Livorno. Una città si interroga sulla morte dei giovani

“La morte dei giovani”: mi chiamano a parlare – a Livorno, al Centro culturale Piazza Grande – di questo pauroso argomento e imprudentemente accetto. Mi sono fidato di don Paolo Razzauti che mi ha assicurato che io ero la persona giusta per parlarne a un uditorio misto, di cristiani e no, desiderosi di pensare con affetto a due protagonisti della vita cittadina morti da poco: Massimo Ceccarini, primario di dermatologia, 52 anni, che ha lasciato la moglie e una figlia quindicenne e Luciano De Maio, collega del Tirreno, 40 anni, moglie e due figli adottivi di sei e tre anni. Presenti il sindaco Alessandro Cosimi e il vescovo Simone Giusti.

Chiedo tolleranza agli uditori per il fatto che non mi vedo all’altezza della questione e dico in apertura che anche mi attendo dallo Spirito “parola e sapienza” per quella conversazione così esigente. Cioè quell’aiuto che Gesù promette nel capitolo 21 di Luca a chi è nella persecuzione: Avrete allora occasione di dare testimonianza. Mettetevi dunque in mente di non preparare prima la vostra difesa; io vi darò parola e sapienza”. Qui non siamo nella persecuzione, ma quando riflettiamo sulla morte – e in particolare sulle morti premature – è come se volgessimo lo sguardo a un accanimento del destino o della Provvidenza nei confronti dell’umana sofferenza.

 

“Morendo mio padre mi disse:

guarda e impara”

Accenno poi alla mia esperienza di una morte giovane: quella della mia prima moglie Michela, che se ne andò quando aveva 43 anni, lasciandomi quattro figli che avevano dai tre ai quindici anni. Non lamentava di morire giovane. O meglio: non lamentava di morire. Lamentava piuttosto il dolore e il distacco da noi. Credo che abbia avuto – in ciò – un grande dono. Una sua sorella di nome Letizia, di dieci anni più giovane, era morta poco prima e io credo che questo fatto l’avesse preparata. Ritengo di aver imparato dalla vita che noi ci prepariamo alla morte – ci prepariamo ad accettare la morte – facendo l’esperienza della morte altrui.

A questo punto della conversazione ho formulato un primo suggerimento pratico: quello di approfittare della morte altrui per imparare la propria. E qui ho invitato chi mi ascoltava a riflettere sullo strano suono delle parole che avevo appena pronunciato: “approfittare” della morte altrui per “imparare la propria”. Il fatto è che non abbiamo parole per la morte: in verità non ne parliamo mai.

Quanto all’imparare la morte ho riferito queste parole di una malata terminale, Beatrice Toboga, da me ascoltata su Raitre il 12 giugno 2008, intervistata da Francesca Catarci nel documentario “Intorno alle cose ultime”: “A mio padre che stava morendo, in un momento che mi pareva più difficile di altri, ho chiesto: che posso fare? Mi ha risposto: guarda e impara”.

Per poter morire bene – ebbe ancora a dire Beatrice nell’intervista – è necessario che le persone non abbiano rimpianti, che abbiano perdonato quelli che dovevano perdonare e chiuso tutti i conti. Vicino a una persona che sta morendo non  vorrei dire nulla ma semplicemente esserci. Spero che in quel momento ci sia qualcuno, qualcuno che mi tiene la mano. La difficoltà maggiore è lasciare i figli. Ora che mia figlia ha avuto un bambino e che è tutta presa da questo fatto – lei è una brava mamma – ecco: ho capito che ora sarà più facile per me lasciarmi andare”.

 

Quando è un ateo

che “acconsente” alla morte

Imparare a morire bene, perdonare, chiudere i conti, lasciare i figli, tenere la mano: credo che nelle poche frasi di quell’intervista vi siano un po’ tutti gli aspetti umani del morire e dunque anche del morire giovani. Quei vari aspetti vi sono guardati e compresi laicamente, senza alcun rimando esplicito a un atteggiamento di fede.

Ed ecco la rispondenza a quell’accettazione umana in chi invece si prepara alla morte da credente: “La vita è un dono che mi è stato dato. Devo viverla come tale, donando un sorriso a chi soffre, anche se il cuore piange. La mia malattia diventa un’occasione di crescita e conoscenza di me stessa. Nella malattia l’avventura della vita viene inevitabilmente intensificata dal dolore, dalla compassione che si prova per se stessi e per i propri compagni di viaggio. Ma non crediate che la malattia sia solo sofferenza, come non lo è la vita. E’ un mistero circondato da tanti piccoli miracoli di comprensione, solidarietà, gioia di poter vedere con altri occhi e sentire con altri sensi. Dolorosa non è la morte in sè, ma la sottocultura da cui siamo dominati e che ci rende inutili, che ci toglie dignità e bellezza, quando in realtà nessuno è così vicino alla vita quanto lo siamo noi, che stiamo morendo” (Paola Salviato, una tra i 139 protagonisti del mio volume Cerco fatti di Vangelo2, EDB 2011, p.87).

“Morire bene” dice laicamente Beatrice Toboga. Ed è forse l’equivalente di quanto inteso da Simone Weil con le parole: “I santi sono coloro che da vivi hanno realmente acconsentito alla morte”. Ma è possibile a un non credente “acconsentire” alla morte? Nella mia ricerca di storie di vita ho trovato un caso recente di un collega giornalista, Carlo Massa (1942-2007), orgogliosamente laico, che ha affermato per iscritto e più volte la scelta di “accettare” la fine della vita. Inizialmente si è trattato anche per lui – come per Beatrice – di guardare in faccia alla malattia che lo stava portando alla morte, in vista di realizzare “una vita riconciliata, senza più rancori o conti in sospeso, senza ansie e tremori”. Ma infine egli è arrivato alla vera accettazione: “Sforzandomi di accettare la morte mi accorgo che la vita acquista un sapore, un’intensità e un senso maggiori di quanto ne avesse prima per me” (brano che si trova a p. 56 del volumetto dell’editore Servitium che raccoglie le “note dalla malattia” di Carlo Massa, pubblicate con il titolo Tutto me stesso prima di morire, 2008).

 

La città

non ne parla mai

Davanti alla morte la nostra cultura si divide oggi in due e subisce una doppia tentazione al silenzio: tacciono i cristiani perché ritengono di saperla lunga sul temibile argomento e tacciono i non cristiani in forza del principio di realtà che li induce a considerare infondata la speranza dei credenti. Siamo di fronte a un rigetto trasversale di ogni parola condivisa sulla morte, cosicchè essa manca di un discorso nella lingua comune. Ne parlano i medici, i preti, gli psicologi, i filosofi, ma non ne parla mai la città. Da qui l’importanza dell’iniziativa di chi mi aveva invitato, il circolo Piazza Grande, che si propone di “aiutare la gente a vivere meglio la città”.

Sappiamo da sempre e tutti che ogni morte ci riguarda. Ce lo ha insegnato il poeta del Seicento inglese John Donne con i versi che Ernest Hemingway ha posto a epigrafe del romanzo Per chi suona la campana (1940): “Ogni morte di uomo mi diminuisce perché io partecipo dell’umanità. / E così non mandare mai a chiedere per chi suona la campana: / essa suona per te”.

A questo punto ho invitato a compiere un passo in avanti, oltre l’intuizione di John Donne e di Ernest Hemingway, provocando i miei uditori a riflettere che se si tratta di una morte giovane – o quantomeno di uno più giovane di noi – è come se la campana suonasse due volte per noi.

Ho anche fatto ricorso a due frammenti di autori antichi, uno di Plutarco e uno del poeta Menandro. “La morte dei giovani è un naufragio, quella dei vecchi un approdare al porto”, dice Plutarco col suo abituale equilibrio. “Muor giovane colui ch’al cielo è caro” canta invece Menandro nella traduzione di Giacomo Leopardi.

 

“Felicissimo per la morte ottenuta

nel fiore degli anni” (Leopardi)

Il sentimento della morte coltivato da Leopardi lo rende ancora meglio una “iscrizione” da lui dettata per essere posta “sotto il busto di Raffaele nel giardino Puccini presso Pistoia”: “Raffaele d’Urbino / principe de’ pittori / e miracolo d’ingegno / inventore di bellezze ineffabili / felice per la gloria in che visse / più felice per l’amore fortunato in che arse / felicissimo per la morte ottenuta / nel fiore degli anni”.

Resistendo alla magia della parola leopardiana, sto con Plutarco, non avendo mai amato il modo tra stoico e romantico di guardare alla morte in età giovanile come a un dono degli dei. La vecchiaia può essere – e spesso è – una grande prova, ma fa parte dell’avventura della vita e ha i suoi doni nel vedere per esempio i figli dei figli, che siano da noi generati o che semplicemente allietino il nostro sguardo mentre camminano nella luce e prendono il nostro posto nel mondo.

La morte giovane – proprio come un naufragio – abbrevia e impoverisce l’avventura della vita. E se è un mistero la morte, quella dei giovani è come un doppio mistero. Nè dobbiamo cercarne spiegazioni. Anche la tendenza del linguaggio religioso a leggere nelle circostanze di ogni morte la volontà di Dio credo sia fuorviante.

Fin qui la mia argomentazione in termini secolari, da Cortile dei Gentili. Ma ho proposto all’uditorio anche una conclusione cristiana, offrendola a chi la volesse accogliere, o almeno considerare.

 

Chi è nel Signore

vive in una condizione migliore

Gesù dice “non piangere” alla vedova di Nain che porta a seppellire l’unico figlio, piange di fronte alla morte di Lazzaro, grida al Padre nel momento della propria morte. Dunque conosce il pianto e il grido di fronte alla morte dei giovani: anch’egli era giovane quando morì. E non fornisce spiegazioni.

Dovremmo poi esercitarci a guardarla, la morte dei giovani, dal punto di vista della paternità divina. Così facendo potremmo misteriosamente intuire che essendo nel Signore quanti sono morti in età giovanile vivono in una condizione migliore rispetto a quella di quaggiù.

Luigi Accattoli

 

Il Regno attualità 8/2011

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