Il “pellegrinaggio in povertà” dei giovani Gesuiti

Uno può pensare che il pellegrinaggio a piedi si addica oggi ai perdigiorno e magari ai nuovi movimenti ecclesiali ma che sia lontano dalla disciplina degli ordini religiosi, ma non è così e per esempio la Compagnia di Gesù lo prescrive ancora ai giovani Gesuiti. Ecco il racconto – su mia richiesta – di uno di loro, fr. Davide Benatti, che tra il 17 e il 30 agosto del 2007 si è fatto “pellegrino in povertà” in compagnia del confratello Gabriele Semino, dal noviziato di Genova al Santuario della Madonna di Montenero, Livorno.

Il pellegrinaggio in povertà (tappa obbligatoria del cammino del noviziato) è innanzitutto un’esperienza spirituale. Un’esperienza di affidamento al Signore, anche quando sembra che non ci sia, cercando di mettere la ricerca di Lui al primo posto senza darsi preoccupazione del mangiare, del dormire, ecc. (cfr. Luca 12,22ss), è un provare a farsi sostenere dalla Provvidenza in quanto si parte solo con uno zaino, possibilmente leggero, e senza soldi. Non si parte da soli ma in due o in tre, non tanto perché sia più facile, ma perché come i discepoli dobbiamo dimostrare di amare il fratello, il compagno… tutto il giorno e tutta la notte. Il pellegrinaggio è un’esperienza paradigmatica della vita.
I nostri compagni di viaggio inizialmente sono stati la strada, l’asfalto, il sole torrido, le macchine che passano a pochi centimetri, abbiamo mangiato polvere e qualche frutto colto qua e là. Per gustare questa esperienza occorre pian piano lasciare indietro le proprie certezze, l’ansia da prestazione, l’ansia di arrivare il prima possibile, cominciare a rendersi conto che si è bisognosi di tutto, dalle cose più semplici come una doccia a fine giornata, ad un bicchiere d’acqua offerto lungo la strada, o una cena con un inaspettato bicchiere di vino prima di andare a dormire. Si fa eucarestia: qualcuno spezza il pane per noi e ci offre del vino, in contraccambio nulla di particolare (la legge del do ut des in questo caso non funziona): si parla, si ascolta, si chiede, si aprono le mani e un po’ di più il cuore, infine si ringrazia il Signore per gli incontri fatti, per i momenti di comunione, per tutte le persone incontrate, sia quelle che hanno aperto la porta, sia quelle che l’hanno chiusa. L’esperienza è decisamente spirituale, si guarda il cielo, si ascolta il cuore e si ricerca la presenza di Dio nel tragitto. Esperienza radicale perché radicali sono gli incontri che si fanno, non solo sfamano dal punto di vista materiale, ma ci riempiono di vita, è un ricevere delle storie da ascoltare, custodire, e infine da presentare al Signore. È conoscere gli uomini in un rapporto gratuito, nella consapevolezza che ciascuno si presenta meglio per quello che veramente è quando non ha niente da offrirgli. È condividere, almeno per qualche giorno, l’esperienza di milioni di persone che per qualche motivo sono costrette a non avere fissa dimora e sicurezze.
L’importanza del pellegrinaggio non è tanto la meta, ma il cammino fatto tutti i giorni (la meta è piuttosto la stella polare che ci indica la strada), sperimentando la Provvidenza, che non consiste tanto nell’esser sfamati o nel trovare da dormire la notte, ma nel modo particolare con cui si sono susseguiti gli incontri. Le tante storie incrociate, persone che forse non rivedrai più, ma che nell’ascoltare e nel darti anche un bicchiere d’acqua hanno realizzato in terra il Regno. Un cammino che, inutile dirlo, è per sua natura più spirituale che fisico perché la spiritualità di ciascuno può realizzarsi solo nel mondo, con tutte le contraddizioni che ci possono essere. È un cammino che è vangelo sperimentato, vissuto e anche dubitato, perché si impara che il dubbio porta alla ricerca, e alla preghiera, viva e radicale.
Tra i Gesuiti il pellegrinaggio ha la sua radice nell’esperienza stessa di Ignazio che nell’Autobiografia parla di se stesso in terza persona come del “pellegrino”. Subito dopo la conversione parte per Monserrat, per una veglia d’arme, da lì si ritira in una grotta a Manresa. Successivamente decide di andare in Terra Santa e rimanere a vivere lì dove aveva vissuto il suo Signore, dandosi da fare “para ajudar las almas”. In quest’esperienza di totale affidamento alla Provvidenza, al punto da non prendere con sé niente per il viaggio, Ignazio aveva scoperto la presenza concreta di Dio. Per questo motivo, quando, diventato Generale della Compagnia, scrive le Costituzioni, tra le esperienze del tempo del Noviziato egli inserisce il pellegrinaggio.
Nonostante la sua gamba malconcia dopo il colpo di bombarda ricevuto a Pamplona, Ignazio ha percorso un numero di chilometri impressionante lungo l’Europa: da Loyola a Barcellona, da Roma a Venezia, dalla Terra Santa a Genova, da Parigi alle Fiandre. Per questo una delle più celebri biografie di Ignazio, quella di Dalmases, si intitola “Ignazio, da solo e a piedi”.
In Italia, negli anni ’70 e ’80 i novizi furono dispensati dal “pellegrinaggio in povertà” a causa del clima politico caratterizzato dal terrorismo e dagli attentati. Non solo la situazione non garantiva l’incolumità dei novizi, ma i novizi stessi potevano destare sospetti e indurre a reazioni violente.

[Luglio 2010]

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