“Ero senza documenti e mi avete rimpatriato”

Se Gesù raccontasse oggi la parabola delle pecore e delle capre

“Piangevo per la disgrazia di aver procurato involontariamente la morte di una persona in autostrada e voi avete detto che mi stava bene”.
“Non conoscevo la lingua e voi che eravate allo sportello mi avete detto: torna al tuo paese”.
Matteo 25, 32s: “Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra”.
Quello che succede alle pecore l’abbiamo visto il mese scorso, portando a oggi la fame e la sete, il carcere e la nudità, la malattia e l’espatrio. Guardiamo ora alle capre:

Lontano da me maledetti
nel fuoco eterno

“Poi dirà anche a quelli che saranno alla sinistra: ‘Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato’. Anch’essi allora risponderanno: ‘Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?’ Allora egli risponderà loro: in verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me” (Matteo 25, 41-46).
Forse ci è stato spontaneo riconoscerci in qualche pecora del buon soccorso. In effetti abbiamo fatto negli anni alcune adozioni a distanza, la prima volta perché erano organizzate dai colleghi di ufficio ma poi le abbiamo continuate in proprio. Due o tre volte abbiamo portato un piatto alla barbona sottocasa, ricordandoci del sarto del capitolo 24 dei Promessi Sposi che manda la “bambinetta maggiore” da “Maria vedova” con un piatto e un fiaschetto di vino. Abbiamo prestato a due conoscenti sapendo che non avrebbero potuto restituire. Abbiamo rinunciato al panettone aziendale per darlo alla Caritas. Tra mille difficoltà ci siamo adoperati per stare vicino a un ragazzo finito in carcere.
Le opere di misericordia familiare sono state più corpose. Abbiamo tenuto i nostri vecchi in casa fino all’ultimo giorno. O abbiamo passato un mensile al fratello che li aveva con sè, essendoci trasferiti in altra città. Non abbiamo lesinato sul numero dei figli e abbiamo combattuto la buona battaglia per provvederli di tutto. Quando si è ammalato un parente non familiare ci siamo attivati per assisterlo.
Più ancora abbiamo fatto indirettamente: contribuendo alle raccolte di Mani Tese e alle collette per terremotati e alluvionati, per le missioni, per Emergency. Abbiamo sostenuto i diritti degli immigrati sia in politica sia litigando con i vicini che raccoglievano firme contro una tenda di kurdi bivaccanti in piazzetta. Ci siamo impegnati perché i nostri figli accettassero di fare da tutor, in classe e a casa, per compagni immigrati che erano in difficoltà con la lingua e per un ragazzo sordomuto. Abbiamo scritto – essendo scribacchini – articoli e libri per l’accoglienza e l’inserimento e la non discriminazione sempre e dappertutto.
Ci chiedevamo se fosse abbastanza. Qualcosa comunque era. Ma eccoci alla seconda parte della parabola e di colpo scopriamo che era poco o nulla quello scampolo di impegno verso il prossimo che eravamo riusciti a costruire nei decenni.
“Avevo un tumore e non avete avuto neanche il coraggio di farmi visita all’hospice”.
“Ero in attesa di un trapianto di midollo osseo ed eravate miei consanguinei e compatibili e avete detto: non ho il coraggio di andare sotto i ferri”.
“Avevo rischiato tre volte la morte per sbarcare in Italia, provenendo dal Corno d’Africa e attraversando il Sahara e il mare, e mi avete detto: non hai i documenti”.
“Dopo lo sbarco e un viaggio su un camion mi ero accampato con moglie e figli sul prato davanti alla vostra chiesa e avete mandato i vigili a sloggiarmi perché quello spettacolo non era decoroso”.
Lo abbiamo fatto perché sta scritto che dobbiamo ardere di zelo per la tua casa e quella tenda davanti ad essa era uno sconcio per noi insopportabile.

La mia casa
è la tenda del povero

“Ma sta scritto anche che non dovevate mai distogliere lo sguardo dal povero perché il Signore sta alla sua destra”.
Abbiamo dunque sbagliato a salvare il decoro della tua casa?
“La mia casa è la tenda del povero”.
“Avevo sette figli da mantenere e vi ho chiesto aiuto e mi avete gridato che ci dovevo pensare prima di metterli al mondo”.
Ma quando mai ti abbiamo sentito in quella necessità e ti abbiamo parlato così?
“Tutte le volte che vi siete battuti perché fosse mantenuto lo stesso trattamento fiscale per chi è solo e per chi ha figli, sostenendo che i figli devono essere a carico di chi li genera”.
“Ero ferito e a terra dopo un incidente stradale e non mi avete soccorso dicendo: mi aspettano a casa e se mi fermo qui dovrò poi andare in Questura per il verbale”.
“Mi avete visto che camminavo nudo per via in preda alla follia e avete fatto finta di non vedermi. Un vostro figlio ha gridato ‘quell’uomo è nudo – che freddo che avrà’ e gli avete risposto: non ha freddo perché è abituato e gli piace girare così”.

Ero invalido
e mi avete rubato il posto

“Ero un barbone e la vostra figlia quando mi dava la moneta si accoccolava accanto a me per salutarmi ma voi la portavate via dicendo che ero sporco: un’altra volta gli dai la moneta ma non lo tocchi e non gli parli”.
“Ero Down e vi siete organizzati in comitato per impedire che il mio gruppo fosse ospitato nell’albergo che dava sulla piazza centrale del paese”.
Ma quando Signore abbiamo saputo che facevi parete di quel gruppo? Che il Figlio dell’Uomo, il primo tra le creature, avesse la testa rotonda e gli occhi a mandorla?
“Ogni volta che avete allontanato un bisognoso l’avete fatto a me. Appartengo a ogni gruppo di bisognosi e ho tutte le sindromi che provocano disagio”.
Eri anche tra i mendicanti che ci venivano incontro con i loro bicchieri di plastica e non potevamo mai capire se fossero davvero bisognosi o non fossero invece dei profittatori?
“Ero tra loro e ho memorizzato ogni gesto benevolo e ogni fuga. Chiedevo l’elemosina alla porta della chiesa per dare da mangiare ai miei figli e mi avete detto: vendi il tuo dente d’oro e così li sfami”.
“Ero invalido e vi siete opposti all’introduzione nella vostra azienda della norma che dava la precedenza alla mia categoria nell’assegnazione dei posti di lavoro. Non camminavo e avevo ottenuto un permesso per parcheggiare sotto casa ma voi con un falso permesso mi avete rubato il posto”.
Come potevamo immaginare che tu fossi in quella categoria? Ci avevano detto che eri il più bello tra i figli dell’uomo…
“Ero un africano malato di lebbra e di Aids e avete speculato sul costo delle medicine”.

“Guai a voi che ridete”
suona oggi insopportabile

Tu un lebbroso, tu un malato di Aids?
“Io verme e non uomo”.
Più le giro intorno e più mi accorgo d’essermi fermato sempre poco su questa seconda parte della Parabola del Giudizio. Già l’attacco “lontano da me maledetti” mi mette a disagio proprio come la tenda dei kurdi in piazzetta, con quella puzza e le lattine intorno.
La parola “maledetti” mi ferisce anche quando la scrive a tromba un visitatore del mio blog, figuriamoci in bocca a Gesù. E’ come per i quattro “guai a voi” che nel capitolo 6 di Luca il Signore pronuncia a specchio delle beatitudini. Tengo spesso conferenze sulle “beatitudini oggi”. Quando vedo una sofferenza ricorro alla seconda beatitudine di Luca, che considero la parola più bella che sia risuonata sulla terra: “Beati voi che ora piangete perché riderete”. Ma come sopportare le quattro minacce che vengono dopo le beatitudini?
Nella traduzione Cei 2008 il paragrafo è intitolato “Benedizioni e minacce”. Peggio ancora con la vecchia edizione, dove il paragrafo era sdoppiato e i titoli erano: “Le Beatitudini”, “Le maledizioni”. E meno male che Beatitudini era maiuscolo e maledizioni minuscolo. In altre edizioni queste “minacce” sono dette “moniti”, o “lamentazioni”. Ma la sostanza non cambia.
Eccomi dunque alla dura prova: “Guai a voi, ricchi, perché avete già ricevuto la vostra consolazione. Guai a voi, che ora siete sazi, perché avrete fame. Guai a voi, che ora ridete, perché sarete nel dolore e piangerete. Guai, quando tutti gli uomini diranno bene di voi”.
Mi sforzo di imparare a memoria tutte le parole di Gesù riferite dai Vangeli, ma queste “minacce” non sono ancora riuscito a tenerle a mente. E sì che è Luca a riferirle: lo scriba della mansuetudine di Cristo. Ma ho ben capito che le devo frequentare di più, come debbo dare al brano di Matteo “lontano da me” la stessa attenzione che do al “venite benedetti”.

Non sono “maledizioni”
ma segnali di pericolo

Se le “beatitudini” erano “segnali di speranza”, nei quattro “guai” abbiamo dei “segnali di pericolo”: così si esprime Ratzinger-Benedetto a pagina 122 del primo volume intitolato Gesù di Nazareth (Rizzoli 2007). Mi pare di capire il pericolo di essere ricchi, sazi, ridenti e lodati: se siete ricchi rischiate di chiudervi nella vostra fortuna, avendo già avuto; mentre dovreste sapere che la vostra salvezza dipenderà dall’uso che farete di quella ricchezza.
Nietzsche intese le parole “guai a voi che ridete” come una condanna del riso e definì quella condanna “il più grande peccato”. Dovremmo invece intenderle come un monito a non ridere da soli e ad aiutare il riso altrui per arrivare un giorno a ridere tutti. E ciò sarà solamente “nel Regno del Padre mio”, dopo che avremo udito le parole: “Venite benedetti perché piangevo e mi avete aiutato a ridere”.

Da Il Regno 22/2011

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