Premessa

Posta in alto sulle Serre calabresi, antica di nove secoli e circondata da alte mura la certosa attira le leggende. Ha attirato anche nei decenni la mia curiosità che infine ho potuto soddisfare con un approccio diretto e fortunato dal quale è nato questo volumetto in collaborazione con il priore Jacques Dupont.

In vista della visita di Papa Benedetto XVI ai certosini di Serra San Bruno, fissata per il giorno 9 ottobre 2011, l’editore Rubbettino mi ha chiesto di realizzare un libro intervista sulla vita e la vocazione certosina il cui progetto era già concordato con il priore. Ho accettato la proposta con una qualche leggerezza, immaginando che alla mia varia conoscenza di ambienti monastici di antica e nuova obbedienza ne avrei facilmente aggiunto un altro che del resto non mi era del tutto sconosciuto: ero già stato a Serra San Bruno il 5 ottobre del 1984 per la visita di Giovanni Paolo II. L’impresa non è stata così facile e ho dovuto lavorare molto più di quanto immaginassi ma debbo riconoscere che anche il profitto è stato maggiore.

I tre giorni di colloqui con il priore – nei quali ho condiviso la vita dei monaci – e le otto settimane di lavorazione di quanto in quei colloqui avevo raccolto mi hanno costretto ad ampliare il campo dell’indagine. Ma la parola “costretto” non è adatta a esprimere quello che mi è capitato nelle ore di colloquio diretto con il priore e in quelle del colloquio a distanza che ne è seguito e che ho condotto riascoltando e sistemando le domande e le risposte registrate su nastro. Forse posso dire che l’incontro con la certosa e la conversazione con il priore mi hanno come calamitato con forza e insieme con soavità in una riflessione senza rete sull’umanità di oggi e la sua possibilità di stare di fronte al mistero in continuità con l’esperienza che di tale mistero ci tramandano le Scritture e i Padri del deserto e quelli che nei secoli, in Oriente e in Occidente, hanno posto mano alla stessa impresa.

L’attualità del Vangelo nel terzo millennio, la possibilità dell’incontro con Dio nel silenzio e nella preghiera in un’epoca di crescente stordimento, l’opportunità di riscoprire – incalzati dal bisogno dell’umanità di oggi – un Dio della misericordia e del perdono che accoglie e non giudica, che rispetta la libertà dell’uomo e lo precede nel cammino che egli sceglie di percorrere, sia pure quel cammino sbagliato e comunque diverso da quello che il Signore aveva per lui immaginato: di questo e di altro abbiamo parlato il padre Jacques ed io in quelle settimane di colloquio prima diretto e poi virtuale che per me sono state ricche di insegnamenti.

Suggerisco al lettore di lasciarsi guidare in questo progressivo ampliamento del campo di indagine, affidandosi al ritmo discontinuo e ricco di rilanci di una conversazione a 360 gradi tra un monaco e un giornalista: divagante il giornalista nel suo intento esplorativo, concentrato il monaco nell’impresa di comunicare quello che in cella ha contemplato. Ne è venuta una trattazione dall’andamento – si può dire – circolare o a elica, che cioè svolge i diversi argomenti avendo cura di raccordarli alla questione centrale dell’umanità che si pone alla ricerca di Dio. O per dire meglio: di un’umanità che “oggi” si ponga a quella ricerca.

Sia colui che interroga sia colui che risponde affrontano via via i diversi aspetti della vita monastica restando agganciati a quel perno e facendo in modo che la loro investigazione non si fermi alla giornata, o alle attività, o ai gesti, o ai cibi del monaco – dei quali pure si parla – ma giunga a trattare dell’esperienza della “tenerezza” del Signore che, attraverso quella giornata e quelle attività e quei gesti e quei cibi, alcuni uomini a ciò chiamati dallo Spirito si prefiggono di perseguire con totale affidamento. Quando incontra in queste pagine – e ciò avviene a più riprese – l’espressione “tenerezza del Signore” il lettore raddoppi la sua attenzione perché a mio parere quelle parole segnalano il punto di arrivo della meditazione del priore.

Chi prende in mano questo libro non tema di andare incontro a una materia troppo ardua: della più ampia conversazione con il priore ho qui riportato solo quello che mi risultava chiaro e vi assicuro che ciò che intende un giornalista lo possono intendere tutti. Il padre Jacques è un uomo colto, di formazione scientifica e poi teologica, ma è anche uno che ama le storie e i paradossi. Anch’io li amo. Ho dunque fatto spazio a tutti gli apologhi, le parabole, i motti e i racconti che il padre ha citato nella conversazione e non ho tralasciato nessuna sua riflessione che iniziava con le parole «anche qui troviamo un paradosso». Mi sono fatto spiegare ogni parola che mi dava qualche vertigine – perché a me sconosciuta o perché mi risultava usata in un contesto sorprendente – e ho messo per iscritto tutte le spiegazioni.

Da studente il padre Jacques ha molto amato il volume del padre gesuita Henri De Lubac – poi cardinale – intitolato Paradosso e mistero della Chiesa (tradotto in Italia dalla Queriniana nel 1969). L’abbiamo evocato nel nostro dialogo. «Sia nella Bibbia, sia nei Detti dei Padri si trova tutto e il contrario di tutto», mi ha detto il padre a spiegazione del suo modo di procedere: «Dio che castiga e Dio che perdona: ne abbiamo avuta un’eco questa notte nei Salmi del Mattutino. Dio che è uno e trino. Cristo che è Dio e uomo. Maria che è Madre e Vergine. La Chiesa che è peccatrice e santa. Io mi diverto quando incontro questi paradossi e trovo che il Signore ha avuto un’immaginazione incredibile a crearli e a ispirarne la percezione. Credo l’abbia fatto per farci uscire dalle nostre categorie, che sono sempre tendenzialmente rigide: questo è bianco e non può essere nero. Nell’intendere la divina fantasia gli orientali sono avvantaggiati rispetto alla nostra mentalità cartesiana. Il Signore ci ha voluto avviare a comprendere l’ampiezza della Verità».

Quando ho incontrato il padre Jacques qualcosa già conoscevo del mondo dei monaci e dei certosini. A suo tempo avevo visto il film Il grande Silenzio di Philip Gröning girato alla Grande Chartreuse. Recentemente mi aveva dato qualcosa un altro film intitolato Uomini di Dio riguardante il martirio dei sette trappisti di Tibhirine, in Algeria. Alla lettura dei Padri del Deserto e della Regola di San Benedetto ero stato avviato fin dagli anni in cui frequentavo all’Università La Sapienza le lezioni di Maria Grazia Mara storica del cristianesimo. Sono stato amico di don Benedetto Calati e suo ospite al monastero di Camaldoli. Frequento Bose ed Enzo Bianchi, so qualcosa del nuovo monachesimo di don Giuseppe Dossetti. I tre giorni vissuti nella certosa di Serra San Bruno mi hanno aiutato a recuperare e a intendere quelle letture e quelle esperienze. A portarle all’unità.

In questa riconduzione all’unità di quanto in precedenza avevo variamente conosciuto dell’esperienza monastica, mi ha fatto luce – come una lanterna nella notte – il canto sobrio e ininterrotto dei certosini, quando si riuniscono in chiesa per il Mattutino, per la Messa conventuale e per il Vespro. Il Mattutino dura dalle due alle tre ore e inizia alle 00.30, cioè mezz’ora dopo la mezzanotte. Nelle certose per antica consuetudine si dorme una prima parte della notte poi ci si alza, si canta a Cristo per due o tre ore e poi si torna a dormire fino al mattino Quegli oranti perpetui mettono a dimora nella loro notte – come piantine nella terra – le due ore di salmi e inni e di loro ascolto nel buio.

Un’altra chiave per la spiritualità della certosa credo di averla trovata nel Confiteor del Rito certosino – questi monaci hanno un loro Rito, molto simile ma non identico al Rito Romano – che dice «Confesso a Dio Onnipotente di aver molto peccato per superbia in parole opere e omissioni». Con insistenza, nelle quattro conversazioni che compongono il volume, il padre Jacques torna sulla “fonte” di tutti i peccati che è la superbia e sullo spirito di “competizione” che intralcia la vita comunitaria e ci rende arduo intendere il passo che il Signore vorrebbe prendere con noi, egli che «non è competitivo ma misericordioso». Ho trovato che nelle due parole «per superbia» di quel Confiteor – parole che non sono nel Confiteor del Rito romano – è detta in nuce tutta quella pedagogia.

La conversazione presenta qualche parziale ripetizione, o ripresa di argomenti, nel passaggio da un capitolo all’altro. Avevo immaginato di toglierle, ma mentre tentavo di dare esecuzione a questa idea mi sono reso conto che organizzando rigidamente per temi l’intero dialogo si perdeva qualcosa. Più volte qui si torna sul silenzio, sulle lacrime, sul grido a Dio, sulla notte e così via e credo che questi ritorni – come per un visitatore un nuovo giro intorno al Davide di Michelangelo o intorno al Colosseo – aiutino il lettore, come aiutarono me in quei tre giorni, a entrare meglio in una materia nuova.

Nelle risposte del priore ci sono espressioni tipiche di un francese colto che ha studiato e usa quotidianamente l’italiano, ma che non pensa nella nostra lingua. Ho cercato di ridurre al minimo i francesismi e altri portati della sua formazione culturale, ma qualche volta ho preferito lasciare le sue espressioni originali, seppure imperfette nel dettato italiano, perché più espressive della sua forte intelligenza e della sua fatica di farsi da francese italiano.

«Le faccio una confidenza» mi ha detto il padre Jacques quando eravamo giunti a metà della fatica «lei è un giornalista, è un uomo della parola ed è abituato alle conversazioni prolungate, che invece per me sono faticose e rappresentano un momento di prova. Mi trovo fuori del mio ambiente, strappato dal silenzio che è la mia casa. Tutte queste parole che ho detto e che dirò a che serviranno? Non posso non chiedermelo e glielo dico per la verità che deve esserci tra noi». Ringrazio il padre Jacques per aver resistito in quella prova e per aver aiutato me e chi leggerà a intendere qualcosa di ciò che egli ha maturato in tante notti e giorni e anni di vita certosina. Non è poco e lo ringrazio anche a nome dei lettori, io che sono stato il suo primo uditore.

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