Magnum Jubilaeum, Sede Apostolica Vacante, Inizio del ministero petrino

Intervento alla presentazione dei tre volumi, curati dall’Ufficio delle Celebrazioni liturgiche e pubblicati dalla Libreria Editrice vaticana

Aula del Sinodo – venerdì 9 novembre 2007

Magnum Iubilaeum – Trinitati Canticum è un volume di 1190 pagine che documenta l’aspetto celebrativo del Grande Giubileo dell’anno 2000, con riproduzione dei testi appositamente elaborati, accompagnati – quand’è il caso – dalle annotazioni musicali di nuova composizione. Saggi di approfondimento trattano delle celebrazioni principali, dei luoghi, delle iconi, delle vesti e delle insegne, del canto e della musica che le hanno caratterizzate. Un ricco corredo di foto e due capitoli sulle riprese televisive rispondono all’esigenza e agli interrogativi della documentazione visiva.
Scorrendo il magnifico volume si ha una forte percezione del Grande Giubileo come stagione rara e difficilmente ripetibile di creatività liturgica, culmine – si direbbe – del grande periodo innovativo della liturgia papale che va dal Vaticano II all’avvio del nuovo millennio. Una creatività resa possibile dall’incontro fortunato dell’ansia apostolica di Giovanni Paolo II con la fase matura del laboratorio liturgico venuto a costituirsi lungo quel Pontificato sotto la guida del Maestro delle celebrazioni pontificie Piero Marini.
Il volume accuratamente informa sulle novità rituali e testuali rispetto ai precedenti giubilei e ad alcune di esse ora sommariamente accenno, in una rassegna più ampia che approfondita, dal momento che le abbiamo ancora tutti negli occhi, per così dire.
Eccoci all’apertura della porta santa della Basilica vaticana la notte di Natale del 1999: “Il Santo Padre in silenzio sale i gradini e apre la porta spingendo le valve con le due mani“, quindi “riceve il libro dei Vangeli e lo mostra in silenzio” (pp. 108s). Gesti nuovi sia lo spingere con le mani la porta, sia l’elevazione dei Vangeli a esprimere la “centralità di Cristo”. Molto si è discusso del piviale, forse troppo luminescente, indossato nell’occasione dal papa e poco si è colta la novità di quell’attraversamento della porta, immagine del passaggio del millennio, con i Vangeli levati in alto. [Su quel piviale – descritto come “manto rosso-azzurro” – si può leggere una pagina godibilissima tra le tante che ha scritto per la seconda parte di questo volume il padre Crispino Valenziano, nel saggio intitolato Testi e insegne.] Il papa con il libro dei Vangeli – che alzava come poteva – costituisce anche una forte immagine riassuntiva della peculiare interpretazione wojtyliana del ministero petrino come predicazione del Vangelo fino ai confini della terra.
Sempre tra i gesti e i testi di quella notte va ricordata la Proclamazione del Giubileo, di nuova composizione e la felice intonazione narrativa che la caratterizza: “Venti secoli sono passati da quel giorno beato…” (p. 113) e che ricorda l’Exultet della notte di Pasqua.
Le novità più audaci attestate dal volume le vedo nella celebrazione per l’apertura della “porta santa” ecumenica di San Paolo fuori le Mura, il 18 gennaio 2000. Novità audaci ma giustificate, perché nuova e provvidenziale è l’esperienza della preghiera in comune. “Il Santo Padre e altri due rappresentanti delle altre Chiese e Comunità ecclesiali aprono la Porta santa” e subito dopo egli e tre altri rappresentanti di Chiese e Comunità diverse dalla cattolica con gesti successivi “mostrano il libro dei Vangeli ai quattro punti cardinali” (p. 155). Si è trattato forse del gesto più eloquente con cui al passaggio del millennio le Chiese cristiane – a quell’assemblea ne erano presenti più di venti – si sono presentate come sorelle sulla scena del mondo: “se non pienamente unite almeno più prossime a superare le divisioni del secondo millennio”, com’era suonato l’auspicio del papa.
Quella di San Paolo è stata una celebrazione “presieduta dal Santo Padre e ‘concelebrata’ dai rappresentanti delle altre Chiese e Comunità ecclesiali“: l’espressione è usata dall’arcivescovo Piero Marini nella “presentazione del rito” (p. 148). In essa “almeno 15 rappresentanti di altre Chiese e Comunità ecclesiali intervengono in modo attivo nella proclamazione dei testi o nel compiere alcuni gesti rituali” (ivi). Il Credo, introdotto dal papa, “è detto in greco, latino e tedesco” da tre di quei rappresentanti (p. 149). Tocca al diacono ortodosso portare in processione e intronizzare il libro dei Vangeli (157).
La preghiera comune dei figli è gradita a Dio Padre” (p. 158) è un passaggio di una monizione di nuova composizione pronunciata dal papa a introduzione della salmodia: passaggio che bene riassume l’intera opera ecumenica del Pontificato di Giovanni Paolo. Si pensi a che cosa hanno rappresentato il suo anelito e la sua provocazione alla preghiera comune nelle visite ai paesi a maggioranza ortodossa: in Romania e in Bulgaria, in Georgia e in Ucraina, in Grecia e al monastero di Santa Caterina sul monte Sinai. Nello spirito del principio lex orandi lex credendi quella monizione potrebbe essere riconosciuta un giorno come motto riassuntivo di una delle massime questioni cristiane del nostro tempo: quella del pregare insieme tra appartenenti a Chiese diverse.
Altrettanto o forse di più si dovrebbe dire della celebrazione della Giornata del perdono, la prima domenica di Quaresima dell’anno 2000, il 12 marzo: i sette invitatori e le sette orazioni della preghiera universale, intitolata Confessione delle colpe e richiesta di perdono, che in questo volume trova un degno luogo di consegna alle future generazioni, essendo di certo vocata a restare come una pietra miliare nella storia della Chiesa (pp. 222-228); le sette lampade accese, per ognuna di quelle orazioni, davanti al Crocifisso; Giovanni Paolo che “in segno di penitenza e venerazione abbraccia e bacia il Crocifisso” (pp. 228); i cinque “mai più” dell’Invio finale, pronunciato dal papa dopo la benedizione. “Mai più contraddizioni alla carità nel servizio della verità, mai più gesti contro la comunione della Chiesa, mai più offese verso qualsiasi popolo, mai più ricorsi alla logica della violenza, mai più discriminazioni, esclusioni, oppressioni, disprezzo dei poveri e degli ultimi” (p. 229): ecco il caso di un testo liturgico di nuova composizione finito nei titoli dei giornali di tutto il mondo.
Né si tratta dell’unico esempio di forte ripercussione delle liturgie giubilari nell’areopago della modernità. Citatissima dai media sarà anche una preghiera della Commemorazione ecumenica dei testimoni della fede del secolo xx, che si tenne presso il Colosseo la terza domenica di Pasqua, il 7 maggio: “Ricordati Padre dei poveri e degli emarginati, di quanti hanno testimoniato la verità e la carità del Vangelo in America fino al dono della loro vita, come l’indimenticabile arcivescovo Oscar Romero ucciso all’altare durante la celebrazione del sacrificio eucaristico” (p. 333). La questione – che appassionò i giornali – della “citazione” di Romero in quella celebrazione è trattata puntualmente in un saggio della seconda parte del volume, dovuto al padre Jesus Castellano Cervera che nel frattempo ci ha lasciato.
La Commemorazione dei testimoni fu il momento in cui – sull’esempio delle antiche memorie liturgiche dei martiri: si pensi alle iniziative in tali direzioni di un Ambrogio di Milano – la storia contemporanea, con testi, nomi e fatti, più vivamente entrò in una celebrazione papale. Essa ebbe elementi rituali – come le lampade accese davanti al Crocifisso – che richiamavano quella del Perdono e un carattere di concelebrazione ecumenica simile a quello che aveva caratterizzato l’apertura della “porta santa” ecumenica di San Paolo fuori le mura: anche qui il Credo fu “detto” da rappresentanti di altre Chiese e comunità, anche qui il Vangelo fu portato in processione e intronizzato dal diacono ortodosso.
Come già dicevamo per la “concelebrazione” della “porta santa” ecumenica, così potremmo dire che le celebrazioni senza precedenti storici della giornata del perdono e della commemorazione dei testimoni riassumono altrettanti capitoli della predicazione e dell’azione apostolica di Giovanni Paolo. Dopo aver sfogliato l’intero volume viene da concludere che egli ebbe il dono singolare di sentirsi chiamato a tentare una nuova proposta del Vangelo all’umanità di oggi in parole, gesti e celebrazioni.
Che abbia voluto svolgere quella nuova evangelizzazione anche con nuove celebrazioni è un punto forse da rimarcare in quest’aula e in questa occasione. Perché qui a mio parere è il punto della disputa che oggi più divide: non stiamo disputando di un piviale o di una danza, ma della liturgia di un apostolo. La Giornata del Perdono per esempio, o la Commemorazione dei testimoni potevano anche avere un diverso sbocco, non liturgico. Si poteva pensare a un documento o a un simposio con un discorso del Papa. E’ significativo che Giovanni Paolo abbia scelto la via liturgica che ha conferito a quegli atti una dignità ecclesiologica e teologica altrimenti irraggiungibile.
Come cristiano comune che vive nel matrimonio ho molto gradito la Invocazione litanica dei santi sposati che è stata proposta in occasione del Giubileo delle famiglie (15 ottobre, p. 404): in essa ho visto felicemente espressa la sollecitazione di Giovanni Paolo II per un più ampio riconoscimento della santità che si manifesta nella vita di famiglia e di coppia.
Analogamente diremo che le Laudes Regiae della celebrazione del 1° novembre nel Cinquantesimo della definizione dogmatica dell’Assunzione – anch’esse di nuova composizione, con aggiornamento alla dimensione universale del nuovo Martirologio romano – caratterizzate dall’invocazione di santi di ogni area dell’ecumene, fino alla menzione di “omnes sancti laici” (pp. 417ss), bene rispondevano all’impegno di Giovanni Paolo perché fosse riconosciuta la santità che lo Spirito dona alle giovani Chiese.
Della celebrazione in occasione della chiusura della porta santa della Basilica di San Pietro, nell’Epifania del 2001, ricorderò la evocativa monizione pronunciata dal papa a introduzione del Te Deum conclusivo: “Riparti da Cristo, Chiesa del nuovo millennio. Canta e cammina” (p. 525). Anche questa fu una parola orante che divenne titolo nei media.
Tra i momenti celebrativi che si fecero notizia, spicca tra tutti – nella memoria del cronista – la richiesta di un “segno di clemenza, in occasione del Giubileo, a vantaggio di tutti i detenuti” formulata nella monizione iniziale della celebrazione per il Giubileo nelle carceri, che si tenne nel carcere romano “Regina Coeli” il 9 luglio: una richiesta rivolta alle “autorità competenti” e formulata “in nome di Cristo che è venuto a proclamare la liberazione dei prigionieri” (p. 345). Parve in quell’occasione che una celebrazione ispirata e comandata dall’impeto apostolico di Giovanni Paolo il Grande potesse farci rivivere qualcosa di quella pienezza di vita e di interazione con il mondo che la liturgia papale ebbe ai tempi di Leone Magno o di Gregorio Magno.
Ho fatto solo qualche richiamo a quanto offerto dall’ampio e denso volume. Di grande rilievo sono le introduzioni del Maestro Marini alle singole celebrazioni, riportate dai “messali” predisposti per ognuna di esse. Tra i saggi della seconda parte segnalo quello di Enzo Bianchi e Goffredo Borselli intitolato Celebrazione eucaristica della prima domenica di Quaresima. Giornata del perdono: oltre a un’interpretazione generale di quella grande celebrazione, esso propone quattro osservazioni sui suoi “limiti” che sono di vivo interesse. Va infine notata l’onestà documentale che ha guidato la redazione del volume, il quale nel concerto delle sue diverse parti informa dettagliatamente anche sugli aspetti più opinabili e criticabili delle liturgie giubilari: coreografie, presenze multietniche, danze offertoriali, uso di festoni vegetali, profumi e fiori, suono di corni e di conchiglie, coppe di incenso e di fuoco. Né viene trascurata – nel volume – la più inedita e dunque più esposta alle critiche tra le celebrazioni giubilari: la Commemorazione di Abramo “nostro padre nella fede”, del 23 febbraio, di cui si riportano i testi e alla quale è dedicato un saggio di approfondimento. Il libro può dunque essere utile anche a chi volesse sottoporre a critica le celebrazioni papali dell’anno duemila.
In conclusione, torniamo a guardare agli esiti liturgici del Grande Giubileo nella prospettiva d’insieme di quella fase matura, come l’abbiamo denominata, del rinnovamento della liturgia papale a seguito del Vaticano II. Un rinnovamento che ha tre o quattro capitoli principali: il papa che torna a celebrare per il popolo e con il popolo, che esce a celebrare nel mondo, che concelebra la liturgia eucaristica con vescovi e sacerdoti della Chiesa cattolica, che presiede concelebrazioni ecumeniche.
Cinque sono a mio avviso – l’avviso di un giornalista è poca cosa, ma mi è stato chiesto e lo do – i frutti migliori di quell’ultima stagione: tre consegnati ai volumi che qui stiamo presentando (riti della Sede vacante e del Conclave, riti di inizio del Ministero petrino, Grande Giubileo), un quarto rappresentato dalle celebrazioni ecumeniche della seconda parte del Pontificato di Giovanni Paolo II, un quinto di metodo consistente nell’aver aperto il lavoro dell’Ufficio delle celebrazioni liturgiche del Sommo Pontefice alla collaborazione e alla consulenza di periti vicini e lontani. Si tratta in sostanza degli autori della seconda parte del volume: Jesus Castellano Cervera, Angelo Lameri, Giuseppe Liberto, Silvano Maria Maggiani, Manlio Sodi, CrispinoValenziano.
Mai in precedenza quell’Ufficio aveva avuto una conduzione altrettanto allargata e collegiale. I frutti che ho elencato sono stati possibili grazie a quella larga confluenza di ingegni e di energie. Un’esperienza che ora è affidata al nuovo Maestro Guido Marini che molto eredita e dunque molto avrà da vagliare e valorizzare. Vedo in quest’aula il nuovo Maestro al quale rivolgo un saluto a nome dei colleghi giornalisti, benchè nessuno a ciò mi abbia incaricato. Perchè noi giornalisti siamo grati al Marini uscente ma vorremmo anche gettare dei buoni ponti verso il Marini entrante.
Insisto un attimo, a mo’ di conclusione, sulle celebrazioni ecumeniche che si sono avute lungo i pontificati di Paolo VI e di Giovanni Paolo II, come in questi anni di avvio del pontificato di Benedetto XVI e che meriterebbero anch’esse di essere raccolte in un volume simile a questi che oggi presentiamo. Ho già detto dello straordinario significato simbolico e comunicativo della “concelebrazione” ecumenica del 18 gennaio del duemila: in essa culmina un cammino di “preghiera comune” tra il vescovo di Roma e i suoi ospiti ecumenici che aveva avuto tappe significative nei viaggi papali e nelle venute a Roma dei patriarchi e degli altri responsabili di Chiese e Comunità ecclesiali che non sono in piena comunione con la Chiesa cattolica. Personalmente ritengo che quelle celebrazioni nel loro insieme – e in particolare quelle della seconda metà del pontificato di Giovanni Paolo – rappresentino il lascito più originale e più aperto al futuro dell’Ufficio presieduto per un ventennio dal Maestro Piero Marini.

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