Il dialogo interreligioso: una speranza per l’Europa

Camaldoli 23 ottobre 2010

Parlare di dialogo tra le religioni per il domani dell’Europa in occasione di un premio attribuito ad Andrea Riccardi comporta che si dia un’occhiata – seppure soltanto aerea – al pellegrinaggio di riconciliazione e di pace che la Comunità di Sant’Egidio, di cui Riccardi è fondatore, ha tracciato sulla carta dell’Europa e del Mediterraneo lungo gli ultimi 23 anni, facendo propria la lezione della “Giornata di preghiera e di digiuno per la pace” indetta da Papa Wojtyla ad Assisi per l’ottobre del 1986 e aperta alla partecipazione di tutte le religioni mondiali.

Ai due incontri di avvio che si fecero a Roma (1987 e 1988), seguì quello di Varsavia, dal titolo War never again, nel settembre 1989, a cinquant’anni dall’inizio della seconda guerra mondiale. Quindi Bari (1990), Malta (1991), Bruxelles (1992): quest’ultimo su un tema identico a quello che trattiamo qui oggi: Europa, religioni, pace. Vengono poi tre tappe italiane: Milano (1993), Assisi (1994), Firenze (1995). Nel 1995 si va a Gerusalemme: Insieme a Gerusalemme: ebrei, cristiani e musulmani. Roma (1996), Padova-Venezia (1997), Bucarest (1998: La pace è il nome di Dio). Genova (1999), Lisbona (2000), Barcellona (2001), Palermo (2002), Aachen (2003: Aquisgrana, in Germania, già capitale del Sacro Romano Impero), Milano (2004), Lione (2005), Washington (2006: seconda tappa extra europea dopo Gerusalemme). Assisi (2006), Napoli (2007: vi fu il Papa e la neve sul Vesuvio in ottobre!). Cipro (2008). Nel 2009, a settant’anni dall’inizio della Seconda Guerra Mondiale si va a Cracovia, dove il giovane Karol Wojtyla aveva visto arrivare la guerra. L’ultimo meeting si è appena tenuto a Barcellona, in Spagna, all’inizio di questo mese.

Se ho contato bene, si tratta di 25 appuntamenti in 24 anni. Per Bucarest e Cipro, la collaborazione che i due meeting comportarono con le due Chiese ortodosse fu preludio alle successive visite di Giovanni Paolo e Benedetto. La rete di relazioni amicali tessuta dalla Comunità di Sant’Egidio nei decenni, con esponenti ebrei e musulmani di tanti paesi, è stata di stimolo e di aiuto in più ampie iniziative vaticane ed ecumeniche.

Giovanni Paolo II nel messaggio inviato al 14° di questi incontri (Lisbona 2000) ringraziava la Comunità di Sant’Egidio “per l’entusiasmo e il coraggio spirituale con cui ha saputo raccogliere il messaggio di Assisi e portarlo in tanti luoghi del mondo attraverso gli incontri di uomini di religione diversa”. Sempre Giovanni Paolo nella Novo Millennio Ineunte (2001) così scriveva guardando al futuro: “… si pone la grande sfida del dialogo interreligioso, nel quale il nuovo secolo ci vedrà ancora impegnati (…) Il dialogo deve continuare”.

A Napoli nel 2007 Benedetto XVI ha ribadito: “Nel rispetto delle differenze delle varie religioni, tutti siamo chiamati a lavorare per la pace e a un impegno fattivo per promuovere la riconciliazione tra i popoli. E’ questo l’autentico ‘spirito di Assisi’, che si oppone ad ogni forma di violenza e all’abuso della religione quale pretesto per la violenza”.

Dell’autentico spirito di Assisi oggi in Europa abbiamo gran bisogno. Credo che il domani del pianeta sia destinato a essere il crogiuolo di un incontro, o incrocio, o meticciato senza precedenti di ogni cultura e civiltà e credo che in Europa viva una componente della famiglia umana esperta e capace di incontro, forse la più capace – oggi – tra tutte, ma anche una delle più diffidenti nei confronti della volontà di pace delle fedi religiose: ecco dunque la particolare pregnanza del dialogo interreligioso per il nostro futuro.

Il domani dell’umanità sarà la patria – io credo – di chi meglio saprà andare all’incontro del diverso restando se stesso. E questo l’Europa ha fatto per gran tempo e fa tuttora meglio di altri. Ma deve imparare a farlo con tutta intera la sua anima e non nell’occultamento o nel silenziamento di quella componente decisiva della propria storia e realtà attuale che è lo spirito religioso.

La diffidenza di tanti europei per la religione – perché vista come fonte di conflitti invece che come maestra di pace – è legata all’esperienza delle guerre di religione e più in generale alla memoria dell’integralismo religioso che ha caratterizzato molti secoli della nostra storia. Ma oggi è indispensabile superare quella diffidenza, che da tempo ormai si configura come un pregiudizio e che ostacola la comprensione della nuova umanità europea e dei problemi posti da un’inedita mescolanza delle fedi in questo continente.

Sul perdurare di quella diffidenza – che a volte porta alla proibizione per legge del velo islamico o della kipà ebraica o delle croci cristiane in ambienti della vita associata – abbiamo avuto una forte e direi solenne attestazione con la contesa relativamente recente sul preambolo della Carta costituzionale europea. L’arcivescovo Jean-Louis Tauran nel maggio del 2003 protestava – a nome del Papa Giovanni Paolo II – per la mancata citazione del nome cristiano nella bozza di Costituzione europea, affermando che quella omissione rivelava “una prepotente tentazione di riscrivere la storia”. Aveva ragione.

Ma Valéry Giscard d’Estaing, presidente della Convenzione costituente, reagiva affermando che la menzione del cristianesimo era stata mantenuta implicita – essa era allusa dall’evocazione dello “slancio spirituale che ha percorso l’Europa ed è ancora presente nel suo patrimonio” – perché “altrimenti avremmo dovuto menzionare anche
le altre tradizioni religiose presenti nel continente, dal giudaismo all’Islam”. E io trovo che anche lui aveva ragione! Ma oso immaginare che ambedue gli impegni – di nominare il cristianesimo e di non misconoscere le altre fedi – andavano onorati, nel rispetto della realtà storica e attuale.

La presenza forzosa e conflittiva delle tre fedi è nella storia dell’Europa, mentre la loro compresenza accettata e pacificata si pone oggi come condizione per il suo futuro. Dal microcosmo dell’aula scolastica al macrocosmo dell’Unione europea, la via della compresenza e della reciproca accettazione appare ormai ineludibile.

Oggi gli Stati membri dell’Unione Europea sono 27, con una popolazione complessiva che sfiora il mezzo miliardo (492 milioni secondo la stima più recente). L’Europa di domani – che di necessità, in un qualche modo, dovrà includere la Russia e la Turchia: non può esservi Europa senza la seconda e la terza Roma – ci spinge a immaginare un’umanità europea di ottocento-novecento milioni di persone, per un terzo, forse, composta di cristiani appartenenti alle varie famiglie confessionali e in mezzo alla quale già oggi vivono una cinquantina di milioni di musulmani e un paio di milioni di ebrei.

Come sarà in quell’Europa di domani il confronto tra queste fedi e tra l’insieme della famiglia di Abramo e le altre tradizioni religiose che vengono a noi dall’India e da ogni dove? Tremano vene e polsi all’udire una tale domanda. Ci rende incerti la memoria della Shoah – così recente da tramortirci se appena appena calcoliamo mentalmente il poco tempo della nostra fuoriuscita dall’antisemitismo e dall’antigiudaismo. E ci rende incerti la prospettiva di possibili conflitti con i musulmani che vanno rapidamente crescendo nelle nostre patrie avviate a trasformarsi in un’unica patria.

Abbiamo appena superato l’avversione di pelle che ci rendeva reattivi e inospitali nei confronti delle prescrizioni ebraiche sulla circoncisione e la carne di maiale ed ecco che ci scopriamo agguerriti avversari delle analoghe prescrizioni islamiche: avviene a tanti tra noi e alcuni sono scusabili perché non sanno quello che fu e quello che è, ma altri sanno bene la forza di quel pregiudizio e il precipizio a cui ci portò – e dunque chi sa non è scusabile e chi non sa dovrà apprendere.

Da qui l’urgenza, la pregnanza del dialogo tra le fedi. Di esso tratta a lungo – per quanto riguarda la Chiesa cattolica – il documento di applicazione dell’Assemblea speciale del Sinodo dei vescovi per l’Europa, Ecclesia in Europa, che è del 2003 [Il Sinodo si era tenuto nel 1999, a otto anni dalla prima Assemblea sinodale dedicata all’Europa]. Quel testo al paragrafo 55 afferma la necessità che “si abbia a instaurare un profondo e intelligente dialogo interreligioso, in particolare con l’Ebraismo e con l’Islam”, dialogo da intendere “come metodo e mezzo per una conoscenza e un arricchimento reciproco”.  Dialogo è vocabolo conteso oggi. Suggerisco di sostituirlo, quando sia possibile, con il verbo “parlare”. Invece di dire che “dobbiamo dialogare con i musulmani che sono tra noi”, proviamo a dire che “con questi musulmani dobbiamo parlare”: forse qualche pregiudiziale ideologica si attenua.

Ciò comporta – si legge al paragrafo 56 di quello stesso documento – che ogni comunità ecclesiale abbia ad esercitarsi, per quanto le circostanze lo permetteranno, nel dialogo e nella collaborazione con i credenti della religione ebraica. Tale esercizio implica, tra l’altro, che ‘si faccia memoria della parte che i figli della Chiesa hanno potuto avere nella nascita e nella diffusione di un atteggiamento antisemita nella storia e di ciò si chieda perdono a Dio, favorendo in ogni modo incontri di riconciliazione e di amicizia con i figli di Israele’ [citazione dal documento Noi ricordiamo. Una riflessione sulla Shoah, pubblicato nel 1998 dalla Commissione per i rapporti religiosi con l’Ebraismo]. Sarà peraltro doveroso, in tale contesto, ricordare anche i non pochi cristiani che, a costo a volte della vita, hanno aiutato e salvato, soprattutto in periodi di persecuzione, questi loro fratelli maggiori”.

L’approccio all’Islam è poi presentato così al paragrafo 57: “Si tratta pure di lasciarsi stimolare a una migliore conoscenza delle altre religioni, per poter instaurare un fraterno colloquio con le persone che aderiscono ad esse e vivono nell’Europa di oggi. In particolare, è importante un corretto rapporto con l’Islam. Esso, come è più volte emerso in questi anni nella coscienza dei Vescovi europei, ‘deve essere condotto con prudenza, con chiarezza di idee circa le sue possibilità e i suoi limiti, e con fiducia nel progetto di salvezza di Dio nei confronti di tutti i suoi figli’ [questa è una citazione dalla Dichiarazione finale della Prima assemblea speciale del Sinodo dei vescovi per l’Europa, che si era tenuta nel 1991]. È necessario, tra l’altro, avere coscienza del notevole divario tra la cultura europea, che ha profonde radici cristiane, e il pensiero musulmano”. E’ importante quest’ultima avvertenza, che non c’era nel documento finale del precedente Sinodo europeo, pubblicato dodici anni prima. Nel frattempo, a spiegare quell’avvertenza, erano avvenute tante cose: basti qui ricordare gli aerei e le torri dell’11 settembre 2001.

Anche sul tema della reciprocità troviamo una novità di rilievo in questa seconda carta del dialogo interreligioso comandato dal Sinodo. La prima si limitava a richiamarne la doverosità: “Affinché la solidarietà reciproca sia sincera, è necessaria la reciprocità nei rapporti, soprattutto nell’ambito della libertà religiosa, che costituisce un diritto fondato nella stessa dignità della persona umana e che pertanto deve essere valido in ogni luogo della terra”. La seconda aggiunge l’essenziale coinvolgimento delle istituzioni europee in tale pedagogia o strategia della reciprocità: “È peraltro comprensibile che la Chiesa, mentre chiede che le istituzioni europee abbiano a promuovere la libertà religiosa in Europa, abbia pure a ribadire che la reciprocità nel garantire la libertà religiosa sia osservata anche in Paesi di diversa tradizione religiosa, nei quali i cristiani sono minoranza”.

Un’ultima segnalazione, a proposito di queste due carte fondative del dialogo interreligioso europeo da parte della Comunità cattoliche: in ambedue leggiamo un monito contro il “relativismo”. Mi limito a riportare il testo del primo dei due Sinodi che su questo è più diffuso: “Il rispetto della libertà e la giusta consapevolezza dei valori che si trovano nelle altre tradizioni religiose non devono indurre al relativismo, né indebolire la coscienza della necessità e dell’urgenza del comandamento di annunciare Cristo. Nel presente contesto pluralistico, la scelta della Chiesa non è il relativismo, ma un sincero e prudente dialogo, che lungi dall’indebolire la fede la renderà più profonda”. Ci tengo a questo richiamo in dialettica con quanti tendono a pensare – per corta memoria – che il monito contro il “relativismo” dominante nella cultura europea sia arrivato con Papa Benedetto.

E voglio qui richiamare anche una recentissima e pungente parola di Papa Ratzinger sulla nostra fiera del relativismo, che spesso arriva non solo a mettere le fedi sullo stesso piano ma addirittura a penalizzare quella cristiana: parlando il 17 settembre nella Westminster Hall di Londra agli ambienti imprenditoriali, al mondo accademico e al corpo diplomatico, egli denunciava “la crescente marginalizzazione della religione, in particolare del cristianesimo, che sta prendendo piede in alcuni ambienti, anche in nazioni che attribuiscono alla tolleranza un grande valore”. Il Consiglio delle Conferenze episcopali europee (CCEE) ha appena costituito un Osservatorio sull’intolleranza e la discriminazione contro i cristiani in Europa che è certamente un segno dei tempi.

Anche in ambito secolare e politico registriamo – con echi forti proprio in questi giorni – un ripensamento in ordine all’accoglienza degli immigrati e all’incontro con le loro culture, in piena rispondenza agli atteggiamenti più cauti che prendono piede – come abbiamo visto – nelle Chiese cristiane. Il multiculturalismo che ha caratterizzato le politiche europee degli ultimi decenni, sull’onda della decolonizzazione prima, del superamento della divisione del continente in due blocchi poi, nonchè della riduzione e quasi cancellazione delle frontiere all’interno di un’Unione Europea sempre più vasta; quel multiculturalismo – inteso sia come idea sia come laboratorio di buone convivenze – oggi è dovunque in crisi, con impressionanti risvolti sociali ed elettorali: crescono i partiti di estrema destra che sono contrari alle politiche tradizionali di accoglienza dei migranti e dei rifugiati, il timore del terrorismo islamista proietta un riflesso di diffidenza persino nei confronti degli immigrati musulmani che cercano di realizzare un luogo di culto.

Gran Bretagna, Germania e Francia hanno svolto nei decenni che vanno dalla seconda guerra mondiale alla fine del secolo scorso una specie di gara dell’apertura al meticciato culturale, ma oggi stanno frenando. Ne è un segno inequivoco e di rilevanza anche linguistica il ministero istituito in Francia dal presidente Nicolas Sarkozy: “Ministero dell’immigrazione, dell’integrazione, dell’identità nazionale e dello sviluppo solidale”. “Chi non parla tedesco non è benvenuto”, ha detto ultimamente con lo stesso spirito la cancelliera tedesca Angela Merkel.

Dice ancora la Merkel: “L’approccio multiculturale e l’idea di vivere fianco a fianco in serenità ha fatto fallimento”. Mentre in Vaticano nasce il Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione, in Europa prende piede la riscoperta dell’identità. In questa fase di ripensamento e di timore, ancora più preziosa si fa, perchè controcorrente, la conversazione tra i credenti a servizio dell’uomo. Appunto, come recita il tema di questo incontro: il dialogo interreligioso come speranza per l’Europa.

Certo il nostro non è più il tempo del dialogo interreligioso nascente e pieno di fiducia, che amava riunire intorno a un tavolo un ebreo, un cristiano e musulmano accumunati da uno spirito di volenteroso approccio reciproco, almeno quanto al metodo del confronto. Eppure quell’immagine del confronto tra diversi ha una storia antica e non possiamo lasciarcela scippare dall’attuale incendio identitario. Essa era già cara sia alla disputa “scolastica” sia alla novellistica medievale. Troviamo queste narrazioni nel Novellino, nel Boccaccio e tante altre volte, fino al dramma del tedesco Gotthold Ephraim Lessing intitolato Nathan il Saggio (Nathan der Weise), che è del 1779. Tutti ricordiamo – dalle letture scolastiche – la terza sapida narrazione della prima giornata del Decameron, dove Melchisedech giudeo con una novella di tre anella [il Boccaccio è un genio della parola e gli basta una rima inaspettata a risvegliare l’attenzione] cessa un gran pericolo dal Saladino apparecchiatogli.

Un’eco di tali dispute – sempre civili, se pure a volte rigide – l’abbiamo persino nella Regola sanitaria salernitana (Flos Maedicinae Salerni, poemetto dell’XI-XII secolo), o meglio nella leggenda popolare sulla nascita della Scuola Salernitana, che sarebbe venuta dall’incontro – in una notte piovosa del lontano Medioevo – di un romano, un greco, un ebreo e un arabo [La Regola sanitaria salernitana, Newton Compton, Roma 1993, p.10]. Ed è con essa che termino la mia divagazione, proponendo una considerazione del nostro futuro destino con la narrazione di un testo antico. Quei quattro – portatori di quattro culture – misero insieme i loro ritrovati per curare il romano che era ferito. Ebbene oggi possiamo guardare a un futuro da inventare nel quale ebrei, cristiani, musulmani e seguaci di ogni altra fede congiungano i loro sforzi per soccorrere l’umanità europea e ogni altra umanità carica ancora e sempre di ferite.

Concludo con alcune parole di Andrea Riccardi, le più impegnative – credo – della sua vasta produzione e che riguardano in primis la città di Roma, perché Andrea è romano ed è vero che oggi la sua Comunità per mare e per terra batte l’ali, ma il primo passo lo compì nel quartiere romano di Trastevere. Le prendo – quelle parole più impegnative – dal volume che considero il frutto maturo dell’appassionata indagine su Roma e la guerra che Riccardi va conducendo da oltre trent’anni: L’inverno più lungo. 1943-44: Pio XII, gli ebrei e i nazisti a Roma (Laterza, Bari 2008): “A Roma, in Italia, in Europa, la Shoah è una sconfitta del cristianesimo. Lo è anche di altre culture e visioni ideali. Ma proprio il cristianesimo aveva permeato a fondo la storia secolare dell’Europa. Ed è sconfitto dalla violenza nazista e dall’avverarsi di un male così grande in terre cristiane”, un male che “rivela la sconfitta dell’umanità europea” (p. XV).

Sconfitta del cristianesimo, sconfitta dell’umanità europea: in queste parole forti di Riccardi io avverto la pensosa, dolorante considerazione dello storico e insieme un vivo impegno di uomo e di cittadino europeo a fare di tutto perché le nostre e le future generazioni non abbiano a sperimentare altre analoghe sconfitte del cristianesimo e dell’umanità europea. Ciò che ieri avvenne con gli ebrei potrebbe ripetersi domani nello scontro con gli immigrati musulmani o con l’onda migratoria cinese, o con una nostra mala reazione – tutto è possibile sotto il sole – alla seduzione religiosa che viene dall’India. Il lavoro di Riccardi – nel segno di Assisi – per la conciliazione tra le fedi, io lo vedo legato alla percezione di quella sconfitta e dell’ombra lunga e del monito che essa getta dal nostro passato verso il nostro futuro. Fare di quel monito la materia prima della speranza per il domani è un compito che ci riguarda tutti.

 

Lascia un commento