiesa che non deve fuggire, alla mia comunità di Huambo, alla situazione di tutto il popolo angolano. Risposi ad Albino e a Luis che sarei andata a denunziare il fatto ai capi della polizia per vedere cosa dicevano e cosa si poteva fare. In tutti i modi io non avrei abbandonato Kikolo. Sono i ladri e gli assassini che devono scappare, non noi! Cosa sarebbe l’Angola abbandonata a loro? (…)
Un’altra notte ci furono sparatorie ed esplosioni per tre ore intorno a noi e si pensava davvero che fosse la fine del mondo. Subito ho pensato di salvare il Santissimo: al chiarore della lampada cerco di aprire il Tabernacolo e con la pisside delle ostie consacrate stretta fra le mie braccia e contro il petto, passai in mezzo alla pioggia di pallottole e mi nascosi dentro un rifugio sotterraneo scavato nella nostra proprietà. Rimasi prostrata in adorazione per circa tre ore, fino a quando le nostre guardie vennero a dirmi che potevo uscire.

La memoria scritta – fino a oggi inedita –che ho utilizzato per questo racconto, riducendola a un terzo del testo originale, mi è stata fornita dalla badessa di Valserena. La memoria è intitolata La storia di Kikolo ed è stata redatta da suor Gertrude lungo il 2009, dopo il suo rientro dall’Angola a Valserena. Per altre informazioni su Valserena vedi in questo capitolo il testo Monica della Volpe: quattro donne in terra di Soria.

[Maggio 2010]

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