Un episodio della mia vita

Salve, vorrei far conoscere, l’avvenimento che ha cambiato fisicamente e anche psicologicamente la mia vita. Si tratta del passaggio da una situazione di normalità fisica, ad una situazione d’inabilità avvenuta alla fine di maggio del 1998, praticamente un lesione midollare che mi ha portato la perdita dell’uso delle gambe dopo un intervento chirurgico nel tentativo di decomprimere il midollo spinale a livello dorsale. Devo precisare che questo racconto è tratto dall’articolo che ho pubblicato un paio di anni fa, per un periodico di una associazione culturale, della quale ero un frequentatore. L’articolo fa riferimento agli appunti che ho scritto in quel periodo del 1998, post operatorio, poiché sentivo che la situazione non stava andando secondo le previsioni e pertanto avvertivo la necessità di mettere per iscritto quello che segue per non dimenticare.
Prima di passare all’esposizione dei fatti, vorrei presentarmi. Mi chiamo Castellini Benedetto, sono nato nel settembre del 1955 in un borgo, frazione del comune di Latina capoluogo dell’Agro Pontino, terra bonificata dalla palude nel periodo fascista tra gli anni 20 e 30.
Figlio di agricoltori, sono il secondo di tre figli e come i miei coetanei nati in un borgo rurale, fin dall’adolescenza si passava dallo studio durante l’anno scolastico ai lavori dei campi in estate. Gli unici momenti di svago erano l’escursioni che si facevano di domenica sui Lepini , monti che coronano le campagne pontine e al mare in bici.
Dopo aver conseguito il diploma di elettronica a Velletri nel 1974 e la laurea in matematica all’università “La Sapienza “ di Roma nel 1981, nel frattempo prima della laurea avevo svolto il servizio militare, mi iscrissi e riuscii a superare i concorsi a cattedra prima per la scuola media inferiore e successivamente matematica e fisica per i licei. Mi sposai nel 1984 con Paola una ragazza di Latina, una conquista per un campagnolo come me. Nel 1985 nacque la prima figlia Chiara e poi 1988 nacque Nadia a sette mesi ma tutto si risolse per il meglio.
Intanto iniziavo a svincolarmi dai lavori dei campi, anche se una mano la davo sempre. Erano anni felici in cui ho seguito corsi di ballo, ho incominciato a fare nuoto in piscina e anche il lavoro d’insegnante mi dava soddisfazione.
Nel 1997 ebbi i primi sintomi di malessere: sentivo le gambe sempre più pesanti, formicolio e in certe zone della gamba sinistra e insensibilità al dolore. Ho fatto delle indagini e da una radiografia lombosacrale risultava uno spostamento della quinta vertebra lombare rispetto alla prima sacrale (spondilolistesi). Feci visite specialistiche a Latina, a Roma e anche all’ospedale ortopedico Rizzoli di Bologna, tanta fisioterapia e massaggi.
Anche se sentivo sollievo soprattutto facendo nuoto, non riuscivo a stare bene, fin quando mi è stata
consigliata di fare una visita neurologica dal primario di neurologia dell’ospedale S. Filippo Neri di Roma, in seguito il dottore decide di voler indagare ricoverandomi nel suo reparto e promettendomi tutti gli accertamenti possibili per diagnosticare e curare il problema, che secondo lui non doveva dipendere dalla spondilolistesi. Finalmente era quello che cercavo, vederci chiaro e così il giorno successivo della visita parto per farmi ricoverare e qui inizia il mio racconto tornando al………
……7 maggio 1998:
Eccoci partiti verso Roma destinazione S. Filippo Neri, nell’auto siamo io, Vincenzo (fratello di Paola) alla guida e Paola mia moglie. Prendiamo la Pontina, i chilometri passano sotto l’auto tra una chiacchiera e l’altra, tanto è vero che non ci accorgiamo di aver passato lo svincolo per la Cassia dove è ubicato l’ospedale. Per tornare indietro e prendere il raccordo anulare dobbiamo fare un giro strano sulla Cristoforo Colombo. Preso il raccordo, la Cassia e la Trionfale, arriviamo finalmente all’ospedale S. Filippo Neri.
L’aspetto è di un vecchio policlinico circondato da un muro con tanti padiglioni interni, alcuni anche diroccati e fuori uso, la struttura più vecchia risale al periodo del fascismo e serviva, per quello che mi è stato detto successivamente, ai malati di tubercolosi.
Sbrigate le prime formalità burocratiche d’ingresso, ci avviamo a piedi al reparto di neurologia. Attraversiamo una zona aperta dove ci sono spazi verdi con alberi: tigli, pini, forse qualche acero e con molte panchine. Arrivati all’edificio dall’aspetto piuttosto decadente, sono accompagnato con Paola e Vincenzo, nella camerata dove mi è stato assegnato il letto.
Ci sono sei letti, il mio è in mezzo a destra, l’armadietto dove porre la borsa e vestiti è piuttosto stretto e a fatica riesco a fare entrare tutto. Il mio stato d’animo è triste e piuttosto confuso, mi siedo sul letto e parlo con Paola, mentre Vincenzo esce per sbrigare alcune faccende.
Arriva il momento in cui Paola e Vincenzo devono tornare a casa, li saluto con il cuore a pezzi mentre li vedo andare via.
Incomincio a conoscere i miei vicini di letto, a destra c’è Mario un operaio in pensione dell’Enel, entrato per dei disturbi di deambulazione e per una visione che a volte sdoppia gli oggetti. Alla mia sinistra il letto è vuoto e vicino c’è il tavolino con i piatti del pranzo ancora pieni, poi vengo a sapere che è un casertano, simpatico, entrato per problemi di formicolii alle gambe.
Di fronte a sinistra c’è un ragazzo giovane, poco più di trent’anni Renato sposato da poco ricoverato per accertamenti dovuti ad un’emorragia celebrale, di fronte c’è Giovanni un maestro di scuola elementare in pensione, anche lui con problemi di deambulazione, ed infine Aldo ricoverato per accertamenti neurologici che non ho capito.
Il clima è cordiale e socializzo subito con i compagni di camera, vengo, da ognuno di loro, a conoscere i fatti personali che riguardano il lavoro, la famiglia le abitudini, tutto tranne che problemi di ricovero. Dopo circa un’ora dalla cena delle 18, vedo Giovanni e altri che avvicinano un paio di tavolini, e tirano fuori un mazzo di carte napoletane, m’invitano a giocare, ma visto che sono già in quattro: Giovanni, Mario, Aldo e il casertano, lascio loro il gioco e io mi metto a leggere il II volume del Poema dell’Uomo Dio che mi sono portato da casa. Le ore procedono, mi trovo a mio agio e mentre il quartetto gioca anche con un certo interesse, io sono completamente immerso nella lettura.
Ad un cero punto stanchi di giocare a carte, risistemano i tavolini e vanno a dormire, questa sarà una prassi di tutte le sere durante il mio periodo di ricovero in neurologia, io continuo a leggere fino a quando ormai stanco spengo la luce e mi addormento.
Alle sei del giorno successivo, arriva un infermiere con il laccio emostatico mi fora una vena e incomincia a riempire le fialette, avrei dovuto fare pipì in una provetta lasciata la sera prima, ma me ne sono dimenticato mi toccherà farlo il giorno dopo.
Passano alcuni giorni e sono sottoposto a continui accertamenti: potenziali magnetici, potenziali evocati, lastre, fin quando il lunedì successivo, mi prenotano per una risonanza dorsale da fare fuori dell’ospedale.
Alle otto di mattina, del lunedì successivo, l’ambulanza è pronta, ci sono già delle persone dentro, mi rendo conto che per fare lo scalino dell’ambulanza faccio un po’ di fatica, tanto che l’autista mi dà una spinta dietro. Si parte e si ferma al portico d’ingresso per far salire una donna, rimaniamo ancora in attesa per sbrigare alcune formalità burocratiche. Finalmente si parte e si esce dall’ospedale tra una chiacchiera e l’altra l’ambulanza si ferma, il primo a scendere sono io, l’autista mi accompagna ed io lo seguo lentamente, c’è un tecnico di laboratorio che mi aspetta dentro, mi fa togliere i pantaloni e mi adagia su un lettino e mi infila nella macchina. Rimanere dentro a quella specie di cunicolo immobile e con un rumore di sottofondo è piuttosto noioso e anche stressante, dopo una trentina di minuti, il tecnico mi inietta un liquido di contrasto e dopo altri dieci minuti finalmente finisce tutto, mi rivesto e attendo l’autista. Pochi minuti d’attesa rivedo l’autista, riprende la mia cartella e si riparte per tornare in ospedale.
Rientro nella mia camerata, c’è ancora il primario con la sua equipe in visita, mi viene chiesto come è andata e io rispondo con un ok. I giorni successivi passano abbastanza velocemente senza grossi problemi a parte la difficoltà sempre maggiore a camminare, forse sarà per questa prolungato riposo forzato, comunque la compagnia è piacevole si gioca sempre a carte la sera mentre io continuo a leggere il mio libro, i miei compagni di camera mi chiedono cosa sto leggendo e io spiego che si tratta del primo anno di evangelizzazione di Gesù in cui, con i primi discepoli, guarisce una gran quantità di gente, ma il miracolo fisico è un mezzo per far comprendere che Dio esiste, ci vede e ci assiste sempre.
Arriva venerdì e vengo a sapere quali sono i risultati della risonanza, il primario dr. Fiume mi annuncia che la causa dei miei mali, convalidata anche dagli accertamenti fatti in ospedale è un’ernia dorsale tra la sesta e settima vertebra dorsale. La soluzione è “tagliare” (parole testuali) e secondo il primario tolto il dente malato dovrei risolvere i miei problemi. Sono felice una semplice ernia, si ipotizzava qualcosa di più grave, una operazione che non dovrebbe essere complicata poi un po’ di fisioterapia e sarei tornato a correre, a ballare (negli anni precedenti io e Paola avevamo frequentato un corso di ballo) a nuotare e poi sarei tornato in classe ad insegnare le mie materie, insomma sarei tornato ad essere come prima o forse meglio poiché mi sarà tolta la causa della compressione midollare. Il primario passa in rassegna anche gli altri degenti, il casertano, Giovanni, Mario, Renato e Aldo saranno dimessi ognuno con una cura, da controllare poi successivamente.
Solo Renato ed io dovremo sostenere un intervento chirurgico. Renato è più preoccupato di me perché il suo intervento è cerebrale, asportazione dell’angioma facendo attenzione a non intaccare la materia cerebrale. Io penso di essere più fortunato perché tutto sommato è un intervento lontano dal cervello. Il lunedì successivo vengo trasferito al reparto di neurochirurgia, mentre Renato torna a casa per un breve periodo di riposo prima dell’intervento. Comincio a conoscere i nuovi “coinquilini” di camerata: Antonio, Fabrizio, Giancarlo e poi verrà Vincenzo un formidabile giocatore di tressette. Ognuno ha la sua storia da raccontare e tutti siamo nell’attesa di essere operati. Quella che più m’impressiona è la storia di Fabrizio, un ragazzo di ventidue anni che a dicembre del ’97, aveva fatto un incidente frontale con il suo motorino contro un altro motorino. Il risultato è che la parte frontale del cranio si era fratturata, ed è stato in terapia intensiva per due mesi e ha dovuto sostenere vari interventi per rimuovere le schegge ossee, ora è in attesa per la ricostruzione della parete frontale.
A destra del mio letto c’è Arturo, rantola molto, ha la testa fasciata, non è pienamente cosciente, ogni tanto risponde quando lo svegliano dal torpore, di notte tossisce continuamente e non ci fa dormire, il giorno successivo è il giorno dell’intervento per Fabrizio. Arrivano i portantini, Fabrizio si sveglia e indossa un camice verde, si mette sul lettino, ci saluta e si avvia alla sala operatoria.
Passano alcune ore, quattro o cinque, e Fabrizio ritorna in camerata ancora sotto l’effetto dell’anestesia. Vicino alla testa ha due sacche collegate con dei tubicini al cranio e servono per il drenaggio del sangue. L’operazione è ben riuscita, ha intorno gli amici, Fabrizio si riprende abbastanza presto e alla grande, beato lui. Nel frattempo viene ricoverato Tonino, un anzianotto che sorride sempre, i suoi famigliari sono preoccupati, infatti, arriva un chirurgo e gli dice che deve fargli un buco nel cranio per aspirare l’ematoma, lui dice di sì e sorride. Viene rasato e anche lui indossa il camice verde e si mette in attesa. Arrivano gli infermieri con la cena per tutti, anche Tonino vorrebbe cenare, ma gli dicono di no perché dovrà essere operato, deluso si rimette a letto.
Arrivano i portantini per Tonino, gli fanno posare tutto sul comodino, anche la dentiera, passano poco più di due ore e lo vediamo rientrare sveglio e anche bello sorridente, tutto è andato bene. I suoi parenti si felicitano e sono orgogliosi del loro Tonino.
Intanto io mi sento sempre più male e mi accorgo che più passa il tempo e più mi sto bloccando. Faccio una gran fatica per andare solamente al bagno e a telefonare, inoltre per stare in piedi mi devo sempre appoggiare a qualche cosa. Anche Arturo sta sempre peggio, di notte non ci fa dormire per i rantoli e il respiro asmatico. A notte inoltrata succede una cosa strana e buffa, Tonino operato da poco, si alza in piedi con tutte le flebo attaccate alle vene con gli aghi e incomincia a camminare. Io gli dico: “fermati Tonino hai ancora le flebo attaccate”, lui si ferma un attimo, intanto una bottiglia della flebo cade sul letto vicino, poi con passo deciso si avvia al bagno trascinando le bottiglie a terra frantumandole. Arrivano gli infermieri, incominciano ad asciugare e raccogliere i cocci di vetro. Intanto torna Tonino dal bagno tutto soddisfatto, forse per aver fatto pipì, con ancora un pezzo di bottiglia che trascina ancora attaccata tramite il tubicino con un ago al braccio.
Gli infermieri lo rimproverano, lui se ne frega dei rimproveri e si rimette a letto, un infermiere gli toglie l’ago e lo lascia libero senza flebo. Il resto della notte trascorre tranquillamente, finalmente si dorme. Il giorno successivo arriva Renato e viene ricoverato nella camera a fianco, mi dice che l’operazione sarà fatta nel giorno successivo, io gli faccio i miei più fervidi auguri. Intanto Arturo è arrivato ad una situazione limite, viene preso dagli infermieri del reparto di terapia intensiva e lo portano via.
Arriva anche per Renato il momento per l’operazione, gli viene rasata la testa e incappucciata, indossa il camice verde e si mette in attesa, gli parlo per incoraggiarlo. Arrivano i portantini, lo adagiano sul lettino a ruote e mentre lo portano via gli faccio un cenno di saluto con la mano augurandogli in bocca al lupo.
Fabrizio si riprende alla grande è in piedi, non ha avuto bisogno di cateteri e ha un buon aspetto. Renato esce dalla sala operatoria dopo alcune ore e lo portano direttamente in terapia intensiva, ci rimane una giornata e poi torna in camera. Sta bene, lo vado a trovare, parliamo del più e del meno, c’è anche sua moglie e un suo amico. Lui parla della terapia intensiva e di come veniva monitorato, ci fa intendere che non gli piaceva e vedeva l’ora di tornare in reparto. Dopo un po’ li lascio e torno in camera, sento che la schiena mi fa sempre più male, ma ormai è questione di qualche giorno e poi finalmente toccherà anche a me e precisamente mercoledì 27 maggio. Il giorno successivo mi viene a trovare Renato su una carrozzella spinto dalla moglie, anche lui si sta riprendendo alla grande. Intanto vengono dimessi Fabrizio e Tonino, ci salutiamo e sono contento per loro, anch’io dopo quasi un mese dal ricovero, non vedo l’ora di uscire e tornare a casa. Passano alcuni giorni e arriva il giorno della vigilia del mio intervento, intanto arrivano in camera Renato e la moglie, io sono a letto e sono sorpreso di vedere Renato in piedi, mi dice che verrà dimesso in giornata, sono contento per lui, ci scambiamo i numeri di telefono e mi chiede se potrà telefonarmi per avere mie notizie. Parliamo un po’ e poi ci salutiamo, lo vedo andare via felice.
Arriva il giorno dell’operazione, mi alzo presto, mi faccio una doccia veloce e mi faccio la barba, non faccio la colazione mi rimetto a letto e attendo in camera. Finalmente arrivano i portantini con il lettino, mi danno il camice verde, mi spoglio, tolgo la fede dal dito e l’orologio metto tutto dentro il comodino, indosso il mio camice e mi trasferisco sul lettino, ora tocca anche a me. Mi fanno attendere qualche minuto davanti alla sala operatoria, poi mi trovo dentro la sala. La stanza è piccola, mi trasferiscono sul letto della sala operatoria, mi posizionano in modo supino. Sento che il chirurgo, insieme con gli infermieri, incomincia contare le vertebre D12, D11, D10….. poi sento che perde il conto, fa piuttosto freddo, ricomincia a contare: D12, D11, D10, D9…, perde ancora il conto. Sento dire “stiamo attenti e mettiamo i chiodini lì”, ricomincia a contare D12, D11, D10, D9, D8, D7, D6 e poi buio pesto, black out.
Mi sveglio, mi trovo in camera nel mio letto messo di fianco, sento un gran dolore, c’è mia madre vicino, ho tanta sete, mia madre mi dice che non devo bere per alcune ore, mi bagna le labbra con un fazzoletto umido e recito un Padre Nostro. Mia madre dice che l’operazione è ben riuscita, sono contento, però sento che la gamba sinistra non si muove, anzi non la sento quasi per niente, mentre l’altra riesco a muoverla. Anche nel giorno successivo la gamba sinistra non si muove e alla sera dello stesso giorno mi fanno una TAC. Nel giorno successivo venerdì 29 maggio, il dott. Fiume, il chirurgo che mi ha operato e fratello del primario di neurologia, mi annuncia che l’indomani, sabato, avrei dovuto sostenere una seconda operazione. Non riesco a capire il motivo anche perché sono ancora intontito dall’anestesia della prima operazione. Arriva il sabato 30 maggio, c’è mia madre e Paola che mi danno un po’ di fiducia, arrivano anche i portantini per i preliminari e mi portano in sala operatoria. Di nuovo quella sensazione di freddo e poi buio pesto. Al risveglio, questa volta una brutta sorpresa, mi ritrovo in terapia intensiva, con elettrodi, flebo, cateteri e due tubi che escono dal torace collegati ad una pompa, vengo a sapere che serve per aspirare acqua dai polmoni. Le gambe non le muovo, sono molto pesanti, a fatica facendo leva con le braccia posso muovere di qualche centimetro il tronco, insomma mi sento bloccato, anche la pancia è gonfia.
Comunque non importa, penso che sia importante aver superato anche questa seconda operazione, poi le cose si sistemeranno da sole nel giro di qualche giorno o settimana. Vedo gli infermieri della terapia intensiva, in continuo movimento vanno da un degente all’altro senza sosta, oltre prendersi cura dei ricoverati, annotano, su un registro tutto quello che fanno e le terapie somministrate. Giungo a sapere i loro nomi: Leo (Leonardo) molto simpatico, Maria ragazza molto dolce, Laura, Pina, Daniela, Roberta sempre disponibili e pronte ad aiutarmi.
Vengono a trovarmi i dottori Fiume e Tamorri il chirurgo che ha eseguito il secondo intervento e che vedo per la prima volta. A loro chiedo della mia situazione e se ne uscirò tornando come prima del ricovero. Alla prima domanda sono piuttosto evasivi, forse non sanno cosa dirmi e perché non conoscono bene il quadro clinico post operatorio, alla seconda domanda mi danno una risposta più precisa dicendomi che occorreranno molti mesi di fisioterapia. Fiume mi controlla le gambe e i piedi, mi chiede di tentare qualche movimento, ma per quanto mi sforzo non muovo di un solo millimetro né le ginocchia, né le caviglie e neppure le dita dei piedi.
Penso, va bè occorrerà qualche mese di fisioterapia per recuperare e poi riprenderò il lavoro a settembre od ottobre. Fiume mi parla della clinica di S. Lucia la migliore a Roma per la terapia fisiatrica, e mi dice di far interessare i miei parenti per iniziare le procedure di trasferimento il più velocemente possibile.
Con mia sorpresa mi accorgo che davanti a me, leggermente sulla destra, c’è Arturo in uno stato vegetativo, a fianco a me c’è un’altra persona in coma, piuttosto anziana, si chiama Alfonso, di fronte una signora, insegnante di arte in pensione, mi racconta brevemente la sua storia, appena andata in pensione, acquista una casa ad Anguillara, paese sul lago di Bracciano, dopo il suo trasloco ad Anguillara scopre di avere un male, si ricovera ma dopo l’intervento ha avuto alcune complicazioni ed ora si trova in terapia intensiva, comunque in giornata viene trasferita in reparto.
Mi danno da mangiare, a pranzo c’è Leo che m’imbocca, sento di avere appetito, ma il pranzo mi lascia un peso nello stomaco che con il passare delle ore oltre aver difficoltà a digerire, mi rende anche più difficile la respirazione. Arriva l’orario della visita, intravedo dalla vetrata Paola, i mie genitori, Teresa mia sorella e Luigi mio cognato. Posso parlare attraverso un citofono, li informo su quanto mi hanno detto i dottori Fiume e Tamorri, il colloquio dura poco, mi lasciano qualche rivista di viaggi e paesi esotici e poi se ne vanno e gli infermieri coprono la vetrata con una tenda veneziana. Ho ancora quel peso allo stomaco che non si libera e mi dà ansia…
…10 novembre 2010, gli appunti finiscono così, in seguito ho annotato solo dei nomi per ricordare e continuare poi successivamente il racconto. Comunque ormai ci sono dentro e posso concludere
la storia ricordando gli avvenimenti sinteticamente. Innanzi tutto Leo mi ha aiutato a vomitare il pranzo, forse eccessivo dopo il secondo intervento, con delle pressioni precise allo stomaco. In terapia intensiva ci sono rimasto circa una settimana, essenzialmente per complicazioni polmonari post operatorie perfettamente risolte con degli esercizi respiratori e antibiotici presi con l’aerosol. Di fronte a me dopo l’insegnante di arte, si sono succedute altre persone con una degenza molto breve. A fianco ho visto passare Alfonso dal coma alla morte, e dire che gli infermieri erano più propensi che morisse prima Arturo, invece la fisioterapista del reparto aveva costatato un certo risveglio alle dita di Arturo. Trascorsa la settimana nel reparto di terapia intensiva e su autorizzazione del pneumologo dell’ospedale, mi hanno trasferito in una camerata di sei posti letto, in cui c’era in atto una specie di insurrezione, ho saputo che il giorno precedente avevano lanciato le mele agli incolpevoli infermieri perché l’attesa degli interventi chirurgici, non so bene per quale motivo, si era prolungata e rimandata oltre la pazienza dei pazienti.
Anche in una situazione di rivolta, mi trovavo decisamente meglio rispetto alla calma del reparto di terapia intensiva, ma devo dire che gli infermieri di terapia intensiva ogni giorno venivano a farmi visita per qualche minuto e scambiare qualche chiacchiera per il rimanente periodo di degenza all’ospedale. Finalmente, grazie agli sforzi di Paola e dei mie genitori vengo accettato dall’istituto di riabilitazione del S. Lucia e il giorno 8 giugno ‘98 entro al S. Lucia con tanta voglia d’impegnarmi per recuperare il più possibile, dopo che il dr. Fiume mi aveva persuaso che il problema era stato risolto, perché il midollo era stato liberato dalla compressione dell’ernia, di conseguenza doveva ristendersi nel canale midollare e riformare la mielina per potersi mettere in funzione insomma era questione di qualche mese e terapia per tornare almeno come ero al mio ingresso all’ospedale.
L’istituto S. Lucia si presenta molto bene, ampi spazi verdi, campi per il tiro all’arco, piste con corsie per la corsa, piscina, biblioteca, campo di basket chiuso e con tribune (S. Lucia a quei tempi, ma forse anche adesso, aveva la squadra in carrozzina di basket più forte) ma non mi trovavo a mio agio, sia per l’arroganza di alcuni infermieri e sia per l’indifferenza di alcuni fisioterapisti che pensavano più alle vacanze imminenti che alla necessità dei pazienti.
Al S. Lucia ho un paio di ricordi, anche altri sui quali vorrei sorvolare, il primo è una persona che si trovava, oltre altre due, in camera con me Joseph Franz un ragazzo poco più di trent’anni tetraplegico (lesione cervicale e paralizzato dalle braccia in giù) nativo di Sierra Leone.
Un ingegnere che lavorava per una azienda italiana, il suo incidente è successo in auto in un paese africano, lui non era alla guida si trovava dietro e stava riposando nel momento dell’incidente. Fatto sta che al risveglio si è trovato in ospedale intubato senza capire cosa fosse successo. Successivamente gli viene spiegato cosa era accaduto e che dei quattro passeggeri lui è stato l’unico a subire le conseguenze più gravi. Purtroppo nel periodo di degenza in Africa al problema della lesione midollare cervicale si era aggiunto il problema di una grossa piaga da decubito, per questo motivo e per la fisioterapia che doveva fare, i dirigenti dell’azienda hanno pensato di trasferirlo a Roma al S. Lucia. Per guarire la piaga molto profonda, che io stesso avevo visto, passava quasi tutto il tempo a letto e quindi difficilmente lo mettevano in carrozzina. Per fare fisioterapia, a differenza di noi che andavamo in palestra, lui la faceva in camera poco più di una mezz’ora al giorno. Mi ricordo che era una persona molto affabile e paziente, mi raccontava della situazione difficile di Sierra Leone in cui c’era in atto una guerriglia tra il governo e i guerriglieri contrari al governo. Era molto preoccupato per sua sorella e suo cognato militare del governo. Difficilmente riceveva visite ma quando venivano i suoi amici africani era molto felice. Insomma si era creato, tra me e lui, una bella
amicizia, ricordo che quando sono andato via, mi sembrava che qualche lacrima gli fosse scappata. Il
secondo è legato ad un aiutante infermiere, di nome Salvatore che dava una mano agli infermieri ad alzare e mettere in carrozzina i pazienti. Siccome era lì da molto tempo e aveva visto una moltitudine di persone più o meno paralizzate, gli chiesi se secondo lui sarei tornato a camminare. Dopo che si è fatto pregare un bel po’ per darmi una risposta, sentenziò che poter camminare avrei avuto bisogno di un miracolo, come dire: ”così sei e così rimarrai”. Ci rimasi piuttosto male e ogni volta che mi vedeva continuava a ripetere che non sarei più tornato in piedi. Giuliana, un’amica che veniva spesso a trovarmi, notando la mia insoddisfazione mi propose e consigliò di passare all’istituto di riabilitazione di Montecatone, io acconsentii e il 27 luglio ‘98 dissi addio al S. Lucia per trasferirmi a Montecatone in provincia di Bologna. Il trasferimento avvenne con una ambulanza affittata perché non potevo stare a lungo seduto per via di un busto removibile acquistato all’ospedale di S.Filippo Neri che dovevo mettermi ogni volta che mi mettevano in carrozzina, per evitare complicazioni, poiché dopo la seconda operazione le vertebre dorsali sesta e settima (D6 e D7), erano state stabilizzate con due placchette e viti al titanio (che ho tutt’ora). Montecatone non era così attrezzato come il S. Lucia, ma si respirava un’aria di maggiore efficienza. Il tempo che si passava in palestra era di gran lunga
maggiore rispetto a S. Lucia anche se c’erano solo due fisioterapiste per una decina di pazienti. Ho un
ricordo piacevole della fisioterapista Katy, una ragazza appena rientrata dal viaggio di nozze, piuttosto robusta e con un modo di fare molto concreto, tipico degli emiliani, che ci incitava a fare di più e meglio. A Montecatone ho incominciato a fare i primi passi con dei particolari tutori, stivaloni opportunamente studiati dalla prof.ssa Vannini, specializzata in ortopedia e responsabile dell’istituto. Questi tutori permettevano, portando la pancia in avanti, una postura eretta e con l’aiuto di un deaumbulatore, un trabiccolo a quattro zampe snodabile, si ricominciava a muovere un passo avanti l’altro con gran fatica ma con la soddisfazione di sentirsi per un breve percorso ancora “bipedi”. Nel primo periodo a Montecatone sono stato ricoverato al terzo piano nel reparto dei ricoverati acuti, dove gli infermieri ti aiutavano a trasferirti dal letto alla carrozzina e viceversa e venivano a girarti a mezzanotte. In quell’ambiente ho conosciuto due persone con le quali tutt’ora mantengo dei contatti: Sebastiano un cardiologo di Siracusa, il suo incidente è stato la perdita del controllo del motorino che stava guidando a causa di un po’ di brecciolino sulla strada, in questo modo cadendo e scivolando oltre l’incrocio era stato travolto da un’auto che passava in quell’istante procurandogli una lesione midollare dorsale, e Nicola un carpentiere e capomastro di una ditta edile di Bari, caduto da
un’impalcatura a causa di uno svenimento, che anche a lui gli ha procurato una lesione midollare.
Via, via che passava il tempo miglioravo la mia autonomia tanto che alle ultime settimane di permanenza a Montecatone passai dal reparto degli acuti a quello degli autonomi al piano terra. In questo reparto gli infermieri erano pochi perché i degenti erano in grado di fare tutti i tipi di passaggi
anche quelli per fare una doccia e di notte non c’era nessuno che veniva a girarti. Comunque il 3 ottobre 1998 fui dimesso da Montecatone e così dopo cinque mesi dalla mia partenza da casa per il S. Filippo Neri ritornavo a casa come un reduce di guerra. A venirmi a prendere furono Vicenzo e Paola, mio cognato ci teneva in modo particolare a riportarmi a casa. Ricordo che a mano a mano che mi avvicinavo a casa sentivo come un rifiuto, se fosse stato possibile avrei chiesto a Vincenzo di riportarmi a Montecatone che ormai sentivo come la mia casa. Tornavo, non come immaginavo e promesso all’uscita di S. Filippo Neri, ossia con le mie gambe, ma con una carrozzina sgangherata perché l’ASL di Latina non mi aveva approvato l’acquisto della carrozzina e i tutori che Montecatone mi aveva lasciato con la speranza che l’ASL li approvasse, altrimenti avrei dovuto pagarli io. Successivamente mi verrà riconosciuta la mia inabilità: “paraplegia” tramite una commissione appositamente riunita dopo pochi mesi dal mio ritorno. Prima di continuare vorrei spiegare cos’è una lesione midollare o mielolesione. Come dice la parola stessa la lesione è una ferita a livello neurologico del midollo spinale. Con la morte di neuroni e la mancanza di sinapsi, non vengono trasmessi i messaggi sensitivi dalla periferia al sistema nervoso principale di conseguenza il
cervello non ricevendo tali messaggi, non può prendere decisioni per mandare ai muscoli gli stimoli per i movimenti. Quindi più è alta la lesione maggiore è il danno. Se è al livello cervicale si ha una tetraplegia, blocco degli arti superiori (braccia e mani), tronco e arti inferiori (gambe e piedi), se è a livello dorsale si ha un blocco dal tronco alle gambe, se è a livello lombare solo gambe.
Naturalmente se la lesione non è completa qualcosa si conserva sia per la sensibilità sia per la motorietà. Invece, quello che non si conserva e che crea parecchi problemi (qualsiasi sia il livello della lesione midollare) è la minzione come comunemente s’intende, quindi per fare pipì occorre “forzare” lo sfintere non più controllato dal cervello. Questo comporta continue infezioni urinarie, che per me significava febbre alta, anche 40°C, e tremore con uso di antibiotici oltre la norma e quindi batteri sempre più resistenti e con possibilità di danni ai reni.
Questo è stato il motivo per il quale nel mese di agosto del 2000 ho abbandonato l’insegnamento, chiedendo il prepensionamento anticipato calcolato sui i miei pochi annidi lavoro circa 15 o 16 e comunque è stato meglio così perché mi sono liberato da impegni di lavoro, per concentrarmi sui piccoli ma significativi miglioramenti dei primi anni dopo gli interventi. Innumerevoli sono stati i ricoveri per la fisioterapia per accertamenti e cure all’apparato urinario.
Marzo 1999 Motecatone per due mesi, giugno 1999 Magenta per accertamenti urologici, settembre 2000 ricovero a Madonna della Letizia Velletri, settembre 2002 ricovero per due mesi di fisioterapia a
Montecatone, a partire dal 2001, fino al 2005 ogni anno nel periodo di giugno andavo in day hospital a
Magenta per accertamenti e particolari trattamenti alla vescica con la tossina botulinica. Innumerevoli sono state le visite specialistiche: neurofisiatri, ortopedici, neurologi e neurochirurghi, e in base a risonanze e radiografie fatte successivamente al mio ritorno, gran parte dei neurochirurghi concordavano nel ritenere che il giusto approccio per risolvere il mio problema sarebbe stato il secondo intervento chirurgico, ossia per via toracica, senz’altro più complicato per l’organismo ma meno stressante per il midollo. Comunque, dopo qualche anno, ho contattato il dr. Fiume, il quale quando mi visto mi ha detto che avevo secondo lui ancora margini di recupero.
Successivamente ho contattato anche il dr. Tamorri, al quale gli ho fatto notare dalle ultime risonanze
magnetiche un residuo di ernia che come un pinnacolo spinge sul midollo, al disopra delle vertebre
stabilizzate dove sono stato operato. Il dr Tamorri mi ha incoraggiato dicendomi che si poteva tentare un secondo intervento e forse ne avrei avuto dei benefici, quindi dopo avermi fatto fare i potenziali evocati esami – che misurano il tempo di risposta per gli stimoli della sensibilità e motorietà – in una seconda visita ha deciso di non fare più nulla, non ricordo il motivo (forse troppo rischioso) lasciandomi un senso di delusione sia come persona e sia come professionalità di chirurgo. A distanza di tutto questo tempo, quello che più mi irrita è che non sono mai stato informato, prima delle operazioni, dei possibili rischi di un intervento al midollo a livello dorsale. Devo dire però, i progressi migliori li ho avuti a partire dal 1999 fino al 2001, grazie anche agli incoraggiamenti del fisioterapista Giancarlo, che mi ha dato fiducia e ha compreso che le caviglie si erano rinforzate e non avevo più bisogno dei tutori; di conseguenza ho iniziato a camminare con delle semplici scarpe e con l’aiuto dei tetrapodi o quadripoli, bastoni che terminano con quattro zampe. Quindi ho potuto fare e ancora faccio le scale di casa, circa una ventina di scalini con gran fatica e impiegando cinque o dieci minuti a secondo di quanto mi rispondono i muscoli delle gambe ma anche con gran soddisfazione
nello stare in piedi. Ho una gamba migliore, la destra, con la quale riesco ad alzare il piede a livello dello scalino, mentre la sinistra, pur permettendomi di stare in piedi mi rendo conto che dopo un po’ la trascino.
Ho acquistato, su consiglio di un ortopedico di Montecatone, un tapis roulant (attrezzo con un tappeto che rotola) e su questo cerco di camminare 15 – 20 minuti un paio di volte al giorno, altro non faccio, perché non posso abusare di quelle poche fasce muscolari che riesco ancora a controllare, altrimenti si irrigidiscono aumentando la spasticità e le contrazioni muscolari involontarie (i cloni). Comunque il mio modo di camminare rimane faticoso, molto lento e sempre con il rischio di cadere per una improvvisa contrazione muscolare incontrollabile, pertanto per potermi muovere con sicurezza e celerità mi è indispensabile l’uso della carrozzina.
Nel 2000 ho acquistato un’auto con il cambio meccanico, adattata per il mio problema con un meccanismo chiamato “guida simplex” ma posso assicurare che non c’è nulla di semplice a guidare un’auto “accroccata” come il sottoscritto. Rifatto l’esame di guida, l’auto mi ha permesso una maggiore autonomia di movimento, caricando naturalmente la carrozzina dietro.
Ma quello che più mi dà soddisfazione, dato che attualmente ho abbandonato la fisioterapia sia da ricoverato sia in ambulatorio, è la piscina, ho ricominciato dal 2001 e se riesco ci vado almeno tre volte alla settimana.
Mi è possibile entrare in acqua senza alcun aiuto né da volontari, né con attrezzature particolari, perché riesco a scendere e risalire in carrozzina da solo, quindi una volta che sono in acqua, mi sento a mio agio, la spasticità e le contrazioni muscolari tendono a diminuire. Considero l’acqua della piscina come un laboratorio e io sono la cavia dove sperimentare tutti i possibili esercizi. Ad esempio galleggiando a pancia in su e alzando un braccio l’acqua tende a ruotare il corpo verso il braccio alzato, facendo resistenza alla rotazione posso rinforzare i muscoli addominali e lombari, oppure in apnea sedendomi e con l’aiuto di Archimede (la spinta) muovo tutte le articolazioni: anche, ginocchia e caviglie come se fossi in bicicletta, un movimento simile a quello dei giocatori di pallanuoto. I movimenti sono più ampi e armoniosi rispetto a quelli fatti su un lettino di fisioterapia o camminando con i tetrapodi, il tutto senza gravare sulle articolazioni.
Alterno gli esercizi con il nuoto stile, dorso e rana, naturalmente non c’è confronto con chi nuota regolarmente con braccia e gambe, comunque le mie vasche le faccio e ultimamente noto che rispetto ai primi anni, quando andavo a stile e le gambe tendevano ad abbassarsi a tal punto che mi sembrava di arare l’acqua invece di nuotare, dovevo far uso di un galleggiante (pull boy) da mettere tra le gambe. Adesso le gambe oltre ad avere un cenno di movimento, galleggiano con meno fatica forse perché i muscoli dei glutei si sono rinforzati. Anche camminare in acqua, reggendomi alla corda che divide la corsia, mi è più semplice e meno faticoso che camminare normalmente fuori dall’acqua. Insomma dopo un’ora di piscina mi sento stanco ma rilassato fisicamente e moralmente e per il resto della giornata mi sento in pace con me stesso e con il mondo. Devo lo stesso sempre stare attento a non esagerare con gli esercizi, per il motivo che ho già detto sopra, altrimenti il giorno dopo c’è uno sciopero generale tale che le gambe si rifiutano di stendersi e darmi la possibilità di rimettermi in piedi e a quel punto occorre un pò di riposo e un antinfiammatorio.
Attualmente il mio rapporto con Dio è altalenante, a volte mi sembra che non esista o che sia solo una necessità umana per consolarci della morte, altre volte invece invoco il suo aiuto e penso che se non ci fosse sarebbe una grande fregatura, specialmente per chi ha vissuto una vita di stenti (vedi parabola del ricco epulone e del povero Lazzaro). Devo riconoscere e sono grato per le grazie ricevute
direttamente e indirettamente per i miei famigliari, ma la più grande è che a partire dalla mia generazione, anche in un clima di antagonismo di guerra fredda tra capitalismo e comunismo, ho potuto vivere in pace senza conoscere fame, distruzione, terrore, tipiche di una situazione di guerra in cui i nostri genitori, nonni, bisnonni…. hanno vissuto e che in molte parti del mondo vivono tuttora con gran terrore purtroppo!
Con l’ambiente cittadino e con la gente, il mio rapporto è buono in teoria, perché c’è sempre qualcuno pronto ad aiutarti, ma in pratica difficile perché trovi sempre auto che occupano posti riservati ai disabili senza alcuna autorizzazione, una volta ho chiamato la polizia municipale mi è stato risposto che sarebbero intervenuti subito, ma dopo una buona mezz’ora di attesa me ne sono andato senza alcun intervento della suddetta polizia.
Auto, anche una della polizia di stato, parcheggiate sulle rampette di accesso ai marciapiedi e marciapiedi che se sali sopra con la carrozzina, non sei più sicuro di poter scendere, poi non parliamo
dell’inadeguatezza dei mezzi pubblici. Insomma soprattutto qui in Italia, manca il rispetto, la cultura e l’educazione da parte della gente “normodotata” per chi ha problemi di handicap ed è un po’ più
svantaggiato. Dico sempre a tutti che chi volesse provare e constatare di persona le difficoltà delle barriere architettoniche, propongo un giro per la città di Latina in mia compagnia e con una carrozzina che metto a disposizione gratuitamente.
Con la famiglia ho avuto un rapporto non sempre idilliaco, nel senso che il mio carattere già introverso è peggiorato e c’è voluta la santa pazienza di Paola (e anche di mia madre e mio padre) per sopportarmi in momenti di crisi, che attualmente ho ancora. Cerco di sforzarmi ad un maggiore autocontrollo ma mi rendo conto che sono incostante e a volte incoerente. Purtroppo anche con le figlie che da adolescenti nel ’98, sono diventate adulte senza che me ne accorgessi e quindi ho perso quella confidenza che un genitore dovrebbe avere e coltivare con i propri figli, anche se cerco di riconquistarlo.
Prima di concludere, vorrei fare un appello e una raccomandazione, forse ripetuto per all’ennesima potenza dai mass media, indirizzato soprattutto ai ragazzi ma anche agli adulti: nei vari ricoveri ho visto e ho parlato con molti giovani che per un incidente d’auto o di moto, si sono ritrovati in carrozzina perché hanno sottovalutato il pericolo o perché provano una sensazione d’invulnerabilità, soprattutto dopo una nottata in discoteca o nei pub.
Quindi perché farsi del male per mancanza di un po’ d’attenzione e di prudenza, basti pensare quanto è complesso il nostro organismo frutto di milioni d’anni d’evoluzione, che nessun laboratorio o scienziato non sarà mai in grado di riprodurre con un robot tutti i possibili movimenti e automatismi. Ogni tanto perché non lasciare, auto, moto e motorini, e riprendere la vecchia bici o semplicemente camminare, fare un passo avanti l’altro, e sentire il peso del proprio corpo sul piede d’appoggio, per poi liberarlo e mandarlo avanti all’atro piede che diventerà a sua volta d’appoggio.
Il gusto di manipolare oggetti di stringere o di allentare la presa ecc. sembrano cose scontate che possano durare un’intera vita e invece in un attimo si potrebbe perdere tutto, il giocattolo quando è stato rotto è difficile ma il più delle volte impossibile, con le attuali conoscenze, aggiustarlo.
A più di dodici anni di distanza dal fatidico doppio intervento e rendendomi conto che questa sarà la mia vita fino alla fine, se non mi succede qualcos’altro di peggiore, ancora oggi fatico ad accettare l’idea di dover rimanere in carrozzina e forse non l’accetterò mai anche se la carrozzina, come già ho scritto sopra, sarà necessaria per potermi muovere; inoltre memore di quanto ha detto Salvatore, la speranza di un “aiuto dal cielo o dalla ricerca” rimarrà sempre in me.
Qui chiudo il mio racconto, anche se i ricordi affiorano continuamente. Ringrazio chi ha avuto la bontà e la pazienza di leggerlo, mi è costata un po’ di fatica e amarezza ripensare e ordinare gli avvenimenti, ma sono contento averlo fatto.
Cordiali saluti Benedetto Castellini.
Novembre 2010

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