Antonino e la prozia morente che diceva “sto bene”

Un giovane uomo va a salutare la prozia morente per tumore e le porta – perché le conosca – la moglie e la figlia piccina. Dopo un mese e mezzo la prozia muore avendo detto poche ore prima, ancora una volta, “sto bene”. Raggiunto dalla notizia della morte, quel giovane ricorda, piange e loda il Signore per lei, grande dono fino ad allora poco considerato. Il suo nome è Antonino D’Anna e questo è il racconto che ne ha scritto per me.

 

Domenica 5 febbraio un tumore si è portato via la mia prozia Anna, 78 anni che il giorno dell’ultimo Natale così mi raccontava della religione dell’altro ieri: “Al tempo del bisnonno Michele la fede era solo per le donne”. La mattina di Natale mi ero presentato a casa sua con mia moglie Erica e la nostra bambina Sara e abbiamo passato qualche ora indimenticabile con lei che era ormai ridotta a 43 kg di fede e amore. Si è sforzata di sorridere e parlare con me, abbracciare mia figlia e salutare  mia moglie con le lacrime della commozione. Ha attraversato la malattia senza una parola di disperazione. Ha sempre concluso le sue conversazioni, fino a sabato notte con mia madre, dicendo: “Sugnu bòna”, sto bene. Lo diceva ultimamente tra una fase di coma e l’altra. Sempre pregando, sempre serena.

Ho pianto in silenzio alla notizia della sua partenza e mi sono reso conto di non aver pianto per quello che le è toccato. Ho pianto di consolazione e ho avvertito che lei è in Paradiso. Ha ritrovato i suoi genitori, ha incontrato l’amore di Dio. E questo mi dà gioia. Mi dà dolore sapere che non posso trovarla facendo un numero (ma un giorno ci rivedremo, spero), mi dà dolore sapere che questa donna mi ha voluto bene e non sono stato capace di dirle che anche io a modo mio le ho voluto bene e avrei potuto volergliene di più.

La mia prozia adesso è libera di venirmi a trovare quando vuole: vede mia figlia crescere, alzarsi, ruzzolare. Ride e non soffre e continua a comunicare amore.

Quando da studente andavo a trovarla, lei arrivava accompagnata dalla sua cagnetta, Pallina. Mia madre le diceva: “Và chiama ‘a zia”, la cagnetta abbaiava, svoltava l’angolo, entrava in casa della prozia e si faceva capire. Allora lei arrivava, col grembiule celeste e il sorriso allegro in volto, mi salutava, mi regalava 50.000 lire (poi divennero 50 euro) e mi diceva: “Così ti prendi un caffè all’università”. “Costano cari i caffè a Milano”, rispondevo io. Poi mi salutava con la sua bontà: “Va’, figghiu, va ‘n santa paci”. Vai figlio, vai in santa pace. Lei non aveva avuto figli. Detto velocemente quello ‘n santa paci diventava ‘nzantapaci.

Domenica pomeriggio dopo averla pianta, ho guardato fuori dalla finestra. Era una giornata di sole, malgrado il freddo. Mi è sembrato un saluto. E allora gliel’ho detto io: va’, zè Janna, va‘nzantapaci! Vai, zia Anna, vai ‘nzantapaci.

 

[Febbraio 2012]

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