Quand’era facile la fede e difficile la carità

Che cosa può insegnarci Margherita di Città di Castello

Un narratore di “fatti di Vangelo” dei nostri giorni può aiutare a intendere quelli del passato? O a paragonare sfide e doni della vocazione cristiana ai nostri giorni e – poniamo – al tempo di Dante? Alcuni amici di Città di Castello mi hanno proposto il tema inusitato: Fede e carità al tempo di Beata Margherita e ai nostri giorni. Con l’improntitudine del giornalista ho accettato e ho tenuto l’incontro il 6 maggio al Centro Studi “Beato Carlo Liviero”, a Città di Castello, presente il vescovo, una squadra sportiva di disabili (dell’Associazione Sportiva dilettantistica “Beata Margherita”) e tante persone.

In San Domenico il pomeriggio avevo visto per la prima volta l’urna della Beata e un poco l’avevo amata anche nella sua spoglia, così piccola. Era cieca, rachitica, gobba e storpia (la gamba destra più corta della sinistra) e ne ho parlato come della donna delle beatitudini: “beati i poveri, gli afflitti, i piangenti”. E come tribolata che soccorre i tribolati, immagine quanto mai attuale dei rovesciamenti evangelici. Ho richiamato Luca 14, 21: “Esci per le piazze e per le vie della città e conduci qui poveri, storpi, ciechi e zoppi” e ho detto che lei che era tutto questo una volta entrata nel banchetto si è adoperata a tirare in esso ogni altro derelitto. E noi tra essi.

Era cieca
e viveva nella luce

Ho narrato la “leggenda” di Margherita seguendo la ricostruzione che ne ha dato lo storico dell’Ordine domenicano William R. Bonniwell nel volumetto Margherita di Città di Castello. Vivere nella luce (Città nuova 2002, edizione inglese del 1983). Trovo geniale il sottotitolo “vivere nella luce” posto a logo della vicenda di una cieca. Il mio interesse per la beata era nato da quella lettura e dall’immagine di Margherita che è sulla copertina di quel libro, che la raffigura veggente e che irradia luce dai vivissimi occhi. L’immagine è accompagnata da questa didascalia: “Maestro delle Effigi Domenicane, Margherita di Città di Castello (Secolo XIV). Venezia – Museo civico vetrario (Murano)”. Da quando ho imparato ad amare quell’immagine essa mi soccorre quando prego il Salmo 35: “Nella tua luce vedremo la luce”.

In vista dell’appuntamento di Città di Castello avevo poi letto il volumetto di Enrico Giovagnoli Vita di Beata Margherita da Città di Castello terziaria domenicana (Petruzzi editore 1994, ripubblicato nel 1997). Ben sapendo come la verifica delle fonti storiche – tra loro contrastanti – costituisca un campo minato anche per i cultori della materia, ho premesso che non pretendevo di fare considerazioni da storico, che non sono, ma da giornalista, mirate alla comprensione del nostro tempo più che di quello antico.

Margherita viene detta di Città di Castello dove muore nel 1320, o della Metola (un castello al confine tra l’Umbria e le Marche) dove nasce nel 1287. E’ detta anche “la cieca della Metola”. Non conosciamo il casato né del padre – che le fonti nominano come Parisio – né della madre che è detta Emilia. La bambina era “cieca, piccola, deforma” – così la descrive una delle fonti: il codice di Cividale – e i genitori che vivono in un piccolo castello cercano di tenerla nascosta e verso i sei o sette anni arrivano a relegarla in una specie di cella murata, comunicante con una cappella, all’interno di un bosco e la tengono lì 13 anni (Bonniwel), o nove anni (Giovagnoli). Secondo un altro studioso, Ubaldo Valentini – che ho conosciuto in occasione dell’incontro del 6 maggio – quel relegamento è da considerare “leggendario”, recepito e sviluppato dai primi biografi per drammatizzare la vicenda della santa (Beata Margherita de la Metola. Una sfida alla emarginazione, Petruzzi editore 1988). Quando il duca di Urbino invade quelle terre, la popolazione si rifugia nel castello di Mercatello e lì viene portata anche Margherita, che viene rinchiusa – secondo le fonti antiche – in un sotterraneo, nel quale resta per un anno.

Abbandonata dai genitori
e adottata dai mendicanti

Margherita è dunque sui sedici (Giovagnoli) o sui diciannove anni (Bonniwel) quando Parisio ed Emilia la fanno uscire dalla sua prigione e la conducono nascostamente – secondo la “legenda” – a Città di Castello, nella chiesa di San Francesco, sulla tomba di un francescano laico, fra Giacomo (morto nel 1292), dove si dice che avvengano miracoli. Ma il miracolo non avviene e i genitori secondo le fonti antiche abbandonano la figlia, non sopportando l’idea di tornare al Castello con lei, in pieno giorno. Il Valentini reinterpreta la vicenda come un affidamento della bambina o ragazza a una comunità monastica e a conoscenti che abitavano in quella città. Sta di fatto che Margherita non avrà più contatti con i genitori.

L’adottano i mendicanti, le insegnano a mendicare. Viene ospitata in varie case, ammirata per la sua sensibilità e per il fatto che conosceva a memoria il Salterio e riusciva persino a insegnare qualcosa di latino ai bambini vedenti, lei che era cieca. E oggi ben sappiamo quante cose sappiano fare i ciechi. L’autore della prima biografia, databile alla metà del Trecento, così commenta questa sua attitudine all’insegnamento: “O beata cieca che mai vedesti le cose del mondo e che così rapidamente apprendesti le cose celesti. O felice discepola, che meritasti di avere un tale maestro che a te, nata cieca e senza libri, insegnò ad apprendere le Scritture fino ad ammaestrare i veggenti”.

Viene accolta nel Monastero di Santa Margherita e da esso viene presto espulsa perché la sua rigorosa osservanza della regola la pone in cattiva luce presso le monache ospitanti, dalla vita rilassata. Di nuovo abbandonata a se stessa, a elemosinare, ospite di varie case. Finalmente viene accettata tra le Mantellate della Chiesa della Carità, una famiglia religiosa che più tardi prenderà il nome di Terz’Ordine domenicano. “Le donne che desideravano vivere la vita religiosa e che per qualche ragione non potevano entrare in convento, potevano per questa via affiliarsi all’Ordine domenicano” (Bonniwell 85). Continuavano a vivere nella propria casa [Margherita è ospite prima della famiglia degli Offrenducci e poi dei Venturino] e portavano una mantella nera, donde il nome di Mantellate.

Essendo disabile
soccorreva i disabili

Passava giorni e notti in preghiera nella chiesa della Carità. Visitava in continuità i carcerati, i malati, i moribondi, i poveri d’ogni specie. In città la vedevano ogni giorno correre come poteva dai bisognosi, cieca e zoppa, appoggiandosi a un bastone e camminando lungo i muri. Anche in questo precorre i tempi: noi oggi abbiamo esperienza frequente di disabili che dalla sedia a rotelle o dalla tastiera del computer sono di aiuto al prossimo e spesso si fanno animatori della lotta alla disabilità.

La provvidenza l’arricchisce di segni. Un giorno s’appicca un incendio alla casa dei Venturino, lei è in alto, nella soffitta che si è scelta come abitazione. La chiamano perché fugga. Lei dice serena a Monna Gregoria, detta Grigia: “Prendi il mio mantello e buttalo sulle fiamme”. Il biografo della Leggenda descrive questo segno con parole che valgono una predella si Simone Martini: “Quando il mantello di Margherita fu gettato sulle fiamme, il fuoco che furiosamente ruggiva si estinse all’istante”.

Insieme a monna Grigia le fonti ricordano una Lucecina, o Cina, e una Venturella – bellissimi nomi da novella medievale – che furono testimoni di sue levitazioni: quando cioè la vedevano sollevarsi di un cubito, cioè di un mezzo metro, mentre assisteva alle celebrazioni nella chiesa dei domenicani.

Potrebbe essere
la patrona degli handicappati

Margherita, ormai amata da tutti, muore – consumata dalle penitenze e più ancora dall’amore di Dio e dei fratelli – a 33 anni. L’ammirazione per la sua pietà e per la sua carità dura fino a oggi. E’ venerata come “beata” dal 1906, per decisione di Paolo V, su un’istruttoria condotta dal cardinale Roberto Bellarmino che ne verifica la fama di santità e di intercessione specie a favore di ciechi, muti, sordi e zoppi. Nel 1988 su istanza dei vescovi di Urbino e Città di Castello la Congregazione vaticana per il culto divino la proclama “Patrona presso Dio di quanti sono chiamati comunemente non vedenti ed emarginati”. Io sono entusiasta di questa definizione. Confido che un giorno possa essere venerata come santa e qualificata come “Patrona degli handicappati”.

Gli anni della grande avventura cristiana di Margherita sono quelli in cui Dante compone la Divina Commedia. Quell’umanità credente e peccatrice che ci esalta e ci atterrisce nelle terzine dantesche è la stessa che incontriamo nelle stagioni drammatiche e in quelle serene della vita di Margherita.

Quanto alla vocazione cristiana, la vicenda di Margherita ci dice che ogni epoca ha la sua grazia e la sua disgrazia. Allora avevano facile la fede nel miracolo, difficile l’accettazione del menomato e del diverso. Noi siamo pronti a soccorrere il prossimo ma renitenti all’accettazione del mistero.

Anche nella Chiesa
i menomati venivano nascosti

Non solo nelle famiglie ma anche nella Chiesa i menomati venivano nascosti. Per essere ammessi agli ordini sacri o alla professione religiosa occorreva dimostrare di essere figli legittimi e di non avere gravi difetti fisici. Chi non era in regola, restava “terziario”. Il cambiamento della disciplina è arrivato in questi ultimi anni, anzi sta arrivando ora.

Io credo che sulla questione fede-carità ci troviamo oggi di fronte all’esigenza di un rovesciamento dell’itinerario pedagogico tradizionale: si partiva dalla fede e in nome della fede in Dio si richiamava il credente al compito della carità; oggi dovremmo partire dalla carità, che è comprensibile all’umanità contemporanea, e da essa risalire alla fede in colui che è carità: “Deus caritas est”.

Luigi Accattoli
Il Regno 10/2011

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