Benedetto, i media e la lectio di Ratisbona

Doriana Leonardo intervista Luigi Accattoli nel marzo del 2008 per una tesi di laurea sul Discorso di Ratisbona di Benedetto XVI e sulle polemiche alimentate dai media di tutto il mondo (cattedra di Teorie e Tecniche del Newsmaking del Prof. Francesco Giorgino – facoltà di Scienze della Comunicazione, Università La Sapienza di Roma)

Dopo il Concilio Vaticano II, dopo Giovanni Paolo II e ora con Benedetto XVI come è evoluto e come si evolve il rapporto fra Chiesa cattolica e media?

E’ evoluto nel senso di una progressiva accettazione da parte della Chiesa cattolica delle regole di funzionamento dei media ed evolve nel senso di un’alleanza papa-media che è stata avviata da papa Wojtyla e che papa Ratzinger ha fatto sua con naturalezza. Il documento conciliare “Inter mirifica” (1963) ma soprattutto l’esperienza di comunicazione dei lavori conciliari ai media di tutto il mondo hanno avviato una nuova stagione dei rapporto con i media, che prima erano gestiti dalla Chiesa oppure temuti e tenuti a distanza, o infine usati all’occasione in maniera strumentale. Lungo l’ultimo cinquantennio – la rivoluzione conciliare nel campo dei media iniziò a operare con l’annuncio del Concilio, che è del gennaio del 1959 – la Santa Sede si è esercitata a trattare i media nel rispetto della pluralità e della laicità, secondo protocolli orami acquisiti dalle organizzazioni internazionali. Oggi la stampa in Vaticano non è trattata diversamente che all’ONU, o presso le organizzazioni non governative che hanno sede a Ginevra. Ma Giovanni Paolo II ha fatto di più, interagendo attivamente con i media e facendone degli alleati per la sua azione pontificale, dalla predicazione della pace alla divulgazione del messaggio cristiano. La giornata mondiale della gioventù di Colonia nell’agosto del 2005, il viaggio in Turchia del novembre del 2006, l’Agorà dei giovani italiani a Loreto nel settembre del 2007 e le tante parlate improvvisate, in interviste televisive e colloqui ravvicinati, ci dicono che il successore sta portando avanti quell’alleanza.

Come vive l’informazione religiosa il multiculturalismo, la laicità e la secolarizzazione?

Li vive bene quanto a liberazione del proprio oggetto informativo dalle residue resistenze confessionali e premoderne, le vive invece male quanto a perdita di ruolo e di specificità che prima le venivano in qualche misura riconosciuti e che oggi deve conquistarsi sul terreno ogni giorno. Quella perdita di ruolo e di specificità comporta che diminuiscano gli spazi per l’approfondimento e cresca la tendenza a usare la notizia religiosa come notizia debole, che viene ingigantita o mortificata – e persino negata – in funzione della “cucina” complessiva di una pagina o di un telegiornale. Questa tendenza fa sì che spesso l’informazione prodotta non sia all’altezza della qualifica professionale degli operatori che pure ne sono responsabili. Per esempio in Italia tali operatori hanno generalmente la preparazione necessaria a un’informazione di livello, ma la richiesta è al 90 per 100 quella di un apporto di alleggerimento.

Percepisce un sentimento anti-ecclesiastico in Italia e nei media?

No se si intende un sentimento proprio di questa stagione, sì se lo vediamo come un residuo dell’antica separatezza tra cultura laica e cultura cattolica. Gli episodi segnalati recentemente – fischi al cardinale Camillo Ruini durante una manifestazione pubblica a Siena nel settembre del 2005, opposizione alla visita del papa all’Università la Sapienza di Roma nell’inverno 2008, scritte sui muri contro il cardinale Bagnasco e il Papa in diverse occasioni, accentuazione di notizie e servizi anticlericali nella stampa quotidiana lungo il 2007 – si spiegano con una più marcata presenza della Chiesa nel dibattito pubblico e in particolare con le più esplicite indicazioni legislative e politiche venute dall’episcopato tra il referendum sulla fecondazione assistita della primavera del 2005 e le elezioni anticipate della primavera del 2008. La gerarchia cattolica rivolge al paese messaggi più penetranti, coloro che si oppongono a essi reagiscono a livelli propri e impropri. Ma è reazione a una presenza accresciuta, non sviluppo in proprio di un sentimento anticattolico.

La formazione del giornalista sia dal punto di vista della comunicazione e sia da quello propriamente religioso è il punto di partenza per una informazione efficace, e perciò abbiamo i vaticanisti…quali sono i doveri di un buon vaticanista?

Nei media commerciali – ai quali appartiene il Corriere della Sera per il quale lavoro – la finalità dell’informazione religiosa è la stessa di ogni altro settore informativo: attirare l’attenzione del pubblico su eventi complessi, gestendone la divulgazione nella maniera più viva ed efficace, in modo da interessare a essi anche gli estranei, ma facendo salva la sensibilità degli addetti ai lavori. Un servizio dunque assai umile e gravemente condizionato dalla tirannia dell’audience. Stanti questi limiti che l’operatore non può modificare, il suo impegno prioritario sarà quello di realizzare una penetrazione interpretativa e informativa la più accurata e tempestiva, in modo da disporre di una tastiera efficiente su ogni argomento sul quale lo proietterà – di giorno in giorno – l’esigenza concorrenziale della propria testata. Dovrà quindi approfondire come se lavorasse per un pubblico motivato, sapendo che dovrà servirlo compatibilmente all’appetito del pubblico più indifferente. Come se uno chef dovesse approntare lo stesso piatto per un intenditore e per qualcuno che non l’ha mai assaggiato. Massimo scrupolo informativo dunque, unito alla massima flessibilità nella “confezione e nel “servizio”. Nel caso del pontificato nascente di papa Benedetto, il vaticanista doveva prestare ogni attenzione alle sue uscite dal Vaticano per rientrare nella vecchia abitazione, come doveva cercare di leggere tutte le opere del Ratzinger teologo. Il pubblico naif voleva sapere ogni particolare sui gatti del papa – che poi non esistevano – mentre i competenti non gli perdonavano l’inavvertenza dei precedenti, ogni volta che trattava da papa un argomento che già aveva affrontato, magari in modo diverso, quand’era cardinale.

Come fa un vaticanista a trattare le notizie religiose, che avrebbero bisogno di un maggiore approfondimento, trovandosi costretto a ridurle – spesso – a dati essenziali?

Il problema non è diverso da quello che si trova ad affrontare ogni altro collega, quando la recettività del medium in cui lavora non è adeguata all’oggetto. Si applica l’arte fondamentale di questa professione che è la flessibilità: essere pronti ogni giorno – per padronanza della materia e dei contatti necessari a illuminarla – a comunicare una notizia con un minimo di parole, o a servirla con richiamo di precedenti e accompagnamento di interviste. Ma può anche venirne una grave sofferenza professionale. Capita più volte a un vaticanista di scrivere più articoli sul perché il papa non abbia parlato del Libano o del Tibet e di vedersi assegnare appena dieci righe il giorno in cui finalmente il papa parla di quegli argomenti.

Quale direzione sta prendendo oggi l’informazione religiosa?

Sempre più quella arbitraria della notizia di alleggerimento – come si diceva sopra – o quella occasionale, e dunque a suo modo anch’essa arbitraria, dell’ampliamento a scopo spettacolare. Parlo ovviamente dei media commerciali. Ma va aggiunto che a quest’uso arbitrario è sottratta in gran parte l’informazione riguardante la figura del papa: essa non rientra tra le notizie deboli, conquista facilmente lo spazio necessario ed è trattata in genere con equilibrio e rispetto.

L’immagine del pontefice attuale è stata spesso accompagnata dallo stereotipo del “panzerkardinal”, “grande inquisitore”, “ custode della fede”… quanto hanno contribuito i media?

L’accoglienza del nuovo papa quell’aprile del 2005 nella nostra stampa è stata inizialmente buona anche se un minimo perplessa: non ci si aspettava la sua elezione e si era pieni di immagini ricevute – e non del tutto positive – riguardo al cardinale Ratzinger “custode della fede”. A differenza della stampa internazionale, quella italiana aveva un’ottima conoscenza diretta del personaggio e ha dunque potuto liberarsi in fretta dagli stereotipi che gli facevano torto. Un cambiamento lungo i mesi c’è stato e forse si può riassumere nella progressiva modificazione della domanda dominante su di lui: fino alla Giornata Mondiale della Gioventù di Colonia (agosto 2005) ci si chiedeva se papa Benedetto sarebbe stato conservatore come il cardinale Ratzinger; dopo Colonia la domanda più frequente riguardava il segreto dell’attrattiva che esercitava sulle folle, non facendo egli nulla per accattivarsele e ottenendo un totale di presenze stabilmente superiore, si stimava, a quelle che Giovanni Paolo II magistralmente richiamava. Un ulteriore cambiamento italiano, riscontrabile lungo il secondo e il terzo anno di pontificato, riguarda l’inasprimento della reazione al suo messaggio da parte del mondo politico, soprattutto in riferimento ai “principi non negoziabili” e alle “radici cristiane”. Insieme a tale inasprimento va rilevato uno schiacciamento abituale della figura del papa sul politico: una unilateralità interpretativa che non rispecchia la tematica molteplice della predicazione del pontefice. In tutto questo il ruolo dei media è stato decisivo. Oggi è certamente impossibile distinguere una percezione diretta della figura papale dalla sua percezione mediatica. Solo i romani praticanti – attraverso le visite alle parrocchie e altre occasioni simili – ne possono avere una percezione parzialmente indipendente da quella veicolata dai media.

Parliamo di Ratisbona, le polemiche che sono seguite alle parole di Benedetto XVI sono frutto delle sintesi giornalistiche?

Sono tra quelli che attribuiscono il parlar chiaro di quella lectio magistralis alla libertà di mossa del docente universitario, che in quell’occasione ha avuto la meglio sul papa nel calcolo delle opportunità: tutto preso dall’impresa appassionata di mostrare quanto profonda e vasta, storicamente e idealmente, fosse la connessione tra la fede cristiana e la ragione greca, il papa teologo ha sottovalutato il rischio d’essere ridotto dai media alla citazione del Paleologo e di essere preso a bersaglio dal mondo islamico. Ritengo portatrice di novità positive la libertà rivendicata nei fatti da papa Benedetto di fare il teologo da papa ed esercitata con grande suggestione in quella lezione come anche – per esempio – nella pubblicazione del libro su Gesù (Rizzoli, aprile 2007). La paragono alla libertà rivendicata da papa Wojtyla di fare il polacco, o il poeta, da papa. Considero positiva e portatrice di libertà per tutti i cattolici ogni libertà recuperata dai papi, che valga a liberare la figura del vescovo di Roma dall’irrigidimento istituzionale sedimentato nei secoli. Ma l’esercizio di quella nuova libertà può andare incontro a incomprensioni. Il papa professore non ha avuto difficoltà a prevenirle nello svolgimento della sua argomentazione teologica, ma non ha avuto altrettanta avvertenza per la ricaduta mediatica e internazionale della citazione storica che ha posto a premessa dell’argomentazione. Un’imprudenza comunicativa in cui non è stato soccorso dallo staff. Non c’è dubbio che i media, con la loro tendenza alla semplificazione e all’amplificazione, abbiano contribuito per una buona metà alla costruzione del caso, ma non l’hanno inventato. E credo non vi sia bisogno di dire che esso è stato reso esplosivo dalla logica coatta e strumentale della protesta che è tipica di gran parte dell’ufficialità musulmana, statuale e religiosa. Ma sia il comportamento dei media, sia la reazione musulmana potevano essere previsti e tenuti in conto.

Crede che se i media avessero riportato il discorso per intero e avessero approfondito di più il pensiero del Pontefice sul dialogo interreligioso non sarebbe accaduto nulla?

Sarebbe accaduto poco o nulla. Ma non è un’aspettativa ragionevole: un telegiornale non può riportare una lectio di più di un’ora e un quotidiano non dedica due pagine a un testo se non è specificamente motivato a farlo. La semplificazione dei media andava messa nel conto.

Crede che ci sia stata una distorsione del discorso? Come si può sopperire al rischio di distorcere gli eventi?

La distorsione c’è stata, ma forse era inevitabile. Né è venuta solo per nuocere. Le chiarificazioni offerte dal papa e dai suoi collaboratori, le modalità della visita in Turchia venuta a due mesi e mezzo di distanza, la lettera dei 138 “saggi” musulmani arrivata a un anno di distanza ne sono stati i frutti positivi. Quella lectio si può dire che sia stata una “felix culpa”: lo ha riconosciuto ultimamente il cardinale Jeran-Louis Tauran. Torno per un momento al paragone con papa Wojtyla. Avventurandosi nell’impresa inedita di fare il polacco sulla cattedra di Pietro egli ebbe più bisogno dell’aiuto dei collaboratori, al fine di non compiere passi falsi, di quanto – per questo aspetto – non ne servisse ai predecessori italiani che si spogliavano della loro appartenenza nazionale. Lo stesso vale per l’impresa altrettanto inedita del papa teologo: i suoi testi che escono in campo aperto dovranno essere testati non di meno ma di più e in tutte le direzioni da coloro che l’aiutano, perché gli segnalino ogni implicazione e l’aiutino ad acquisire una reale libertà. – Quanto alla seconda parte della domanda, confesso di non conoscere rimedi di sistema alla distorsione dei media. Gli ambienti della politica, dell’economia e dello sport – che sono quelli che ottengono più continuata audience mediatica – sopperiscono col metodo della ridondanza: si corregge domani quel che è stato distorto oggi. Per ogni altro soggetto, comprese le Chiese cristiane, non vedo altra soluzione che la prevenzione basata sulla puntuale previsione della possibilità di distorsione.

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